Foto e parole di Francesco Carmignoto
Questa storia ha partecipato a Travel Tales Award 2022. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Sana’a è ancora la bellissima Venezia d’Oriente dei miei ricordi del viaggio di alcuni anni or sono.
Pochi i kalashnikov a tracolla. Restano i jambiya, i pugnaloni ricurvi portati nella fascia attorno ai fianchi da tutti i maschi yemeniti, le case deliziose di mattoni color ocra, gli archi delle porte e delle terrazze, le decorazioni di gesso che contornano le finestre, i vetri dai tanti colori. Una fantasia irrefrenabile di ricami che salgono nelle facciate, nei vicoli, nelle piazzette e nei giardini con palme e alberi da frutto.
Lo sguardo si sofferma inebriato dal bellissimo e umano disordine.
Partiamo subito per i monti dell’Harazz, in un susseguirsi di piccoli villaggi arroccati sui pendii. Sembrano fortificati come quelli del nostro Medioevo. Da ogni cocuzzolo i castelli turriti dominano le larghe terrazze coltivate. Quasi tutte ad alberelli di qat, delle cui foglioline gli yemeniti vanno matti.
Ecco le belle case in pietra rosata di Thilla, distesa sul pendio. Nel suo negozietto ritrovo la giovane donna di un viaggio precedente, che non portava il velo e che mi aveva assicurato con forza che lei non lo avrebbe mai messo.
Mi mostra orgogliosa il suo volto, con un sorriso allegro. Anche le donne yemenite possono avere un simbolo di libertà! Le faccio i miei complimenti, ricordandole l’incontro di sei anni prima. Mi aggiro nel suo negozio pieno di oggetti interessanti. Compro una specie di cuore di alabastro trasparente, intarsiato con curiose scritte in ebraico. Non sono convinto che sia antico, ma mi sembra molto bello e misterioso.
Nello Yemen erano molti gli ebrei, spesso artigiani bravissimi a lavorare anche l’argento e considerati veri maestri nel cesellare i più preziosi jambiya.
Foto e parole di Francesco Carmignoto
Questa storia ha partecipato a Travel Tales Award 2022. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.