Mike Brodie: uno di noi
Ogni viaggiatore che utilizza la fotografia come strumento narrativo dovrebbe conoscere il nome di Mike Brodie. Invece pur essendo “uno di noi” è un Autore praticamente sconosciuto in Italia. Il suo è stato un passaggio rapido e fulminante sulla scena della fotografia contemporanea, una parabola che, proprio per la sua brevità e spontaneità, ha lasciato un’impronta indelebile. Brodie non ha mai cercato la carriera artistica, non ha mai costruito un progetto con l’intento di essere pubblicato o celebrato.

A mio avviso era anche piuttosto inconsapevole del valore estetico e narrativo di ciò che faceva, era un vero talento naturale: uno che impugnava la fotocamera e scattava seguendo il cuore e un geniale istinto creativo che uniti ad una incredibile capacità comunicativa gli permettevano di non attivare ragionamenti che gli avrebbero messo paletti mentali ad un racconto della libertà. “Ha fotografato la libertà prima ancora di sapere che stava facendo arte.”
Eppure, la coerenza poetica (e visiva) del suo sguardo, l’onestà con cui ha vissuto e documentato un mondo periferico e vagabondo, ne fanno un punto di riferimento imprescindibile per chi come noi, che siamo appassionati di viaggi e di fotografia, voglia affrontare la narrazione per immagini in modo autentico. Conoscere il lavoro di Mike Brodie significa interrogarsi sul senso stesso del viaggiare e dello storytelling: su cosa valga davvero la pena raccontare quando siamo in viaggio, sul concetto di libertà e su come mettere insieme tutto questo in un progetto narrativo coerente.

Mike Brodie: il “Polaroid Kidd” che cercava se stesso sui treni
Michael Christopher Brodie, nato nel 1985 in Arizona, si è avvicinato alla pratica del freighthopping – ossia il viaggio clandestino a bordo di treni merci – all’età di 17 anni, durante la sua permanenza a Pensacola, Florida. Tutto iniziò nel 2004, come un percorso senza meta ma fortemente identitario, che lo ha condotto a percorrere oltre 50.000 miglia attraverso 46 stati degli Stati Uniti nell’arco di quattro anni senza mai pagare un biglietto. Ha scelto consapevolmente di abitare i margini della società statunitense, identificandosi con la sottocultura hobo e con il movimento crust punk, lontano dal conformismo urbano.

L’approccio fotografico di Mike Brodie ha preso forma attraverso una Polaroid SX‑70 ricevuta da un amico, con il quale ha iniziato una documentazione istintiva della comunità vagabonda di cui faceva parte. La “tribù della rotaia” è stata oggetto e soggetto di una rappresentazione intima, priva di costruzione, che mira a raccontare se stesso fotografando gli altri. La sua fotografia, in questa fase, è una sorta di diario personale attraverso cui raccontare a se stesso la storia della sua vita, influenzata più dalla quotidianità dell’esperienza vissuta che da codici visivi predefiniti e costruiti.

Successivamente, la scelta di adottare una Nikon F3 con pellicola 35 mm (Kodak Portra 400 per i suoi toni caldi e la grande latitudine di esposizione e Fujifilm Superia per le sue rese più contrastate e colori saturi) lo portò ad un’evoluzione di tecnica e di stile verso una maggiore consapevolezza formale, senza mai compromettere l’autenticità emotiva dei soggetti ritratti.
Di se disse: «Sarei riuscito ad avvicinarmi molto di più se non avessi avuto quella dannata macchina fotografica davanti alla faccia… Ho semplicemente fotografato la mia vita.» – Mike Brodie

La poetica visiva di Mike Brodie
L’operato fotografico di Mike Brodie si colloca a pieno titolo in quella che potremmo definire antropologia visuale non convenzionale. Le immagini di Brodie restituiscono un’atmosfera densa di libertà percepita, vissuta in modo pregnante durante la sua adolescenza nomade. «Ha vissuto la fotografia come una fuga e l’ha lasciata quando stava per diventare una gabbia.»

L’accoglienza critica dell’opera di Mike Brodie da parte di autori quali Martin Parr ne ha evidenziato l’impatto per la sua aderenza visiva e affettiva ai contesti rappresentati, definendola «sfrontatamente romantica».
Alec Soth, tra i più influenti autori contemporanei, ha dichiarato: «Volevo davvero che questo libro non mi piacesse, ma sono stato completamente conquistato dalle immagini… Spero che questo libro venga ricordato per sempre.»
Brodie stesso, con disarmante semplicità, ha raccontato l’innesco della sua vocazione visiva: «Ho visto un libro di Steve McCurry… Ne sono rimasto ispirato… così sono andato per il mondo cercando di fare buone foto delle persone e dei luoghi che contavano per me.»

Il ritiro e la scelta di una vita pratica
Nel 2009 Mike Brodie dopo soli 5 anni in cui si è dedicato alla fotografia lasciando una traccia indelebile del suo passaggio, ha deciso di intraprendere un percorso formativo radicalmente diverso da quello fotografico, iscrivendosi a una scuola professionale per meccanici diesel a Nashville. Dopo un anno di studi intensivi e formazione tecnica, ha conseguito il diploma nel 2010. Questa scelta ha segnato una svolta netta nella sua vita, allontanandolo dalla fotografia e inserendolo in una dimensione professionale concreta e pratica. Ha così iniziato a lavorare come meccanico per la Union Pacific Railroad a Oakland, in California, città nella quale risiede tuttora con sua moglie, la quale, a sua volta, lavora come conduttrice di treni. La loro vita quotidiana, costruita attorno alla dimensione ferroviaria, sembra continuare – sotto altra forma – il filo narrativo del viaggio che Brodie aveva esplorato fotograficamente negli anni precedenti.

Nel 2013, con una dichiarazione che sconvolse tutti, affermò pubblicamente di voler abbandonare la fotografia e il suo percorso artistico che, pur offrendogli notorietà, non coincideva con le sue aspirazioni di autenticità e autonomia che gli avrebbe dato una vita più “borghese, normale”.

Pubblicazioni e riconoscimenti
Di Mike Brodie rimangono poche prove della sua brevissima quanto intensa produzione fotografica:
- Tones of Dirt and Bone (2006, TBW): raccolta di Polaroid scattate nei primi anni di viaggio.
- A Period of Juvenile Prosperity (2013, Twin Palms): il suo libro più famoso, con edizioni successive fino alla quinta. Include reportage di vita reale in viaggio.
- Polaroid Kid (2023, Stanley/Barker): scatola con 50 riproduzioni delle prime Polaroid.
- Failing (2024) e The Slack Trilogy (2025): continuano la serie della Polaroid Kidd.
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Mostre e rassegne in Italia
Dalle nostre fonti sembra che Mike Brodie abbia esposto solo una volta al SI Fest nel 2015 a Savignano sul Rubicone, ma la sua popolarità internazionale lo ha portato spesso su riviste italiane come Vogue Italia, che nel 2013 l’ha intervistato durante la mostra newyorkese e il lancio del libro.

Viaggiare rimanendo a casa
Il vagabondaggio per Mike Brodie fonde l’imprevisto con l’identità e il tutto si plasma nel movimento che rende nelle sue fotografie. Il rumore metallico e stridente dei binari, la polvere e la luce incerta dei crepuscoli ferroviari diventano così la metafora dell’instabilità e della ricerca esistenziale.
Le sue (poche) pubblicazioni non vanno lette unicamente come opere fotografiche, ma anche come esercizi di autonarrazione e strumenti per ripensare il proprio rapporto con il mondo, anche da una condizione di immobilità. Aprire uno dei suoi libri o semplicemente osservare le sue foto in questo articolo è un invito a vivere la propria quotidianità con lo stesso spirito esplorativo e aperto con cui si attraverserebbe una terra sconosciuta pur rimandendo seduti sulla propria poltrona in casa.

Invito alla scoperta
L’opera di Mike Brodie è un invito a scattare e a viaggiare, ma è anche un invito ad osservare, a vivere la vita alla giornata, come capita, con consapevole lentezza e con una velocità passiva e involontaria, a scegliere una strada incerta con il cuore e la fotocamera sullo stesso binario, sapendo che spesso è proprio il non sapere dove si arriverà a rendere autentico il cammino.

Questo viaggio visivo, profondamente biografico e al tempo stesso collettivo, è un’ode al nomadismo esistenziale, a quella forma di documentazione che non vuole spiegare il mondo ma viverlo, raccontarlo per frammenti, affidandosi all’istinto e alla sensibilità. È anche un richiamo implicito a riappropriarsi di un tempo proprio, sganciato dall’urgenza e dalla pianificazione, dove ogni incontro diventa racconto e ogni deviazione una possibile rivelazione.
Una testimonianza che incoraggia chi non ha smesso di interrogarsi, di osservare, di desiderare. È un invito a riprendere in mano la tua fotocamera per scrivere con la luce la tua narrazione, passo dopo passo, immagine dopo immagine, anche restando fermi – perché partire, in fondo, è uno stato della mente e non del corpo.
