Nel cuore dell’Isola che non c’è
Immersi nell’altra isola. Quella sconosciuta alle mappe, insorta alla cartografia. Il viaggio nel lato barbaricino della Sardegna mostra una terra verde, rigogliosa e impenetrabile, facendo affiorare quello che è il motore dell’avvenente carrozzeria rappresentata dalle coste. Un percorso in cui si susseguono colori e tradizioni, insaporiti da quanti con orgoglio e sudore rivendicano le proprie origini in folklore e credenze.
Pescatori di muggine, sconosciuti innamorati, montagne piegate da nebbie flottanti oltre a costumi e usi ormai desueti. Irti bastioni a difesa delle case, miniere abbandonate e città fantasma. Orgogliosi ricami tessuti da mani esperte oltre a profonde rughe su volti segnati dal tempo con occhi incastonati in cui si perdono culti secolari e reminiscenze di baccanali.
Gruppi di pescatori che all’alba faticano per trascinare a terra i cefali dalla preziosa bottarga, anziane che hanno tessuto la propria esistenza con l’arte del filet, vita sui porti di una città multicolore e persone conosciute e ignote che hanno dedicato la vita alla loro terra.
Impressionano anche gli ultimi artigiani che creano le maschere carnevalesche che sfilano a Mamoiada. Macinando chilometri su aree interdette costeggiate da antichi nuraghi, siti che ancora oggi lasciano perplessità sul loro sviluppo e su chi vivesse quei luoghi. Una terrà ricca di domande, il fascino dell’enigma.
Immaginate orafi che fiammeggiano la filigrana sarda e indistruttibili scarpe da pecorai che hanno onorato anche Sua Santità il Papa. Il “bandito” casu marzu e la casa di un pastore che caglia il latte per tirarne fuori un “fiore” simbolo della vita agreste e rurale. Mani dalle unghie consumate che condividono pane carasau imbevuto di un cannonau di uno rosso rubino brillante. Non solo arti e mestieri ma anche messaggi e colori. Gli affreschi politici di Orgosolo e gli odori della rivolta popolare di Pratobello quando lo Stato si fermò davanti a un popolo battagliero ma disarmato.
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Ore cinque del mattino. Le prime luci del giorno si levano sullo sconfinato bacino di Cabras, l’alba brilla sullo stagno mentre i pescatori si preparano alla caccia mattutina. I muggini intuiscono che quella rete a strascico che li spinge con forza in una stretta altro non è che la camera della morte: saltano e scodano a pelo d’acqua rendendosi conto che quel vicolo cieco è una sorte inesorabile. I pescatori stringono i pesci all’angolo. Una volta alle corde, a quattro mani gli uomini issano i retini a maglie strette. Le prede provano a ribellarsi al proprio destino e non si arrendono. Si conclude la mattinata: la fine dei cefali diventa la linfa per la vita dell’isola in quest’angolo di Sardegna.
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Una luce calda e avvolgente dà vita alle maschere che riposano nella bottega. Nel laboratorio artigiano i noci cesellati e intarsiati materializzano volti – pesticciando la pioggia di trucioli che ricopre il pavimento – divenuti nei secoli simbolo del Carnevale di Mamoiada, una celebrazione che affonda le origini nell’antichità e sulle cui radici si tramanda narrazioni e storie di padre in figlio. Il mastro cammina tra seghetti e scalpelli fino allo specchio, calza la visera e immagina la processione di quando era bambino e correva tra i vicoli per vedere quei colossi ricoperti di pelle di pecora. Figure quasi mistiche davanti alle quali si spaventò e indietreggiò, fino a controllarli da dietro un angolino dove non lo potevano scorgere. Un timore nel tempo diventato una passione.
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I bambini dormicchiano da qualche minuto. Si siede sul divano, pochi minuti però. Massimo dieci altrimenti rischia di cedere alle palpebre stanche per i tanti giorni di lavoro della stagione. Al secondo sbadiglio si alza di scatto, calza la berretta e esce di casa. L’aria settembrina rinfresca l’isola e si inumidisce pian piano che in auto si avvicina allo stagno dove i colleghi pescano i muggini. Appena arrivato trova ad aspettarlo un ragazzo, un novizio del mestiere con già i segni delle occhiaie e un volto emaciato. Si salutano appena sulla porta, sono appena le tre del mattino e il pescato deve ancora arrivare per essere caricato sui mezzi diretti alla produzione. Il ragazzo accende il fuoco e mette sù una macchinetta del caffè mentre lui sbadiglia a tutta bocca per cominciare un altro giorno di lavoro.
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Ricorda ancora il viaggio con nonna. Caricò i bagagli nel cofano dell’utilitaria con cui l’anziana arrivò in Francia durante la luna di miele. Sebbene avessero davanti a loro chilometri e chilometri di sterrato, lavò con cura l’abitacolo e lucidò la carrozzeria. Voleva riportare quel gioiello automobilistico allo splendore dei tempi che furono. Un lavoro certosino sostenuto dallo sguardo della nonna che decise di vivere con il nipote un’altra avventura. Un ultimo colpo di spugna, e via insieme. Un’esperienza indimenticabile.
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L’ultima testimone di un’arte dimenticata che sta tornando a rubare l’attenzione del pubblico locale. E’ la veterana di un ricamo antico, il filè, che affascina gli amanti della tradizione di
Bosa. Spera che le nuove generazioni dell’isola ne prendano in mano le redini e proseguano un mestiere che l’ha accompagnata a oltre novant’anni. Non trattiene l’emozione: insegnerà come guidare il telaio e intrecciare tessuti. Il passato da cui si tesse il futuro.
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Seduta, composta, avvolta in uno scialle mentre aspetta su una panchina. I segni della vita affiorano dalle mani venose e da uno sguardo intenso che punta verso il mare. Un mare che simboleggia la vita, tanto da farne vanto con dei capelli turchesi malgrado l’età. Lui cammina verso le mura con passo scomposto mentre torna dall’edicola. Si vedono. Un intreccio di esperienze trasuda dagli sguardi che si accarezzano. Lei fantastica sul passato di lui, lo immagina come indosso una divisa militare. Lui fantastica su quel colore ceruleo e quel ricordo di gioventù ancora vivo che le contorna il volto. Mentre si allontanano, gli occhi si calano per l’imbarazzo, il capo si china e respirano un amore durato un attimo.
Foto 7
Al pomeriggio si sedeva nel porticciolo della città colorata, sulla sponda dirimpettaia della fabbrica di mattoni rossi dove per anni aveva lavorato. Superata la darsena si accucciava dove i pescatori stendevano le reti ad asciugare. Aveva pescato per anni senza esca, perché non gli interessava catturare una preda ma lo sentiva come un momento per stare con sé stesso a riflettere. Ma quel mattino di settembre la figlia gli annunciò che sarebbe diventato nonno, e quel giorno qualcosa abboccò al suo amo.
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Nella capitale dei murales i colori simbolo della speranza si incontrano nelle impronte dell’uomo accanto a pareti vergate da lotte, giustizia e tradizioni. L’anima dell’isola sarda risuona in moderni affreschi che ricordano antichi graffiti.
Foto 9
Il signor Piras sta per compiere ottant’anni. Quasi un giovanotto nel paesino che ospita il più alto numero di centenari d’Italia. Sta seduto in un angolo del bar della cittadina dove ha vissuto buona parte della sua esistenza. Ordina un caffè mentre sfoglia un quotidiano. Lo sorseggia mentre scorre i titoli, è già metà pomeriggio ma vuole aggiornarsi con quanto accade nel Continente. Quel Continente, la Penisola, dove ha prestato servizio ai tempi della leva militare. Ricordi che affiorano negli occhi, le bravate tra camerati e le uscite centellinate in cerca di amicizia e compagnia. La vita che è stata.
Foto 10
Si levava dalla branda poco prima dell’alba, un’abitudine lunga anni necessaria però per mungere i capi di bestiame prima dell’arrivo dei raccoglitori di latte. La transumanza del gregge era il periodo più faticoso dell’anno soprattutto quando nell’isola arrivavano i primi rigori autunnali. Portava con sé un libretto, “Le avventure di Tom Sawyer”, testo che gli ricordava le smargiassate di quando portava i pantaloni corti. Negli anni aveva imparato a riconoscere le sue pecore, a chiamarle per nome e farsi seguire come una guida. Lo seguivano incolonnate come incantate da un pifferaio.