Muay Thai

La terribile boxe thailandese

Pur ritenendomi una persona pacifica e contraria alla violenza in ogni sua forma, devo dire che ho sempre trovato nobile uno sport duro come la boxe. Questo porta gli atleti a contendersi gli esiti di un incontro con sonori pugni ben assestati sferzati all’avversario.

Da bambino ricordo le estati calde passate davanti alla televisione a vedere le Olimpiadi. Non c’erano condizionatori in casa, mia nonna che dormiva e io perfettamente attrezzato in bermuda e canotta come il miglior Fantozzi cercavo refrigerio rotolandomi sul pavimento di marmo in quei lunghi torridi pomeriggi nella città deserta il cui silenzio era rotto dall’assordante frinire delle cicale. E a quell’ora la televisione (c’era solo la RAI) passava solo la boxe, ore e ore di incontri, pugni e sudore.

I massaggi negli spogliatoi. Foto: © Roberto Gabriele

 

Questa è stata quindi la mia iniziazione alla boxe: fu un pò una forzatura alla quale non potevo sottrarmi… Erano le Olimpiadi di Mosca 1980.

Fin da quella età mi chiedevo perché ci fossero persone disposte a prendere un sacco di pugni per il piacere di darne ad un altro che fondamentalmente non gli aveva fatto nulla di male se non aver scelto di fare lo stesso sport e di trovarsi per un caso del destino ad essere estratti come avversari.

Mi chiedevo insomma se fosse giusto tutto quello, se ne valesse la pena. Mi domandavo quale fosse il valore del denaro e se i soldi fossero una motivazione abbastanza valida per non scegliere un altro sport in cui non ci si facesse così male.

Tra una riflessione e l’altra sono diventato grande e ho iniziato a dare qualche risposta, o almeno qualche giustificazione, a quelle mie domande. Mi dicevo che già esisteva nell’antica Grecia come sport olimpico e che è meglio quello che delinquere in strada e… bla bla bla…

Sta di fatto che nella vita certi cerchi devono chiudersi, senti il bisogno di toccare con mano il fuoco per vedere se brucia, senti il bisogno di avvicinarti al drago per sfidarlo e vedere se è così cattivo.

Muay Thai
Riscaldamento di un pugile. Foto: © Roberto Gabriele

IL VIAGGIO A BANGKOK:

Ho scelto quindi di avvicinarmi a chi fa questo sport e da bravo viaggiatore e fotografo non l’ho fatto alla palestra dietro casa, giusto per capire o per provare, ma sono andato a cercarmi le frange più estreme di questo sport. Sono andato fino in Thailandia dove è lo sport nazionale portato alla sua massima espressione.

Lì si chiama Muay Thai ed è la boxe thailandese tradizionale che non conosce esclusione di colpi: sono ammessi pugni, ginocchiate, gomitate e persino il temutissimo calcio al collo che può essere dato in modo tanto violento quanto coreografico addirittura facendo una piroetta che ne aumenta ancora di più la velocità e la forza di impatto. 

Muay Thai
Il combattimento. Foto: © Roberto Gabriele

Prima di partire mi misi a cercare una palestra in cui andare a fotografare gli allenamenti: volevo capire perchè questo sport fosse tanto sentito a Bangkok.

Volevo capire anche perchè così tante minute ragazzine di 18-20 anni con lo smalto alle mani e ai piedi andassero a vivere mantenendosi estremamente femminili in uno sport tanto duro che pensavo fosse quasi esclusivamente per veri uomini. Pregiudizi che volevo scardinare in me e per i quali ero disposto a rimettere in gioco tutte le mie convinzioni.

 

LE PALESTRE di boxe:

La prima palestra era di fatto una semplice tettoia, e ho capito subito perché ci andavano le ragazze carine. La palestra era gestita da due fratelli ormai in età avanzata che l’avevano aperta per insegnare agli altri la difficile arte del combattimento.

I due fratelli su un tappeto antiscivolo si riempiono di protezioni la testa, le mani le braccia e le gambe e di fatto diventavano due bersagli sui quali far sfogare la rabbia delle giovani ragazzine. Queste li riempirono di sonore raffiche velocissime di calci e pugni che senza le protezioni farebbero comunque male anche agli esperti maestri.

Di fatto un posto dove fare un pò di sport dopo le lezioni all’Università divertendosi a dare botte sapendo comunque di non prenderne. Gli allenamenti di boxe thailandese si svolgevano con il maestro che dava i comandi per farsi colpire dagli allievi e dava il ritmo per farlo, con brevi parole gli diceva se tirare un pugno sul guantone o un calcio che lui sarà pronto a parare per proteggersi.

Da quel posto gli unici campioni che ne sarebbero usciti erano i maestri la sera quando tornavano a casa dopo l’orario di lavoro.

Muay Thai
Si preparano i guantoni per l’allenamento. Foto: © Roberto Gabriele

Non ne rimasi deluso, ma al contrario fui soddisfatto di quella visione del mondo che non conoscevo. Di certo era una palestra in cui fare sport anche impegnativo, ma quello era un posto alla moda, non una fucina di atleti come quella che volevo io. 

Capii però il perché questo sport sia tanto diffuso in Thailandia: perché in quel modo lo può fare davvero chiunque, è questo il motivo del suo successo.

Eppure mentre ero lì c’era una sensazione che non riuscivo a spiegarmi. Mi mancava qualcosa ma non capivo cosa fosse, me ne sono reso conto solo dopo essere rientrato in Italia riguardando le fotografie con una certa attenzione…Era una sensazione che lì sul momento non riuscivo a spiegarmi, qualcosa mi sfuggiva…

Ecco cosa era: mancava il ring!!! Mica una cosa secondaria: non ce ne era traccia, e quella fu la prova: era un posto per divertirsi e non un posto in cui combattere. La boxe è uno sport nobile, non dimentichiamocelo.

Il giorno dopo andai a cercare emozioni nuove in un’altra palestra di boxe thailandese. Anche qui persone di entrambi i sessi e con una età più allargata: c’era anche gente decisamente più grande di età. Qui finalmente c’era un vero ring!!!

Muay Thai
Allenamento in palestra. Foto: © Roberto Gabriele

IL RING:

 

Un grande spazio in cemento armato, decisamente più spartano nel quale finalmente sentivo l’odore acido delle persone che si mescolava con quello della pelle dei guantoni creando quel mix olfattivo deciso, forte, sofferto.

Anche qui mi avvicinai ad una ragazza molto carina, tonica, scattante, con dei guantoni più grandi di lei e le chiesi chi le avesse fatto quell’enorme livido grande come tutta la coscia destra.

Lei si girò verso un’altra ragazza e con un sorriso vero e sincero mi disse: “E’ stata la mia amica: è stata bravissima, molto più veloce di me, mi ha dato un calcio che non sono riuscita ad evitare. Ma la prossima volta sarò più veloce io”.

Non c’era vendetta né risentimento nelle sue parole. Ho visto il sorriso di chi sa di essersi difeso con onore dagli attacchi di un avversario più forte.

Gli allenamenti qui erano veramente seri: ci si allenava a colpire un sacco pieno di sabbia senza spaccarsi una mano, si facevano migliaia di salti con la corda ad un ritmo fittissimo. Qui si sollevavano manubri e bilancieri e non si colpiva il maestro per gioco o per sfogarsi.

Qui impari non solo a colpire ma anche a difenderti perché nella vita servono entrambe le cose.

Il mio viaggio qui iniziava a prendere un senso… Qui vedevo ciò che avrei voluto vedere. Quanto coraggio, mi chiedevo, quanto coraggio ci vuole a passare dall’allenamento al ring? Quanta forza e concentrazione ci vuole a liberarsi della sicurezza mentale che quelle piccole protezioni per le braccia e la testa danno a chi si allena?

 

L’INCONTRO:

E finalmente dopo le due palestre all’incontro ci sono andato davvero. Munito di un permesso speciale per entrare e uscire liberamente dagli spogliatoi. Avrei potuto assistere al sacro rituale preparatorio degli atleti prima di andare a combattere.

E nel fetido spogliatoio del palazzetto dello sport, tutto il mio viaggio ha trovato il senso che cercavo. Ho provato le emozioni più forti proprio in quel silenzio che precede l’incontro. Ragazzini, giovanissimi, muscolosi e definiti, agili e scattanti come molle, fisici asciutti ed esili, 15-20 anni…

Distesi su dei tavolacci lerci ci sono gli atleti completamente glabri che vengono unti e massaggiati dai loro preparatori prima del match. La cosa che mi ha colpito subito era il fatto che lo spogliatoio era lo stesso contemporaneamente per tutti gli atleti.
Non c’erano delle stanzette, ma un unico stanzone scarsamente illuminato dalla luce incerta di un neon schifoso coperto di ragnatele. Erano lì tutti insieme: pugili e allenatori… I secondi, il medico, gli amici dei ragazzi e tutto si svolgeva in un apparente clima di amicizia prima di darsele di santa ragione.

Il combattimento sul ring. Foto: © Roberto Gabriele



Mi piaceva studiare i loro sguardi persi nel vuoto, vedere nei loro occhi la concentrazione che precede i grandi momenti. Gli allenatori con una serie di gesti ripetuti e abituali, dosati e precisi andavano a preparare le mani dei loro campioni. Le riempivano di garze, cerotti e infilavano loro i guantoni che avrebbero dato l’ultimo dettaglio alla vestizione.

Negli spogliatoi la tensione era fortissima, si sentiva tutta l’emozione di quegli ultimi istanti che precedono la gara. Gli atleti sapevano di stare bene ma anche che da lì a poco, comunque vadano le cose, la lotta sarebbe stata durissima.

Qualcuno restava disteso sul tavolaccio a mandare un whatsapp all’esterno. Altri li vedevo tirare pugni e calci in aria in una specie di disimpegno prima del corridoio che porta sul ring. Nessuno sembrava accorgersi di me e della mia fotocamera. Tutti erano, giustamente, impegnati in ben altro tipo di ragionamenti tanto che io passavo del tutto inosservato.

Nell’aria adesso non c’era odore di sudore nè si sentiva quello dello scantinato in cui ci trovavamo. L’aria era invece piena di odore di olio canforato: un odore fresco e piacevole, stridente e inaspettato in quel luogo malsano in cui mi trovavo a vivere un’emozione fortissima condividendola con degli sconosciuti.

Ed ecco il grande momento: i combattenti vengono chiamati sul ring. Camminando all’indietro precedevo i contendenti vestiti con il loro tipico mantellino per fotografarli mentre si dirigevano verso il quadrato in cui il pubblico li aspettava. Ero emozionato più di loro: aspettavo quel momento da 40 anni. Stavo per chiudere il mio cerchio emozionale chiudendo la boxe tra le esperienze che ho vissuto da vicino seppur non in prima persona.

GONG!!!! L’incontro abbia inizio: vinca il migliore.

Foto e parole di Roberto Gabriele

Muay Thai
Rituali di preparazione all’incontro. Foto: © Roberto Gabriele

Cuba di Laura Loiotile

ESCUELA CUBANA DE BOXEO – Una palestra di vita sul ring

In un paese lontano lontano, famoso per i sigari, il rum e la rivoluzione, si lavora duro. Ovviamente parliamo di Cuba, patria della boxe dilettantistica. Si stima che un ragazzino su due pratichi quella che per i cubani è una nobile arte e non una lotta.

Foto: © Laura Loiotile

A sette/otto anni inizia la formazione in palestre di quartiere volute e finanziate dagli stessi abitanti. Ci si dedica anima e corpo per rincorrere il sogno olimpico e rappresentare così il proprio Paese.

Foto: © Laura Loiotile

Una volta conclusa la propria carriera si diventa allenatori e il ciclo continua con le generazioni successive. La dedizione, la tradizione storica e il ritmo che i cubani hanno nel ballare li rendono pugili forti che poi hanno trionfato nel corso della storia.

Foto: © Laura Loiotile

Percorrendo le strade dell’Avana con sorpresa e gioia mi sono infilata (cogli l’attimo) in questa palestra di boxe e ho assistito all’allenamento dei ragazzi, guidati sapientemente dall’esperienza dei maestri.

Foto: © Laura Loiotile

È stata una bellissima esperienza che mi ha portata a riflettere sulla semplicità con cui questi ragazzi vengono tolti dalla strada ed educati allo sport come palestra di vita.

Foto: © Laura Loiotile

Ho immaginato che il sogno del bimbo coi guantoni sia quello di salire sul ring, di combattere, di far diventare il suo sport una vera e propria professione, ma questo a Cuba non è previsto per nessuno.

Foto: © Laura Loiotile

Per il momento la magia racchiusa nei guantoni dei cubani resterà una riserva e un privilegio di quella bella “Signora” chiamata Cuba. 

L’Avana 2020

Testi e foto di Laura Loiotile

Foto: © Laura Loiotile

 

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