il mio cinema a New York

New York…. Adoro questa città. I LOVE NEW YORK!!!! La amo da prima di averla visitata. E forse l’avevo visitata ancor prima di andarci di persona. Non la conoscevo: quando ero un bambino un pò snob la pensavo e la immaginavo come una città troppo moderna, senza personalità, alla quale mancava la storia e monumenti importanti come ad esempio il Colosseo, o i Canali di Venezia…. Poi durante l’adolescenza iniziai a sentirmi Fotografo e Viaggiatore e iniziai a rivedere le mie idee su questa fantastica città….

Le prime esperienze di conoscenza le ho avute al cinema, quando iniziavo a vedere il grande cinema americano e a rendermi conto che forse da grande sarei diventato Fotografo. Iniziai a vedere le ambientazioni dei film più belli e a scoprire che New York era raccontata come una Protagonista della storia, e non come una ambientazione di alcune scene. New York è la città che influenza chi ci vive e ci lavora. Il rapporto è inverso a quello che succede nel resto del mondo: qui non sono le persone ma è la città stessa a raccontare le storie, la gente le vive di conseguenza. Mi resi conto che questa città era molto più di un set cinematografico a cielo aperto e disponibile agli occhi di chiunque, era il soggetto dei film, era la storia stessa, viveva di vita autonoma come un protagonista. Scoprii che dentro di me cresceva il mito della città e che oltre ai film iniziava a vivere anche dentro di me fin quando decisi che la mia iniziazione a NYC sarebbe stata nel modo più profondo: correndo la Maratona di New York. Erano passati 15 anni da quando iniziavo a pensare di andarci.

Appena arrivato, la mia prima impressione fu quella di esserci già stato, di averla già vista. Mi rendevo conto che quello che vedevo nei film non era finzione cinematografica ma era tutto vero, tutto incredibilmente uguale a 1000 scene di film a me già noti eppure, mi meravigliavo di quanto, allo stesso tempo fosse tutto nuovo. Quello che cambiava erano sicuramente le percezioni di ciò che stavo vivendo in prima persona e non al cinema.

New York sa accoglierti, non solo perchè i posti che vedi per la prima volta in realtà già li conosci, New York è anche la città in cui come dice una canzone degli U2 le strade non hanno nomi perchè sono identificate da numeri e questo vuol dire che anche senza mappa sai sempre dove sei e dove devi andare, tutto questo rende la città accogliente e familiare pur essendo una metropoli enorme.

Non parlerò di Cinema, di attori e registi, nè recensire tutti i film, non sono un Critico, oggi voglio raccontarvi di quello che ho provato io, di quelle che sono state le mie impressioni nel vivere la città come in un set, come se anche io fossi protagonista di un film che si stava girando a mia insaputa. Guardate questi film, quanto sono diversi tra loro, diverse le storie, i modi di raccontarle, le epoche e le ambientazioni eppure tutti, chi in un modo, chi in un altro, hanno significato molto per me.

Da quel giorno sono tornato a New York per 7 volte e ci torno ogni anno a fotografarla, a scoprirla, ad amarla come una generosa amante che si sappia dare senza limiti a chiunque voglia sentirla sua.

La febbre del sabato sera

E visto che abbiamo iniziato dalla musica e dalle eleganti sonorità di Manhattan, restiamo in campo musicale e spostiamoci a Brooklyn. La Febbre del Sabato Sera non viene ricordata per la città, ma per la sua storia. Ma voi sapreste immaginare una storia come quella di Tony Manero in una città diversa da questa? La colonna sonora dei Bee Gees ha modificato il ritmo del battito cardiaco di quelli della mia generazione. Ero un bambino, nel 1978 quando uscì questo film che vidi anni dopo perchè vietato ai minori di 14 anni… Ma vedere quella metropolitana che volava su una ferrovia sopraelevata, vedere quelle case e la Lenny’s Pizza e sapere che oggi è tutto come allora mi ha fatto sussultare…

New York, New York

Il titolo del film già dice tutto e prende il nome dalla omonima canzone cantata da Liza Minnelli che ha legato meglio di qualunque altra una melodia alla città di New York. Più che il film, in questo caso è proprio la Colonna Sonora ad aver generato in chiunque di noi un immaginario onirico legato alle atmosfere di questa città. Accendete le casse del Vostro computer e fate play su questo video… E magari leggete anche il testo della canzone che non può che riportarvi al vero spirito di questa città incredibile: I wanna be a part of it e in effetti ci si sente davvero perte integrante di questa città, anche quando non la si conosce ancora. I wanna wake up in the city, that doesn’t sleep svegliarsi nella città che non dorme mai…. If I can make it there, I’d make it anywhere e questo senso di universalità che davvero si sente forte a NYC.

Smoke

Rimaniamo ancora a Brooklyn e facciamo un salto nel tempo fino al 1995…. Erano questi gli anni in cui sentivo fortissimo il bisogno di andare a New York, a vivere questa città e facevo indigestione di chilometri di pellicola, mi saziavo solo con ore e ore al buio dei cinema di Latina a sognare di attraversare l’Oceano Atlantico per entrare in una tabaccheria come questa, a vedere e parlare con gente come gli amici del tabaccaio, ad ascoltare le loro storie e a fotografare tutto questo per raccontarlo con le mie immagini. In questo film c’è uno spaccato della vita newyorkese, la cosa incredibile è che Brooklyn è solo uno dei 5 quartieri di New York ed è immenso, è il più grande, eppure la vita lì è come quella che troviamo nei paesini dell’Appennino italiano! A Brooklyn ci si conosce tutti, la vita scorre tranquilla, i tempi non sono quelli di Manhattan, ci si può intrattenere  a parlare di filosofia con gli amici… Ovviamente ogni volta che torno a New York con i Gruppi di Viaggio Fotografico, non manchiamo mai di andare a Brooklyn in diverse zone tutte da esplorare…

Harry ti presento Sally

Vidi questo film a Roma mentre ero militare, marzo 1990, all’epoca si entrava gratis al cinema purchè ci si presentasse all’ingresso in divisa. E così feci vestito da marinaio: “Militari gratis“. Naturalmente vidi il film da solo, non erano questo un film da andare a vedere con i commilitoni, molto più propensi per altri film diciamo di… “genere”… Non potrò mai dimenticare le risate nel vedere questa scena che vi ripropongo qui di seguito che poi a sua volta è diventata una delle più famose della storia del cinema anche in chi il film non lo ha visto! Girata in un ristorante di Manhattan nel quale andiamo sempre con i Gruppi di Viaggio Fotografico a riviverne le atmosfere. Il locale in più di 25 anni non è cambiato di una virgola, se non nell’aver inserito una foto del set in un quadretto con le firme del cast del film!

C’era una volta in America

Questo è l’unico film italiano che posso evidenziare in questa rassegna tra quelli che mi hanno legato alla città di New York. In realtà dovrei ricordare per completezza e con un sorriso anche altri due titoli italiani come: “Da Corleone a New York” con Mario Merola e il famosissimo “un jeans e una maglietta” con Nino D’Angelo… Ma torniamo al nostro Sergio Leone che con questo film ha scritto delle pagine di autentica poesia cinematografica con le musiche del Maestro Ennio Morricone, l’inquadratura più famosa del film è anche questa meta delle nostre visite ed è quella che si vede in questo spezzone in cui in fondo alla strada si erge imponente il pilone del Manhattan Bridge. Posso garantirvi che è uno dei posti più pazzeschi in cui andiamo a fare le nostre foto…

King Kong

Immancabile film storico, girato subito dopo la costruzione del mitico Empire State Building…. Le sue inquadrature sono inscindibili dalla storia della città e di questo che è il più classico e affascinante dei suoi edifici. Il film oggi, naturalmente fa sorridere, ma gli effetti speciali ottenuti allora facevano urlare al miracolo. Questo film lo ricordo più per come il film viene vissuto nel merchandising che si trova nei negozietti di souvenir che per aver modificato il mio immaginario della città di New York. Andare oggi a Chinatown o in tutti gli altri negozietti di paccottiglia per turisti che si trovano in giro, significa imbattersi nelle icone classiche di questo film.

Autumn in New York

Pellicola strappalacrime, ma con ambientazioni fantastiche nella città e in particolare le più famose a Central Park in autunno, quando gli alberi si infiammano di rosso, le scene di interni sono meno facili da raggiungere per ovvi motivi, ma il cinema a New York va visto e vissuto in strada, i set sono dovunque. La Fotografia di questo film è così bella, e il titolo così evocativo che lo leghiamo ad un immaginario rasserenante invece che alla storia tristissima vissuta dai protagonisti…. Ma quando vai a Central Park in autunno e vedi che è veramente bello come nel film allora tendi a dimenticare la storia e a goderti il momento e i luoghi fantastici che hai davanti.

Il Maratoneta

Rimaniamo ancora a Central Park dove sono ambientati gli allenamenti del Maratoneta, Dustin Hoffman, che vive una storia completamente staccata dal pretesto sportivo del titolo. Ma un film come questo ti entra nel sangue, fa parte del tuo DNA e quando vai a New York, ti infili le scarpe e vai anche tu ad allenarti lungo le sponde dei laghetti correndo intorno a quei recinti ecco…. Lì senti che la tua vita può finire anche in quel momento. Ve lo voglio dire: correre a Central Park (anche non necessariamente al traguardo della Maratona di New York) è la massima realizzazione che uno sportivo possa avere. Correre in un posto del genere, circondato da alberi e grattacieli ti fa sentire all’interno del film visto magari anni prima. Quando ero lì al quarantunesimo chilometro sentivo svanire la fatica e aumentare l’adrenalina: vivevo in un sogno che si realizzava due volte, sia dal punto di vista sportivo che cinematografico.

Colazione da Tiffany

Altro grandissimo classico della cinematografia newyorkese: la gioielleria più famosa del mondo continua la sua attività sulla 5th Avenue. E anche in questo caso nulla è cambiato negli anni. Lo stile sobrio ed elegante di questo sfavillante negozio resta sempre unico. L’anno scorso siamo anche entrati a curiosare all’interno, non avevamo mai avuto il coraggio di varcare la porta e andare oltre le vetrine. Pur essendo un uomo e piuttosto distaccato dal fascino dei Preziosi, ricordo che mi sconvolse la vista di una collana che brillava di luce propria e aveva al centro un rubino grande come un uovo e tempestato di brillanti. Per curiosità mi presentai (vestito da Fotografo con fotocamera, bermuda e maglietta visto che era piena estate) da una elegantissima venditrice a chiederne il costo, mi rispose con molto tatto: “Quello non ha prezzo, Signore”… Credo però che non me lo avrebbe detto neanche se fossi andato in giacca e cravatta….

i Guerrieri della notte

Guerrieri avete paura???” chi non ricorda quella scena??? Un film degli anni ’70 girato in gran parte nei lunghi e luridi corridoi della metropolitana, racconta la storia delle gang newyorkesi che si davano battaglia per il controllo del territorio. Una carrellata di tipi umani che ci raccontano di stili di vita passati ma tanto in voga fino a pochi anni fa. Già la sigla del film che vediamo in questo spezzone è evocativa e ci porta immediatamente ai luoghi del film, al Bronx all’epoca invivibile e degradato quartiere nero inaccessibile ai bianchi. Oggi, dopo Rudolf Giuliani il Bronx gode di una nuova vita, è un luogo tranquillissimo in cui andiamo sempre a fare i nostri scatti più originali e lontani dai soliti itinerari turistici.

Il diavolo veste Prada

E passiamo dalle “stalle alle stelle”, al contrario, stavolta…. Passiamo dal Bronk lercio alle atmosfere patinate e perfette di quest’altro film molto più recente ambientato negli ambienti della moda newyorkese, con le classiche icone da stress lavorativo e competitività professionale americana. Qui New York è esaltata alla massima potenza. Vedendo questo film ho ripensato alla New York che rifiutavo quando ero bambino, ho visto un mondo lontano dalle strade che amo percorrere e fotografare in questa città. Eppure il fascino che emana anche questo film è unico, così come il personaggio irritante di Maryl Streep.

Fame – Saranno Famosi

Immancabile dopo l’arrivismo economico del Diavolo veste Prada, passiamo alle aspirazioni artistiche e di fama della più famosa scuola di danza della storia del cinema. Il film lo conoscono tutti, racconta gli intrecci delle storie degli Allievi che vogliono crescere e diventare famosi, imporsi per stile e personalità. Divisi tra audizioni e spettacoli, tra formazione e allenamento, tra amori e passioni. Il film a cui facevo riferimento era quello originale del 1980, ma devo dire che il remake che vi propongo qui per una volta tanto è meglio della prima edizione. E anche qui New York è la protagonista della storia, da Times Square alla metropolitana, dalle strade sconosciute alla famosa scuola.

Manhattan

Il film per eccellenza di Woody Allen su New York, dal titolo alla prima scena sono tutti girati nel più incredibile dei 5 Quartieri di New York: Manhattan, quello a più alta concentrazione di grattacieli, quello che è il vero cuore pulsante, il vero baricentro del mondo economico e culturale. Tutto il resto del film parla della città, con la mitica scena della locandina girata nei pressi del Queensboro Bridge dove ogni volta andiamo a fare i nostri appostamenti fotografici al tramonto. E il bello di New York è proprio questo: puoi andare a fotografarla e trovarla sempre lì come era nel film ed è ancora a tua disposizione per trasmetterti tutto il suo fascino. Il Bianco e nero di questo film da alla città un fascino immutabile e senza tempo, un Fotografo certe cose le sente, le percepisce vive, forti e chiare.

Una notte al museo

Il Museo di Storia Naturale è una esperienza meravigliosa da non perdere e purtroppo troppo spesso snobbato dai più come un luogo per bambini. La visita del museo richiederebbe una intera giornata, ed è questo il motivo per il quale non ci andiamo quasi mai a visitarlo, se non in caso di pioggia. Il film, questo si, è rivolto ad un pubblico decisamente giovane, ma è ambientato in un edificio pieno di fascino e curiosità e non si può non citarlo tra i film dedicati alla città.

Eyes wide shut

E dopo un film per bambini, passiamo al grandissimo Stanley Kubrick e al suo ultimo capolavoro girato nei “piani alti” di Manhattan. Vidi per la prima volta questo film da solo, in un multisala di Frosinone, ultimo spettacolo di una fredda sera infrasettimanale… New York ormai iniziava ad essere più vicina per me, ancora non lo sapevo ma 2 anni dopo ci sarei andato per la prima volta, e vedendo Eyes wide shut sono rimasto letteralmente ipnotizzato davanti a quello schermo, devo dire abbastanza congelato da una serie di fortissime emozioni in un mix di paura e di esaltazione, coinvolto in una storia avvincente e con nessuno per commentarla, confrontarmi, gioire o indignarmi. La New York che vediamo qui è quella sfavillante di luci e di ricchezza, una città massonica, in un giro di poteri politici ed economici, di ricatti e scambi. Non è certo la città che vediamo noi, ma è una New York che esiste in certi ambienti e che riguarda magari quello che è seduto affianco a noi in metropolitana. La colonna sonora è l’ennesima mossa geniale del grande regista, non puoi non rendertene conto mentre guardi il film, è in grado di svuotare i silenzi, di esaltare le atmosfere fosche e misteriose dense di noir e di trasgressione in cui è ambientato il film. La coppia Tom Cruise – Nicole Kidman è magistralmente diretta ed interpreta anche nel film una coppia molto reale fatta di intrighi, tradimenti, passioni e colpi di scena.

 

C’è posta per te

Commedia romantica girata agli esordi della Posta Elettronica, quando ancora non esistevano i Social, i siti di incontri ecc, stiamo parlando degli albori di questi sistemi di comunicazione: il 1998. Con Meg Ryan e Tom Hanks, è la storia di due personaggi assolutamente incompatibili sia dal punto di vista professionale che umano che si incontrano di persona e si odiano e si evitano come possono, ma per puro caso, nell’anonimato delle primissime email che iniziavano a girare in quel periodo, i due, senza conoscere le vere identità l’uno dell’altro si scoprono innamorati reciprocamente e sinceramente pur continuando ad odiarsi di persona. Anche in questo caso l’ambientazione ovviamente è  New York.

Il resto del film e il finale sono una storiella all’americana, è bello rivedere oggi al nostro recente passato come se parlassimo della preistoria informatica….

Ruth & Alex

Finisco questa mia personalissima carrellata emozionale con un film del 2015 che vede Morgan Freeman e Diane Keaton in versione marito e moglie che vivono in uno splendido attico nel quartiere di Williamsburgh con vista sull’omonimo ponte e naturalmente sullo skyline di Manhattan. Vedendo il film, una bella storia ben diretta, mi sono innamorato di questo quartiere di tipica vita newyorkese e lontanissimo dagli itinerari turistici. Sono andato a fotografare Williamsburgh pochi mesi dopo aver visto il film, è una zona multietnica della città in cui la vita scorre lentamente, in cui la gente esce a piedi per strada e si muove in metropolitana, in cui si va a fare la spesa sotto casa e dove la sera puoi prendere un drink su una terrazza come quella del film… Torneremo a fotografare Williamsburg su un nostro itinerario tra locali retrò e gente comune, lo faremo perchè…. I LOVE NEW YORK!!!!!

Un giorno di pioggia a New York

Commedia di Woody Allen del 2019 in cui la storia si intreccia in modo magistrale come solo un grande regista sa fare tra due ragazzi che vanno a passare un weekend nella grande città con una serie di incontri sotto la pioggia. Notevole davvero è la ricostruzione fotografica sul set: la luce della fine della giornata con il sole che tramonta con una luce calda mentre sui protagonisti ancora cade la pioggia… New York è così: da vivere in ogni attimo, con ogni condizione meteo: il suo fascino non tramonta mai.

 

The Wolf of Wall Street

uno straordinario Leonardo Di Caprio diretto da Martin Scorzese nel pieno della sua arte cinematografica, racconta la storia vera di Jordan Belfort, “Il Lupo di Wall Street” nato nel Bronx che negli anni ’90 ha fondato “Stratton Oakmont” vendendo azioni per penny e truffando gli investitori e conducendo uno stile di vita pieno di eccessi, droga, prostituzione oltre che operazioni finanziarie scriteriate.

Il film racconta con un ritmo mozzafiato la storia dell’ascesa di questo uomo e la sua caduta. Di Caprio risulta credibile nel suo ruolo e New York, in particolare Wall Street fa da sfondo sociale a tutta la storia.

Ghost

chi come me ha vissuto tra gli anni ’80 e ’90 non può dimenticare la scena di Ghost famosa per demi Moore che lavora il suo vaso con l’abbraccio emotivo del suo fidanzato morto pochi giorni prima… Al dilà della favoletta strappalacrime comunque ben raccontata, forse non tutti ricordano che anche questo film era girato a New York e molte scene erano ambientate nella Subway, sui treni lerci e arrugginiti e nei corridoi fatiscenti della metropolitana… E noi in questo Viaggio Fotografico useremo più volte al giorno la metropolitana, la vivremo e sarà per noi un modo di viaggiare ancor prima che un mezzo di trasporto. La metropolitana di New York è un viaggio nel viaggio e se vuoi approfondire questo aspetto del viaggio te ne parlo qui in QUESTO ARTICOLO.

E’ morto Fulvio Roiter

Ricordo Fulvio Roiter fin da quando ero un ragazzino: mio padre comprò un suo libro fotografico e me lo mostrò. In verità mio padre non è mai stato un appassionato di Fotografia in senso stretto, ma quel libro ben fatto, quelle foto suggestive su Venezia e il suo Carnevale attrassero la sua attenzione di uomo curioso e affamato di cultura in senso generale e lo comprò insieme a migliaia di altri libri di arte e letteratura che avevamo in casa.
E quel libro finito in casa mia insieme ad una piccola collezione di altri Grandi Fotografi furono un pò la mia iniziazione fotografica. Non pensavo da anni a questi fatti, eppure quel libro iniziò a farmi sognare ad occhi aperti. Iniziò a mostrarmi un modo di raccontare il mondo con le immagini invece che con le parole.
Fulvio RoiterErano i rampanti anni ’80 e io guardavo quelle foto di Venezia scattate durante il Carnevale alla fine degli Anni’70. Sono passati quasi 40 anni e quelle immagini ci portano ad una Venezia che non c’è più. La Venezia di Fulvio Roiter infatti è una Venezia ancora relativamente poco turistica.
Roiter Passeggiata alle ZattereNelle sue immagini ci sono vastissimi scorci della città quasi completamente deserta, oggi sarebbe impensabile per chiunque poter pensare di scattare foto di giorno con Piazza San Marco vuota e senza turisti.
Ricordo che quando guardavo le foto di Fulvio Roiter (allora non avevo alcuna competenza fotografica, le sfogliavo come un quindicenne curioso troppo grande per leggere Topolino e troppo giovane per studiare Fotografia) mi appariva in tutta la sua forza il detto: “Quanto è triste Venezia”. Vedendo quelle foto Venezia mi sembrava davvero tanto triste, la nebbia del mattino, in alcune persino la neve, l’acqua alta e i le onde nei canali.
Roiter UmbriaAppena ho saputo della sua morte, che è stata oggi 19 aprile 2016 all’età di 89 anni, sono andato a cercare il suo libro che avevo gelosamente conservato in tutti questi anni e puntualmente l’ho ritrovato dopo 4 traslochi esattamente dove doveva stare, insieme agli altri libri della stessa Collana dei Grandi Maestri dei Fratelli Fabbri Editori. Si trovava in ottima compagnia, a stretto tra le copertine di Tina Modotti e Jeanloup Sieff (in ordine alfabetico) e poco più in là della stessa serie c’erano David Hamilton, Cartier Bresson e altri illustri colleghi. Stranamente il nostro Roiter era l’unico con la copertina grigia invece che nera… “Serie Argento“….
Roiter Cartolina

Riceviamo da Donatella Bisutti un bel contributo, un racconto vissuto in prima persona di un viaggio fatto con Fulvio Roiter. Un pezzo di vita vera, il ritratto di un grande Fotografo

RICORDO DI FULVIO ROITER – UN VIAGGIO IN CAPPADOCIA

Ieri è morto a 89 anni un grande fotografo, Fulvio Roiter. Abitava da anni al Lido di Venezia ed era diventato famoso soprattutto per le foto che aveva dedicato a Venezia e al suo Carnevale. Ma in realtà per anni la sua grande passione era stata viaggiare e aveva percorso mezzo mondo ricavandone una serie di libri fotografici che si distinguevano per il rigore e l’originalità compositiva con cui trasformava il reportage in opera d’arte secondo uno stile del tutto personale. Roiter era in certo modo un “pittore della fotografia”.

Io l’avevo conosciuto tantissimi anni fa e da allora eravamo diventati amici, anche con la moglie belga. Io allora ero una ragazza molto giovane e, per circostanze familiari – mio padre aveva fondato a Istanbul una società per conto della Pirelli – abitavo con i miei in Turchia, un Paese che mi affascinava e a cui per questo mi sento ancora legata. Ma siccome volevo tornare in Italia e costruirmi una vita mia – mi ero appena laureata, in Belgio, sempre per via del lavoro all’estero di mio padre – e sognavo di diventare giornalista, scrissi di mia iniziativa il diario di un viaggio alla scoperta delle antiche colonie greche dell’Asia minore, principalmente Smirne ed Efeso. Allora non c’era in quella regione alcuna attività turistica e gli archeologi francesi e tedeschi stavano solo cominciando a disseppellire rovine che ridisegnavano quelle città facendole risorgere da un paesaggio deserto, da cui nei secoli il mare si era ritirato. Fu così che scoprii, tra parentesi, l’archeologia – che fino ad allora avevo associato al chiuso un po’ muffito dei musei – come un’eccitante avventura. Mandai questo articolo all’unica rivista che avevo allora a portata di mano, e cioè alla rivista Pirelli, una rivista insigne che per qualche tempo aveva avuto come direttore anche un grande poeta come Vittorio Sereni. Il direttore di allora che credo fosse Castellani, dopo aver precisato che non pubblicava l’articolo per via di mio padre ma perché gli era piaciuto – e questo mi riempì di orgoglio, e riempì mio padre di stupore – a riprova di questo fatto inviò sul campo Fulvio Roiter che allora era ovviamente un giovane fotografo . Lui arrivò con la moglie Louise detta Lu, che per combinazione era belga, Paese in cui io avevo vissuto per anni. Facemmo subito amicizia. Fulvio Roiter allora non era ancora famoso, ma chi se ne intendeva lo considerava già un grande fotografo. Lui e la moglie erano una giovane coppia povera, perché lui era molto selettivo: non voleva lavorare per giornali e settimanali come avrebbe potuto, ma solo per due riviste che secondo lui gli davano la garanzia di una qualità di stampa ottimale, la rivista Pirelli appunto e la storica rivista svizzera Du. Avendo pochi soldi alloggiarono in qualche sorta di ostello e ricordo che venivano a fare la doccia a casa nostra.

Insomma Fulvio arrivò in una tenuta un po’ hippy e subito disse: ok, ho letto l’articolo e vado a fare le foto in Asia minore, però tu devi scrivere un altro articolo sulla Cappadocia e insieme dobbiamo andare a Goreme. Goreme oggi è famosa per le sue chiese e abitazioni scavate nel tufo ed é una delle mete turistiche privilegiate in Turchia, sfondo per ambientazioni cinematografiche. Ma allora nessuno ne sentiva parlare. Io c’ero stata qualche tempo prima con un gruppo della cosiddetta colonia italiana locale, che comprendeva alcune persone di origine italiana che vivevano a Istanbul o ci erano venute per lavoro, come un simpaticissimo professore di matematica napoletano che insegnava al liceo italiano, liceo che esiste credo ancora oggi. Avevamo noleggiato uno scassatissimo pullman e avevamo affrontato un viaggio non da poco. Di turisti nemmeno l’ombra. Credo che fummo i primi ad arrivare a Goreme. Ricordo che ci facevano entrare nelle case e ci facevano sedere a un tavolo, ci portavano frutta, dolci e loro in piedi ci circondavano e ci guardavano mangiare.

Le donne ci toccavano i vestiti per vedere com’erano fatti , palpare la stoffa, e siccome allora andavano di moda in Italia delle sottogonne di una sorta di crinolina, ci sollevavano le gonne per guardare sotto e così anch’io ne approfittai e scoprii che i loro pantaloni “turchi” erano in realtà gonne cucite nel mezzo.

Tornando a Roiter, non era possibile dirgli di no, anche se era estate e c’erano più di quaranta gradi. A Istanbul era arrivato anche il mio fidanzato, poi diventato mio marito, e mio padre gli affidò la sua macchina con mille raccomandazioni. Così partimmo in quattro per un viaggio di mille chilometri che si rivelò una vera avventura. Un’avventura indimenticabile. Il viaggio procedeva a rilento, perché Fulvio ogni poco gridava a Roberto di fermarsi perché aveva visto qualcosa da fotografare e si buttava fuori dalla macchina con la sua Canon appesa al collo. Ma non era mai questione di un attimo, perché lui, proprio come un pittore, non accettava la realtà com’era, ma voleva crearla. Per esempio vedeva alcune donne che lavavano i panni in un torrente, però non formavano quella composizione che aveva in mente lui, e che si ispirava a un’idea grafica, in cui la natura e la presenza dell’uomo si accordavano in una forma che tendeva all’astrazione. Allora lui si metteva in attesa, e noi con lui, ma chiaramente con un interesse minore del suo. Tuttavia non c’era verso di smuoverlo, finché spontaneamente le figure del quadro non avessero assunto le posizioni e il ritmo giusto. Chiaro che non bisognava avere fretta. Finalmente scattava e potevamo ripartire.

A questo ritmo arrivammo all’ora del tramonto in vista di Goreme, dove sapevamo esistere da poco una piccola locanda. Ci stavamo inoltrando nel paesaggio lunare di Goreme, fra pareti e coni di tufo rosato perché illuminato dalla luce obliqua del tramonto, quando con un soprassalto una scena magica, a una curva, si presentò davanti ai nostri occhi: la Fuga in Egitto!

Su un asinello che procedeva lungo il bordo della strada, davanti a noi, c’era una donna vestita come la Madonna di azzurro, con il capo ricoperto di una stoffa bianca che le scendeva a guisa di velo lungo le spalle, l’asino era condotto dal marito che camminava a piedi tenendolo per la cavezza. Fermo! gridò immediatamente Fulvio e la nostra macchina si arrestò di botto, mentre lui come un pazzo si buttava sulla strada e cominciava a fotografare. Ma l’uomo, infastidito, subito aveva fatto cenno alla moglie di nascondere il viso e lei aveva girato il capo verso la parete di tufo , dandoci le spalle e stringendosi addosso il velo bianco, mentre l’uomo pungolava l’asino perché si affrettasse ad allontanarsi e intanto faceva segno a Fulvio di smettere, di andarsene, con aria va via più minacciosa. Fulvio!, lo chiamammo io e Lu, preoccupate. Ma lui niente. Non poteva perdersi una scena così. Tutto successe in un attimo: l’uomo aveva improvvisamente estratto una roncola e si stava gettando su Fulvio, in un secondo gli avrebbe forse staccato la testa. Lì ammirai la freddezza e la presenza di spirito di quello che allora era il mio fidanzato: poiché Fulvio e l ‘uomo si trovavano alle nostre spalle rispetto alla posizione della macchina ferma, lui innestò subitamente la retromarcia puntando con l’auto dritto contro l’uomo, che arretrò, e intanto passando accanto a Fulvio io e Lu lo afferravamo e lo trascinavamo dentro la macchina senza riguardo per la preziosa attrezzatura fotografica penzolante dal suo collo e sbatacchiata qua e là. Innesto della prima e via, mentre una pietra mancava di poco il lunotto posteriore dell’auto affidataci da mio padre con tante raccomandazioni .

Scendeva la sera, trovammo un luogo dove nasconderci e aspettare. Come entrare nel villaggio, ci chiedevamo, dove nel frattempo il vecchio doveva essere arrivato e aver dato l’allarme? Come saremmo stati accolti?

Decidemmo di aspettare il calare delle tenebre per raggiungere la locanda inosservati. E così andò. Eravamo in salvo. Ma l’indomani?

Anche qui ci venne in soccorso un’idea: chiedemmo al proprietario della locanda se poteva procurarci qualcuno del luogo che ci facesse da guida. E al mattino presto arrivò Mehmed , un ragazzo giovane, aitante e simpatico, che miracolosamente parlava anche inglese. Andammo a piedi all’interno del villaggio con lui, che coscienziosamente voleva illustrarci tutto quanto c’era da vedere. Davanti al nostro disinteresse per le sue spiegazioni, rimase perplesso e deluso, finché gli dicemmo la verità: in realtà quello di cui avevamo bisogno era una guardia dl corpo e anche qualcuno che persuadesse gli abitanti a farsi fotografare. Quando Mehmed ebbe capito, ritornò di buon umore e si divertì ad aiutarci: grazie ai suoi buoni uffici Fulvio poté fotografare tutti quanti. Mehmed salì in macchina con noi e cantava in turco delle ballate bellissime, ci eravamo affezionati a lui ed eravamo diventati amici. Con grande dolore apprendemmo pochi mesi dopo che era morto in un incidente stradale.

Donatella BisuttiRoiter VeniseFleuril Critico Michele Smargiassi su Repubblica.it pubblica su Fulvio Roiter un Articolo che puoi leggere cliccando qui.

I Volti dell’India

Non è facile raccontare l’India. Un Paese così vasto, quasi un continente, dalle infinite sfumature, ricco di contraddizioni e di profonda spiritualità, un mosaico di volti che si intrecciano.

L’India.

Una terra antica, capace di confondere e incantare allo stesso tempo.

 

Molte persone, quando sono tornata, mi hanno chiesto “Ma perché proprio l’India? E’ sporca, povera, inquinata”. Perché è un altro mondo, e quando viaggio cerco sempre di andare in posti lontani, non solo geograficamente, ma anche culturalmente. Perché sono affascinata dalla diversità. Per le contraddizioni di quel paese, i colori, le persone e la loro spiritualità.

Non è semplice spiegare perché si rimane rapiti dall’India, e per questo ho cercato di raccontarlo attraverso la fotografia. Le mie foto riguardano il popolo. Sono proprio le persone che ho incontrato, a farmi “dimenticare” che mi trovavo in un luogo sporco e povero, dove la miseria è ovunque e in ogni momento. Persone che accolgono un viaggiatore sconosciuto e mai viso prima, come se lo conoscessero da sempre.

Il mio viaggio, difficile e meraviglioso, inizia da Delhi, dalle sue baraccopoli e dal suo

caos. E’ un posto indimenticabile che sconvolge qualsiasi viaggiatore e che dà la sensazione di essere catapultati in un altro mondo, soprattutto per la povertà in cui versa molta gente.

 

Persone povere ma ricche di una dignità e una fierezza senza pari.

Sguardi profondi, mai indifferenti, dentro volti segnati dalle difficoltà della vita.

Donne avvolte in bellissimi sari colorati, bimbi curiosi di conoscerti e di sapere

da dove vieni e che cosa fai. Il colore non manca mai, è nei muri, negli abiti, negli sguardi: un inno alla vita.

L’India. Un paese in cui religione diventa ragione di vita, dove la spiritualità trova spazio nella quotidianità e trova il culmine in città sacre come Varanasi. E’ la città più antica al mondo ancora popolata, dove tutto ha una fine, ma anche un nuovo inizio. Bagnata dal sacro Gange, che accoglie i fedeli per purificazioni e battesimi, è il luogo in cui gli induisti vanno a morire, per poi essere cremati sulle sue rive, così da poter rinascere.

di Silvia Pasqual

 

Cuba 11

 

Nha Terra

La mostra

Voglio parlarvi di questa mostra che ho visto nel 2013 a Parigi, a due passi dal Centre George Pompidou, durante quello che fu il primo Viaggio Fotografico della nostra storia. Il Viaggio si chiamava Parigi in Bianco e Nero e questa esposizione (a sua volta in Bianco e nero) la scoprimmo per puro caso durante le nostre visite in città.

A tre anni di distanza ho conservato il materiale e i riferimenti della mostra e ora che mi ritrovo tutto tra le mani mi torna in mente quella mostra e voglio raccontarvi le mie impressioni avute all’epoca.

L’Africa:

Nha Terra” – era il titolo della mostra di questo fotografo ossia la mia terra tradotto dal portoghese, che è la lingua parlata in Guinea Bissau.

Di mostre bellissime sull’Africa ne ho viste tante, a partire da quelle stranote di Sebastiao Salgado che contengono sempre delle sezioni incredibili sul Continente Nero, fino ad arrivare ai vari vincitori del World Press Photo che in un modo o nell’altro trattano altri temi legati alle migrazioni, a guerre, carestie, sfruttamenti e ogni altro genere di scempi fatti da noi occidentali direttamente o indirettamente ai danni degli Africani.

Nedjima Berder 400_p1050823-bcbdaInvece questa mostra di Nedjima Berder (totalmente sconosciuto nel panorama dei grandi nomi della Fotografia) mi colpì veramente. Mi colpì per il suo allestimento fatto all’interno della chiesa di Saint-Merry, già questo è un elemento di nota che da noi in Italia risulterebbe alquanto bizzarro se non addirittura impensabile. Una bella chiesa che accoglie una bella mostra. Viste le tematiche della mostra, anche la scelta del luogo mi sembra appropriata: un luogo nato per accogliere, che accoglie realmente. Un luogo per tutti che parla degli Ultimi. Al dilà della ritualità sacramentale, assistiamo qui alla condivisione di storie reali che raccontano e divulgano un mondo lontano al quale non siamo estranei.

Le immagini, se vogliamo, non sono neanche particolarmente originali e usano una tecnica che andava di moda forse una quindicina di anni fa: rendere una foto in bianco e nero lasciando solo un colore. Qui assistiamo alla stessa tecnica leggermente rivisitata che invece di un solo colore evidenzia un oggetto (con tutti i suoi colori) della foto nelle mani di uno dei soggetti ritratti.

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Le foto:

La cosa che mi piace è che queste foto raccontano di un’Africa che esiste e che per fortuna pur vivendo con poco, non muore di fame. Le foto sono state scattate nei pressi di un mercato in Guinea Bissau, uno dei paesi più poveri al mondo, molti non sanno neanche esattamente dove collocarlo sul mappamondo, ma ci parlano della dignità di queste persone, e del loro rapporto con la terra e con ciò che mangiano. Sono infatti i ritratti dei contadini, pescatori o allevatori che vanno a vendere i loro prodotti al mercato.

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Le foto non hanno le classiche pose da “Bambino povero che sorride” e neanche quelle altrettanto viste da “Disperato e perseguitato vittima di violenze e torture”. Qui vediamo gente fiera di vivere la propria quotidianità africana. Gente che ostenta la forza della natura della propria terra mostrandoci quanto questa sia generosa verso di loro donando abbondanza a costo zero, anche senza fatica.

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I prodotti vengono sempre raccolti e presentati con una cura estrema, il loro basso valore economico viene invece venduto con la sconcertante semplicità di chi conosce solo la bellezza, la semplicità e la freschezza di quel poco che ha.  E così vengono presentate enormi radici o mazzi di peperoncini, o il frutto di una pesca miracolosa portata in un mercato nel quale anche parlare di “banco” è una parola grossa.

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I fisici di queste persone hanno la forza e l’eleganza di chi vive in armonia con la natura, lontano dai grassi, lontano dagli additivi chimici. E’ chiaro l’intento selettivo del fotografo Nedjima Berder che sceglie con cura i suoi modelli per enfatizzarne la bellezza e la loro perfetta armonia e simbiosi con i luoghi in cui vivono. I suoi set sono fatti in luce ambiente, con uno sfondo bianco che rende asettico un angolo di mondo che sarebbe invece circondato da polvere e fango, perchè il Fotografo nel cercare l’immediatezza dei suoi scatti, riesce ad ottenere queste pose fermando i modelli per pochi secondi davanti al suo set mentre loro passano per andare a vendere le merci. Portarli in uno studio significherebbe perderne la spontaneità e l’innocenza. Fotografarli di sorpresa al volo porterebbe all’ennesimo scatto rubato che abbiamo già visto altre volte.

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Nelle foto di Nedjima Berder  troviamo l’intero ciclo della vita, che sfila davanti alla fotocamera. Taglio quadrato, oggettivo, simmetrico, semplice. I suoi modelli hanno qualsiasi età e vivono il lavoro e la vendita con dignità e non sono mai autocompassionevoli e autocommiserevoli. Nelle immagini di questo fotografo c’è l’inno alla fertilità intesa come riproduzione umana ma anche come frutti della terra. I frutti sono sempre enormi e generosi, colorati e allegri, sono essi stessi un inno alla vita e attraverso essi il fotografo ci trasmette tutta la sua passione per il continente nero.

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Infine la scelta del fondale bianco. Anche questa è funzionale al discorso di semplicità che l’Autore si pone di trasmetterci. Un fondale diverso avrebbe portato lo sguardo dell’osservatore a distrarsi dal soggetto, a contestualizzare con altri riferimenti il senso della storia. Lo sfondo viene qui lasciato di un bianco naturale, con quelle tipiche imperfezioni e rugosità che rendono particolarmente unico e fascinoso il Continente Nero. Il bianco, poi, che si contrappone al nero della pelle, diventa anche una scelta grafica e formale di tutto rispetto. La scelta di non utilizzare Photoshop per scontornare il soggetto è, quindi tutt’altro che casuale per questo cameraman-documentarista che in questa occasione si è prestato alla Fotografia.

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Ho amato particolarmente questa mostra, mi ha parlato di un’Africa che pensavo di conoscere, avendola a mia volta fotografata 15 volte, ma che in realtà non avevo mai visto così bella e raccontata in modo così originale. Mi piace questo lavoro fotografico, mi piace per la sua coerenza, per il suo stile, per la sua potenza visiva seppur ottenuta con mezzi essenziali e di basso costo. L’Africa ci insegna che la vita può scorrere anche in un altro modo, con lentezza, essenzialità, e senza sovrastrutture, questo Continente riesce sempre ad appassionare anche chi la conosce.

L’Africa sa raccontare storie senza parlare e sa far molto rumore anche senza muoversi.

Roberto Gabriele

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