Sono passati tanti anni, da luglio 2007 quando ho fatto questo viaggio che ormai posso definire “vintage” nelle Isole Derawan.
Andiamo per ordine… ho sempre amato i viaggi antropologici con etnie e festival particolari per fotografare le tradizioni, gli usi, i costumi e le culture lontane, diverse dalla mia. Scovai un itinerario molto particolare che si svolgeva nel Borneo e comprendeva giungla e isole completamente disabitate.

DOVE SIAMO:
Il Borneo è la terza isola più grande del mondo ed è divisa tra una piccola parte costiera in territorio malese e la maggior parte della superficie, tutta di giungla impenetrabile si chiama Kalimantan ed appartiene all’Indonesia, ed è proprio qui che siamo andati: in un piccolo arcipelago di isole tropicali sconosciute al turismo.
Le Isole Derawan sono 6 e solo 2 di queste sono abitate, le altre sono completamente deserte e per vederle occorre organizzarsi bene. Quando andammo, lo facemmo per puro desiderio di esplorazione, per il piacere della scoperta, di poter vedere qualcosa di esclusivo, un paradiso inesplorato. All’epoca non esistevano neanche reality come quelli che ci sono ora sulle varie isole deserte, una volta trovata la location il resto era da organizzarsi sul campo. E così facemmo.
Non era un viaggio semplice da organizzare: innanzitutto avevamo bisogno di una guida specializzata che sapesse condurci in posti così sperduti in cui ogni imprevisto può trasformarsi in un problema o una tragedia. 11 persone che arrivano dall’Italia hanno necessità di muoversi in sicurezza, dovevo prendermi cura di tutto per fare una fantastica esperienza.

LA GRANDE AVVENTURA:
La prima cosa imprescindibile della quale occuparsi è l’acqua potabile… Eh già… Nella giungla l’acqua non manca: la prendi dal fiume ed è pulitissima, ma nelle isole deserte circondate dal mare, l’acqua da bere è un grosso problema, nessuno aveva voglia di raccogliere quella piovana che nessuno poteva assicurarmi che ci sarebbe stata, nonostante il monsone.
Ho fatto quindi due conti sul fabbisogno giornaliero e ho preso acqua in bottiglie di plastica che bastassero per tutti e fossero più che sufficienti senza sprechi. 3 litri a persona per 11 persone per 8 giorni…. fanno…. 44 casse di acqua da 6 bottiglie! Un numero decisamente impressionante, ovviamente per trovarle prima di partire è stato difficile nel porticciolo di Tarakan, l’unica abitata tra le Isole Derawan, ma questa è la parte divertente del viaggio: abbiamo preso un pulmino e ci siamo fatti portare a fare la spesa in un supermercato più grande. In questi posti, pagando pochi spicci puoi ottenere qualsiasi servizio inizialmente non previsto.

Anche i viveri non sono stati una cosa semplice da gestirein un arcipelago deserto come le Isole Derawan: le verdure non si sarebbero conservate per 10 giorni fuori dal frigo, idem per le uova, formaggi non se ne trovano perchè in zona non ne producono, ho risolto il problema anche della conservazione con i famosi formaggini con la mucca disegnata sulla scatola. Poi scatolame di mais e tonno locale e fagioli e le solite patate che non mancano mai nel menu di sopravvivenza. Immancabile la pasta…. di grano tenero, quella che noi italiani amiamo tanto, quella che si incolla e si disfa impastandosi nel piatto solo per condirla… ma non avevamo alternative… Ci rimaneva il pesce che avremo pescato in navigazione.
Fatta la spesa siamo andati al porto a prendere la barca… speravamo in un cabinato spartano ma ci siamo resi conto che l’unica cabina presente a bordo era quella del timoniere, nella quale ovviamente era impossibile dormire!!!! Ok, in effetti partiamo per andare a dormire sulle isole, il cabinato non ci occorre: abbiamo le nostre tende per colonizzare le spiagge vergini di queste isole che si trovano due gradi al di sopra della linea dell’equatore. Siamo saliti su una specie di peschereccio di legno che aveva un tendalino sopra, fortuna che non puzzava di pesce marcio: sarebbe stato la nostra casa galleggiante x 8 giorni…

Inizia la navigazione: circa 100 miglia marine (160 km) da fare sul nostro peschereccio… Impiegheremo una giornata intera per coprire la distanza. Finalmente arriviamo a destinazione: attracchiamo su una delle due isole abitate: Pulau Panjang. Qui troviamo un piccolo villaggio ma molto vivo, c’è il porticciolo e per noi un alberghetto, nulla di lusso ma le stanze sono delle palafitte in mezzo al mare e collegate con un pontile alla terraferma, sotto di noi vediamo delle grandi gabbie in mare…. servono per l’allevamento delle aragoste che mangeremo a cena: una aragosta intera a 7 euro!!!!
Prima di cena decidiamo di fare un aperitivo…. Ci accorgiamo però di quanto sia difficile da spiegare ai locali cosa sia un aperitivo!!!! 10 anni fa anche in Italia non era un modo tanto diffuso come oggi per fare una serata… ma noi avevamo tempo e voglia di spiegarlo al povero ristoratore che aveva avuto la sfortuna di riceverci nel suo locale. Ovviamente la prendemmo tutti a ridere ed era un modo per relazionarci con lui… non aveva nulla che fosse spizzicabile come siamo abituati noi… riuscimmo a farci preparare una frittura di calamari con una birra calda (non c’era il frigo) e quello fu il nostro aperitivo di tendenza. La location in riva al mare, su un’acqua trasparente e cristallina e circondati dal silenzio rotto solo dalle onde erano invece la cornice perfetta per una serata fantastica prima di iniziare il tour.

Al mattino successivo prendemmo il nostro peschereccio con il pieno di benzina fatto alla volta di Pulau Maratua, la prima delle isole deserte in cui sbarchiamo. Eh, già… il nostro è un vero e proprio sbarco: essendo deserta l’isola, evidentemente non c’è neanche un approdo: la nostra barca oltrepassa la barriera corallina, si avvicina a riva e ci tuffiamo nelle acque basse per procedere a piedi fino alla spiaggia. Naturalmente in questo modo scarichiamo a mano l’acqua, le tende, i viveri e… le fotocamere!!!!

Siamo, ovviamente da soli, sulla spiaggia di un’isola deserta nella quale non c’è nulla, non esiste neanche pensare alla copertura del segnale per i cellulari, nulla di nulla che ci avvicini in qualche modo alla civiltà, quando sarà buio tra le tende vedremo grazie alla luna e al fuoco che accenderemo sulla spiaggia usando i rami di palma secchi che raccoglieremo nel pomeriggio. Totalmente isolati, niente acqua se non la nostra, nessun rifugio, niente corrente elettrica e in caso di una qualsiasi emergenza sanitaria che può sempre capitare, siamo ad almeno 10 ore di navigazione dal più vicino ospedale. Mi raccomando con il gruppo di… evitare incidenti!!!!

Stare su un’isola deserta è eccitante, lo senti, lo sai che quell’angolo di paradiso in terra è reale, e per quel giorno è solo tuo! Un’isola deserta è destabilizzante, perchè sai di essere da solo e vedi realizzato un sogno che pensavi potesse esistere solo nella tua fantasia. Lontanissimo da tutto e da tutti. Sei da solo con te stesso! Il tempo si dilata, le giornate vengono cadenzate solo dal ritmo della natura, dal sorgere e calare del sole, dal caldo, dalle piogge e dalle maree. Ti accorgi che improvvisamente cambia la tua scala di valori e di priorità. Lì non ti servono soldi nè tecnologia, nè auto, nè abbigliamento, ti basta la fotocamera, l’acqua, qualcosa da mangiare e per accendere il fuoco. Oltre alla benzina nella barca per tornare a casa… Fine. Non hai bisogno di altro.

LA SCOPERTA DEL MARE nelle Isole Derawan:
Personalmente non amo il mare, non mi piace stare in spiaggia a prendere il sole, ma qui è tutto diverso e quindi stimola la mia curiosità di fotografo e di viaggiatore. Mi sono cercato delle occasioni per fare le mie foto e ho scoperto la bassa marea, un fenomeno del tutto normale in natura a qualsiasi latitudine, tranne nel momento in cui mi accorsi che su quell’isoletta che vedevo davanti a me quella mattina, nel pomeriggio potevo andarci a piedi!
E così facemmo: raggiungemmo l’isoletta camminando su un prato di stelle marine che erano rimaste sul fondo sabbioso del mare in certe pozze di acqua lasciate dal mare quando si ritirava. Lì ci fu un incontro piuttosto particolare… sul lato opposto dell’isoletta vedemmo da lontano una barca ormeggiata e 4-5 uomini tutti armati di pugnale che camminavano sulla spiaggia. Essendo quella una zona di pirati, il primo pensiero naturalmente fu al peggio: se fossero stati lì per noi non avremmo avuto scampo, come minimo ci avrebbero rubato tutto. Ma intuii che se fossero stati lì per noi sarebbero venuti direttamente sulla nostra isola e che quella non mi sembrava una azione di attacco. Infatti li avvicinammo nonostante tenessero i pugnali in mano ed erano dei semplici cercatori di ostriche che approfittavano della bassa marea per raccogliere i preziosi mitili da vendere ai ristoranti.

Nella fascia equatoriale fa buio presto: intorno alle 18, tutto l’anno. E così poco dopo quell’ora si cena e si resta a rimirare il cielo stellato e ad ascoltare lo sciabordio delle onde che di notte si colorano dei bagliori verdi generati dal plancton. Rimaniamo estasiati dallo spettacolo e nessuno ha il coraggio di dire banalità…. Non ci sono neanche zanzare, per cui ci possiamo addormentare sulla spiaggia, fuori dalle tende e attendere l’alba arrivare sulle Isole Derawan prima che in ogni altra parte del mondo…

Quando fa giorno abbozziamo una specie di colazione: qualche biscotto e una tazza di the, non abbiamo altro e questo sarà il nostro menù per i prossimi 10 giorni. La giornata prosegue con l’esplorazione dell’intricata foresta di mangrovie che ricopre l’isola. Scopriamo dei curiosi animaletti che assomigliano a delle velocissime lucertole anfibie con gli occhi grandi che respirano fuori dall’acqua ma che sono velocissime a tuffarcisi per difendersi se temono il pericolo…
Scopriamo il piacere dell’ozio filosofico, della noia dialettica, impossibile fare programmi, non ci sono alternative che lasciar passare le ore della giornata continuando a pensare se davvero sia bello vivere in paradiso. Tra un silenzio e l’altro, tra una palma e un varano, ogni tanto qualcuno si determina a rompere gli indugi e tuffarsi in mare armato di maschera, boccaglio e pinne per fare un pò di snorkeling nella barriera corallina.
Anche qui si aprono per me dei mondi nuovi e inesplorati: non avevo mai nuotato sulla barriera corallina, solo stando con la testa sott’acqua entri in un mondo parallelo: il grande blu. Sotto di me a pochi centimetri ci sono coralli e pesci coloratissimi, uscendo di pochi metri, la barriera corallina sprofonda fino a perdita d’occhio, molti metri più in basso vedo pesci enormi che mi inquietano quanto basta per ritornare nella mia zona di comfort: sopravvivere in un’isola deserta non mi spaventa, le profondità misteriose del mare invece ci riescono benissimo.

TARTARUGHE E ALTRI INCONTRI:

Sangalaki è poco più di uno scoglio, sarebbe disabitata se non ci fossero 4 rangers che vivono lì per fare una serie di studi sulle tartarughe marine giganti che arrivano a decine ogni notte per fare il nido e deporre migliaia di uova. Qui è impossibile dormire fuori dalla tenda: le tartarughe ti passerebbero sopra e la cosa non sarebbe bella: un animale del genere facilmente supera i 150 chili! Evitano invece le tende perchè le vedono come ostacoli. La notte in quest’isola però l’abbiamo passata in bianco a guardare lo spettacolo della natura.
Le tartarughe arrivano in spiaggia, e vanno dritte come se sapessero già dove andare a fare il loro nido, e anzi, sicuramente lo sanno benissimo, poi si fermano e iniziano a scavare una buca profonda circa 80 centimetri, appena finita la buca si mettono su di essa in posizione per deporre le uova e poi la richiudono con la sabbia.
Il respiro della tartaruga mentre lavora per deporre le uova è impressionante, è un forte sospiro, quasi un rantolo che si sente forte e deciso nel buio della notte. Tutta la nidificazione dura circa 2 ore. Avviciniamo i rangers che censiscono il fenomeno: quante tartarughe per ciascuna notte, dove depongono le uova, quante ne fanno…. Sono dei giovani ragazzi che vivono qui sull’isola e fanno anche un lavoro duplice di ripopolamento: da una parte prendono alcune uova e le mettono nelle incubatrici per farle dischiudere in modo sicuro lontane dai pericoli, e dall’altra creano delle gabbie sulla sabbia intorno ai nidi che terranno fino a quando si schiudono le uova, poi proteggeranno alcuni piccoli dai predatori fino a quando arriveranno al mare.

I varani e gli uccelli sono pericolosissimi sia per le uova che per i neonati mentre si avvicinano all’acqua del mare, in quel momento sono vulnerabilissimi: pochi di loro riescono ad arrivare a riva, gli altri piccoli muoiono di stenti solo per uscire dalla sabbia o vengono predati. E’ questa la dura legge della natura.

Pulau Kakaban è un’isola incredibile: anche questa è completamente disabitata, è palesemente il cratere di un vulcano spento che esce dal mare ed è pieno di acqua marina senza alcun collegamento con il mare aperto. Questo ha fatto sì che all’interno del cratere ci sia un lago di acqua marina nel quale l’unica forma di vita sono milioni di piccole meduse non urticanti tra le quali si può nuotare liberi da ogni pericolo.
Sull’isola l’unico pericolo sono invece alcuni piccoli serpenti non velenosi ma tossici, il loro morso non è letale ma occorre fare molta attenzione per non passare qualche ora con grossi problemi… Piazzammo le tende sull’unico spazio disponibile in tutta l’isola che non fosse in pendenza: un pontile di legno che faceva da attracco per le barche.
Tutto bene fino a quando nel pomeriggio iniziarono ad avvicinarsi le nuvole, non erano semplici nuvole da pioggia, lo capimmo subito. Arrivarono dal mare nere, profonde e minacciose. Il tempo passò dal sole al buio in pochi istanti, e rimase oscurato per un’oretta, aspettavo di fare il mio incontro con il monsone. Hai presente il detto della calma che precede la tempesta? Ecco… Improvvisamente dal nulla si alza un vento fortissimo, è un vento che è dato dall’improvviso cambio di temperatura, quasi che Zeus abbia aperto il portone dell’uragano, riusciamo ad entrare in tenda e un minuto dopo il cielo si apre in una secchiata di acqua che attraversa i teli delle tende come se non ci fossero.
Impossibile anche svuotare gli interni della tenda: l’acqua ci sommerge completamente, inutile anche rimanere dentro, tanto vale uscire fuori a lavarsi finalmente per la prima volta dopo una settimana con l’acqua dolce. Sfruttiamo il monsone per una doccia che ci toglie il sale accumulato sulla pelle ma non i ricordi di un Viaggio straordinario oltre i confini dell’immaginario.

Leggilo su Acqua & Sapone:
Questo Articolo è stato pubblicato sulla Rivista Acqua & Sapone a luglio 2017, sfoglialo sul sito: https://www.ioacquaesapone.it/leggi/?n=asluglio2017#115

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Torneremo nel Borneo con Viaggio Fotografico, scopri qui le prossime date: https://viaggiofotografico.it/product/borneo-malese/
Mi piaceva soprattutto la marineria ed ero giunto al punto da studiarne propriamente ogni aspetto, come la nomenclatura completa di ogni tipo e classe di bastimento e delle varie parti che compongono una nave e i vari pezzi di costruzione, l’alberatura, l’attrezzatura – cavi, paranchi, bozzelli, ancore, vele… – e le manovre, e i nodi, le legature…, come pure i nomi degli uomini che nelle varie funzioni attendono al governo di un natante. La mia passione si alimentava specialmente con le storie ambientate nei mari del Sud, il cielo australe mi affascinava per l’aura di mistero che io vi annettevo. E certamente pensavo che le avventure possibili in quell’emisfero fossero di tutt’altra natura, non dico superiore ma affatto diversa,che quelle nei mari del Nord. Insomma in quelle della Croce del Sud, in quei caldi arcipelaghi, nel Mar della Cina, nei mari della Malesia e del
Nel brogliaccio del mio trisavolo erano annotati, quali brevemente e quali più estesamente, molti fatti e circostanze della sua vita, non esclusi certi rilievi psicologici personali e certe meditazioni, tutte scritture che fanno di quel libro un vero e proprio diario. Ho detto già degli spunti di riflessione ma non sottovaluto le altre minuzie e gli appunti frammentari rilevati dagli enchiridi: tutte notizie che compongono il vivido mosaico della sua esistenza. Si va dai fugaci amori, per la verità non infrequenti anche dopo il suo matrimonio, alla nascita dei figli, dagli acquisti di oggetti importanti all’annotazione dei bagni completi fatti per l’igiene personale e finanche talvolta alle osservazioni meteorologiche e climatiche.
Durante la mia adolescenza, nelle lunghe giornate delle vacanze estive, ho trascorso molto tempo a compulsare quel diario ed a farne un duplicato in un librone molto somigliante all’originale, riportando però tutti gli scritti in lingua italiana, avendo io stesso tradotto tutti i testi. Tra le lettere più importanti ve n’è una che contiene alcune informazioni generali sull’autore, di cui non ho ancora detto il nome perché lo dirà lui stesso nella lettera. Questo scritto è una sorta di curriculum da lui inviato all’antropologo dell’Inghilterra vittoriana Edward Burnett Tylor, l’autore del famoso libro Primitive Culture. Ho definito avventurosa la vita del mio trisavolo senza dire perché lo fosse: dalla lettera si capisce e per questo la trascriverò qui di seguito, ma intanto basti considerare il luogo di partenza di quella lettera, Makassar – una città che ai giorni nostri è la capitale della provincia
“Quantunque il mio umano sostentamento mi provenga dall’attività del tutto diversa di cui Le ho riferito e nonostante il forse troppo breve periodo di stanziamento in Makassar, mi professo adatto alla bisogna,g iacché il tipo di osservazioni che essa mi richiederebbe è consono al mio personale interesse. Le dico, a tal proposito, che io fui educato in Amalfi da un sant’uomo,un ecclesiastico barnabita, di nome Padre Bracciolino Calise, già stato missionario per lunghissimi anni in terre d’Affrica eppertanto profondamente versato nella scienza etnografica, di cui m’insegnò i rudimenti, quegli stessi che mi hanno accompagnato in Celebes e che m’hanno dato contezza di tanto argomento che altrimenti mi sarebbe restato estraneo.
“Inizio dai riti connessi con la lunga siccità o con l’eccesso di pioggia e dunque dalle azioni volte a provocarla,nel primo caso, ed a farla cessare, nel secondo. Nelle zone a nord di Celebes nominate Minahassa, gli sciamani prendono lunghi bagni cerimoniali con l’intenzione di provocare il cielo alla pioggia. Nella zona centrale dell’isola, allorché per l’assenza prolungata dell’acqua le piantine di riso principiano a rinseccolirsi e prima che il raccolto vada perso del tutto, gli abitatori dei villaggi si portano ai fiumiciattoli,alle pozze d’acqua e se ne aspergono con grandi strilli, specialmente quelli dei giovani, e se ne spruzzano e schizzano. E imitano il rumore della pioggia battendo le mani sulla superficie liquida o tamburellano,con la stessa intenzione, su una zucca svuotata. Sotto questi cieli è altresì necessario, talvolta, scongiurare la pioggia, farla cessare quando è troppa e questa, si sa, è una necessità anche dei contadini delle nostre parti. Ed anzi posso aggiungere che tante pratiche consimili avvengano anche nelle terre dove nacqui. Per restare a Celebes, l’eccesso d’acqua può diventare disastroso, e questo accade quando i venti Alisei si sono sovraccaricati all’eccesso di umidità durante il loro percorso sugli oceani. Può allora piovere sull’isola per mesi e mesi e mandar tutto marcio. Prima che questo avvenga, il sacerdote o mago della pioggia inizia quello che è un combattimento serrato con l’acqua, cioè si astiene totalmente dal toccarla, non si lava mai,beve soltanto il vino di palma; se deve attraversare un ruscello cerca un punto in cui gli sia possibile farlo senza toccare l’acqua, appoggia i piedi sui massi petrosi che emergono. Durante questo tempo propiziatorio egli vive in una capannuccia appartata dal villaggio ed eretta nel campo di riso. Qui accende un focherello che deve essere continuamente alimentato e vi brucia legnetti che dovrebbero avere il potere di tenere lontana la pioggia. Se all’orizzonte si profilano banchi di nubi carichi di pioggia, il mago soffia in quella stessa direzione reggendo tra le mani foglie e scorze d’albero che, per gli stessi nomi che portano suggeriscono la leggerezza e dunque si presume abbiano il potere di allontanare le nubi rendendole leggere sotto il soffio dello sciamano. In questo caso come in tante altre occasioni, questi uomini fanno un teatrino basato sulla somiglianza, sull’imitazione, credendo così di indurre gli spiriti che sono nelle cose ad imitarli. Questo mi ha insegnato il mio maestro Padre Bracciolino Calise e questo ho sempre potuto osservare:ma queste sono cose che lei sa meglio di me,modi di cui Lei conosce il nome ed io no. Ad ogni modo posso dirle che questa imitazione, questa specie di recita teatrale tanto ingenua è largamente praticata da tutti,anche da chi sciamano non è e per una serie infinita di intenzioni. Per esempio, chi volesse catturare un cinghiale, un maiale selvatico o altro animale, dovrà esporre all’esterno della casa o capanna una parte dell’animale che vuole attirare:una zampa,un corno,un lembo di pelle scuoiata… Lo stesso fanno, s’intende in altri modi ma con la stessa idea di teatro e di somiglianza, per mantenere in vita una persona,per scacciare gli spiriti del male. Queste però sono cerimonie cruente e qualche volta crudeli,almeno per noi. I riti che vogliono espellere il male sono eseguiti con il sacrificio di animali,con scannamenti che a noi potrebbero sembrare raccapriccianti se non sapessimo che un tempo,e forse ancora oggi presso i gruppi tribali più selvaggi,i sacrifizi erano fatti con l’uccisione di persone.
“Modi estremamente cruenti accompagnano anche il più complesso rito della sepoltura,un evento che può occupare giorni e giorni, durante i quali il villaggio attraversa momenti di baraonda alternati allo svolgersi della comune vita, al commercio ed alle altre umane cure. Quello che conta è l’importanza che si dà al corpo del defunto che,con un lungo cerimoniale accompagnato da canti e suoni di cimbali e tamburi, viene posto,dopo essere stato portato in processione, su un grande catafalco tutto ornato. D’intorno c’è gente che mangia (e questo, se mi è permesso dire, mi rammenta quel che avviene presso di noi, nelle nostre terre, dove si usa preparare il cuonsolo, cioè la consolazione, che è un lauto pasto da offrirsi a cura dei vicini alla famiglia del defunto), gente che attende ai propri affari approfittando dell’occasione di quel grande concentramento di gente. In queste cerimonie, quello che maggiormente mi ha impressionato è il sacrificio del bufalo, anzi di uno o più bufali, che viene fatto davanti a tutti, sulla radura dove si svolge il rito funebre. Quegli animali mastodontici vengono legati per le zampe ad un palo conficcato saldamente nel terreno, tanto profondamente per poter reggere, senza svellersi, alla forza immane dell’animale. Quando è il momento, il sacerdote si avvicina cautamente al bestione, che forse per via delle legature subite è già infuriato e come presago del suo destino di morte, e servendosi di un lungo e affilatissimo pugnale lo trafigge alla gola. L’impressionante fiotto di sangue che ne spiccia fuori inonda il terreno circostante, cioè tutto il cerchio intorno al palo a cui è vincolato e nel quale l’animale impazzito riesce ancora a muoversi scalciando in maniera furibonda. Durante questa penosa agonia la bestia riceve altre trafitture con le stesse modalità finché, totalmente dissanguato, crolla al suolo privo di vita se non per qualche fremito o spasmo residuo del suo corpo. Considerato che questo sacrifizio può ripetersi con altri animali durante la stessa cerimonia, alla fine il terreno è intriso totalmente di sangue.