Ural, la ricerca di Rasputin

Trovati gli sponsor, ricevute le Yaris gentilmente offerte da Toyota, eccoci al via verso la Russia. Siamo in tre: il grande viaggiatore, io ed il cameramen.


Questa volta andiamo alla ricerca di Rasputin. Il tempo sembra porti neve quando raggiungiamo Tyumen , siamo poco distanti da Porovoskoe, la nostra meta.
Il tempo psembra essersi fermato. Le casette colorate, ma sbiadite, non danno segni di vita. Un piccolo market sembrerebbe essere l’unica cosa nuova. L’emozione è grande.


Il sogno è diventato realtà. Siamo a Porovoskoe, il villaggio in cui Rasputin nacque e da cui un giorno partì a piedi per San Pietroburgo, anzi alla sua conquista. Noi abbiamo però un compito, trovare Victor, e lo troviamo.


E’ lui il frutto del peccato tra la sua bisnonna e Rasputin, ecco il legame che lo lega e lo fa assomigliare al mitico consigliere mistico russo. Ci accoglie, si traveste e ci racconta la sua storia. Impreca, gesticola, chiede sigarette, ci sfida ma non ha timore delle nostre macchine fotografiche.


La strada ci aspetta, dopo questo fantastico incontro il nostro compito è quello però di ripercorrere a tappe il suo percorso verso San Pietroburgo.
Raggiungiamo così Kurgan per arrivare a notte fonda a Celjiabinsk. Grande città ricca di palazzoni tristi…

Gli Urali ci attendono… il viaggio è ancora lungo. Arriviamo a NiznyNovgorod dopo una tappa di 12 ore di guida, di neve e di ghiaccio. Siamo stanchi ma non molliamo. Ecco all’orizzonte a San Pietroburgo.

Rasputin
Visitiamo la città, si respira il Natale. La neve la rende più bella, romantica, misteriosa. Ripercorriamo i luoghi storici a completamento della storia di Rasputin: la casa Jusupov e il fiume Neva dove lo hanno gettato dopo averlo assassinato. Chiediamo di Rasputin a tutti, ma le risposte sono forzatamente poche.


Il mistero continua. Santo o avventuriero, profeta o visionario, bandito o gentiluomo, non sapremo mai chi era veramente Rasputin, credo sia giusto così. La storia deve continuare con i suoi segreti, con i suoi dubbi, con le nuove scoperte… A noi rimane il ricordo d’aver toccato la Siberia, la terra che dorme, e forse senza volerlo ci ha cambiati dentro.

Foto e parole di Alessandro Castiglioni

La grande corsa all’Antartide

I giapponesi la chiamano “hoganbiiki”, ma stavolta l’esotico proprio non ce l’ha quel fascino immaginifico dell’intraducibile. Molto meglio una “simpatia per il perdente”, decisamente più calda e aggregante come descrizione di un sentimento che di questi tempi è fortemente sospettato di anarchia.
Il Capitano Scott

Comunque sia, l’epica (o più correttamente la contro-epica) della sconfitta è ciò che rende umani quegli eroi originariamente predestinati, ma che alla fine non ce l’hanno fatta, come accade a volte “all’uomo qualunque che è il vostro papà”( BattistiMogol) nell’affrontare certi giorni della vita.

“Elogio della sconfitta” lo ha definito una maestra, Rosaria Gasparro, in piccolo testo dal senso educativo che circola da un po’ sulla rete, memore di quella “nobiltà della sconfitta” pubblicato da Ivan Morris negli anni ’70. E probabilmente è quella fragilità del perdente che ci fa sentire umanamente vicini ad uno come il capitano della marina inglese Robert Falcon Scott.

Il Capitano Scott celebra il suo 43° compleanno

La sfida

Se possibile, uno al quale è andata ancora peggio di un leggendario secondo come Dorando Pietri: oggi, 14 dicembre 2021, ricorrono i 110 anni dalla conquista del Polo Sud da parte di Roald Amundsen, che precedette di soli 34 giorni la spedizione guidata appunto dal capitano Scott. Il quale, dopo aver perso il primato, nel viaggio di ritorno perse anche la vita per una serie di circostanze avverse insieme ad altri 4 compagni, Edgar Evans, Edward Wilson, Henry Bowers e Lawrence Oates.

Un uomo della spedizione in cima al Matterhorn Berg con il vulcano attivo Mt. Erebus sullo sfondo

“Dal 21 abbiamo avuto una tempesta da ovest-sud-ovest e sud-ovest – si legge nell’ultima pagina del diario di Scott datata giovedì 29 marzo 1912 – avevamo combustibile per fare due tazze di tè a testa e cibo per due giorni, il 20.

Ogni giorno eravamo pronti a partire per il deposito a sole undici miglia da qui, ma fuori della tenda infuria la tormenta.

Non penso che si possa più sperare. Lotteremo fino all’ultimo, ma stiamo diventando sempre più deboli e, naturalmente, la fine non può essere lontana.

Peccato, ma non credo di poter ancora scrivere. Abbiamo corso dei rischi. Sapevamo di correrli. Le cose si sono rivoltate contro di noi. Non abbiamo motivo di lamentarci. Se avessimo vissuto, avrei avuto un racconto da fare sulla durezza, resistenza, e coraggio dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni inglese. Queste rozze note e i nostri corpi morti dovranno raccontare questa storia.”

L’ultima pagina del diario di Scott

E poi l’ultima nota, lucidamente rassegnata, “Per l’amor di Dio, pensate ai nostri parenti.”

Herbert Ponting nella sua camera oscura improvvisata

Eppure, nonostante il fallimento della missione, è proprio Robert Scott piuttosto che Amundsen ad essere circondato da un’aura leggendaria . A lui sono dedicati libri, fra i quali “Ultimo parallelo” di Filippo Tuena, uno dei romanzi italiani più importanti degli anni Duemila, una canzone certamente non indimenticabile (www.youtube.com/watch?v=YM7oBjeQuyQ) , e un profilo Twitter (https://twitter.com/captainrfscott) che in 2797 tweets tratti dai diari di Scott ne ripercorre tutta la vicenda, fino a quell’ultimo “tweet” del 29 marzo. I diari di Scott, appunto: se l’uomo che accetta di perdere suscita simpatia, questo comunque non basta alla costruzione del mito, c’è dell’altro.

Scott insieme ad altri 8 componenti della spedizione

Amundsen

A differenza di Amundsen, un ordinario elencatore di eventi, Scott era molto bravo con la parola scritta, un autentico narratore che ha reso i suoi diari avvincenti, oltre che ricchi di informazioni preziose. Ma soprattutto, per comprendere la fortuna postuma di Scott basta guardare queste foto, che ci catapultano immediatamente nel cuore di una storia simile a un film, resa ancora più affascinante dalla consapevolezza dell’epilogo tragico.

Se Amundsen portò con sé una macchina fotografica che si ruppe abbastanza presto durante il viaggio, per cui la maggior parte delle foto sopravvissute sono quelle scattate da Olav Bjaaland con la propria macchina fotografica, certamente non un fotografo esperto, Scott, già consapevole della grande efficacia comunicativa della fotografia, portò con sé il fotografo professionista e direttore della fotografia Herbert Ponting.

Il fotografo Herbert Ponting

E proprio le foto di Ponting si possono considerare le principali artefici della costruzione di un monumento alla memoria della spedizione Scott, un documento di grande bellezza formale oltre che di narrazione non convenzionale per l’epoca, fatto soprattutto di momenti in-between. Come non sentirsi coinvolti dalla calda atmosfera di chiacchiere miste all’odore di tabacco che si crea davanti alla stufa a legna, o dei momenti di relax nella stanza delle cuccette; come non immaginare i momenti di solitudine di quegli uomini dai pensieri rivolti ai propri cari lontani mentre coltivano una strana normalità, suonando un pianoforte o giocando con dei pinguini.

Il geologo Thomas Griffith Taylor e il meteorologo Charles Wright

Scott e gli altri 4 compagni furono ritrovati un paio di settimane più tardi dai sopravvissuti della spedizione, che per commemorarli eressero una croce di legno con l’iscrizione di un verso dell’Ulisses di Tennyson: “Lottare, cercare, trovare e non arrendersi”.

la zona notte. Foto: © Herbert Ponting

Attilio Lauria

Facebook: https://www.facebook.com/attilio.lauria

 

Attilio Lauria, Autore del brano

Afghanistan, Bamiyan

Partecipo al concorso Travel Tales Award con un racconto sul viaggio in Afghanistan e India, tratti dal mio diario. Le foto sono in parte in bianco e nero, quelle del viaggio tra gli incontri e i torrenti del Badoskan. Quelle dei Buddha e della valle di Band-i-Amir le ho lasciate a colori come dalle originarie diapositive.

Afghanistan – 5 Francesco e la gente afghana

Le fotografie sono in parte del Sottoscritto Francesco Carmignoto e in parte dell’amico Francesco Ghion che ci ha lasciati quattro anni fa. Il suo ricordo mi riempie sempre di affetto e di nostalgia per il tempo passato. Foto e racconti vogliono essere un omaggio alla sua gioia per la vita e alla sua bravura.

Il testo ci vede già arrivati in Afghanistan con le nostre due piccole Fiat e non descrive il lungo percorso, bensì la atmosfera e le impressioni riportate sul diario. 

Introduzione dall’Autore Francesco Carmignoto

Francesco Carmignoto

Afghanistan – 4 Una famiglia in cammino

La valle di Bamiyan

Da Kabul abbiamo deviato per la pista di Charikar, nel Nuristan. Qui il gruppo del Koh-i-Baba domina l’imponente fuga dei “colli” del Badokskan, nell’Hindu Kush, con cime superiori ai 6000 metri. 

Afghanistan – 2 Le nostre magnifiche auto

Un grande silenzio. Solo il torrente Kunduz, ricolmo di acqua cristallina, gorgoglia verso Est, verso l’Amu Darya. Più avanti formerà i sette laghi blu di Band-i-Amir.

Afghanistan – 3 Sulla strada per band-i-Amir
Afghanistan -10 Bamiyan. Il secondo Buddha

Le rovine della “città rossa”, la fortezza che ha resistito a Tamerlano, sono ancora imponenti e dominano il villaggio. La gente della tribù hazara sorride e saluta. Ha i tratti mongoli ereditati dalle orde che Gengis Khan spingeva lungo queste valli al centro dell’Afghanistan alla conquista della Persia.

Da una curva della pista, come da un belvedere, l’alta parete rosata appare traforata a perdita d’occhio. Innumerevoli grotte, rifugio per secoli dei monaci, fanno da cornice a due nicchie con statue maestose, i Buddha di Bamiyan.

Sono scolpiti nell’arenaria, in piedi, appena coperti da un leggero mantello che scende in pieghe sottili. Ricordano le statue dei grandi condottieri greci e romani. Sono la testimonianza più bella dell’arte di Gandhara, l’incontro tra gli artigiani greci al seguito di Alessandro Magno e l’arte indiana. In alto, sulla volta della nicchia si intravvedono vecchi affreschi.

Le immagini di Bodhisattva e dei fedeli intenti alla preghiera hanno aureole dorate attorno al capo, come quelle delle icone del Cristo bizantino e dei santi nella pittura del Trecento.

Afghanistan – 8 Bamyian. Le grotte dei monaci
Afghanistan – 9 Bamiyan. Il grande Buddha

Il buddismo era giunto in questa valle con i pellegrini nepalesi, attorno al terzo secolo d. C. e qui era sorto un monastero con migliaia di monaci. Il buddha più grande, alto più di 50 m, è già molto rovinato, forse dai tempi delle scorrerie di Gengis Khan o dalla conquista dell’Islam. La faccia è mezza cancellata e le gambe erose.

Eppure emana una suggestione sottile, una sensazione di pace e di tolleranza. Il braccio destro, velato dal manto leggero sembra ancora accogliere con la forza tranquilla di un tempo immutabile.

Verso sera ci avviamo verso i laghi di Band-i-Amir. Passiamo steppe infinite e aride colline dai colori bruciati. Dall’alto vediamo una serie di laghi azzurri illuminati dal tramonto rosato. Scendiamo fino ad una grande spianata sotto una falce di luna che scompare dietro le alte montagne.

Siamo soli, mentre il cielo si riempie di stelle nelle ultime luci viola. Le miriadi di stelle palpitanti nel blu evidenziano ancor più la Via Lattea luminosa come seta. I picchi altissimi sono rosati anche di notte.

Una incredibile magia trovarci sperduti quassù, tra le montagne più misteriose del mondo.

Afghanistan – La valle di Bamyian
Afghanistan – La nostra tendina nella spianata
Afghanistan – In attesa della partenza

Afghanistan 1967

Partecipo al concorso Travel Tales Award con un racconto sul viaggio in Afghanistan e India, tratti dal mio diario. Accompagnano le fotografie scattate per la maggior parte dal mio caro amico Francesco Ghion, che ci ha lasciati quattro anni fa. Il suo ricordo mi riempie sempre di affetto e di nostalgia per il tempo passato. Foto e racconti vogliono essere un omaggio alla sua gioia per la vita e alla sua bravura.

Il testo ci vede già arrivati in Afghanistan con le nostre due piccole Fiat e non descrive il lungo percorso, bensì la atmosfera e le impressioni riportate sul diario. 

Il racconto si riferisce a Kabul e alla sua gente di antica fierezza.  

La Foto 14 relativa a Kabul ci mostra tutti a cena con il segretario d’Ambasciata, la 15 Francesco Ghion con il parroco della chiesetta all’interno dell’ambasciata. La sua parrocchia era l’Afghanistan.

Afghanistan 1967. Gente di Kabul

Kabul ci accoglie con il solito caos delle città orientali, nel gran brulicare di gente a piedi e di tanti calessi trainati da un cavallo. Qui li usano come taxi.

Foto: © Francesco Ghion – I taxi di Kabul
Foto: © Francesco Ghion – Sull’asinello del nonno

Le nostre due piccole Fiat, che da Padova hanno già percorso più di 10.000 km, creano sorpresa e curiosità. Al centro di un incrocio un vigile dall’uniforme senza più colore è immobile e osserva il via-vai da una piccola pedana.

Si rianima appena vede le nostre auto che si fanno largo a stento. Scende deciso nel “traffico”, si mette a fischiare come un’orchestra, intima l’alt ad un vecchietto con l’asinello, ai carretti e ai numerosi pedoni pieni di fagotti multicolori e poi, con gesto magniloquente ed il volto illuminato dal suo più bel sorriso, ci indica che la via è libera.

Il bello è che ad ogni incrocio c’è lo stesso tipo di vigile, che esegue le stesse grandi manovre solo per noi.

Foto: © Francesco Ghion – Notabili di Mazar-i-Sharif

La città vecchia è un groviglio di viuzze dove si affacciano botteghe di ogni genere. L’affollamento è straordinario, carretti, asini, capre, qualche fuoristrada scassato e tanta gente con vesti fantasiose. Gli uomini usano vesti e mantelli sovrapposti e turbanti colorati in testa. Alcuni ostentano lunghi fucili, piuttosto vecchi e scassati. Forse solo decorativi.

Foto: © Francesco Ghion – Al mercato dei macellai
Foto: © Francesco Ghion – Le mogli dell’ufficiale

Impariamo a distinguere le tante etnie. I pashtun della zona di Kandahar portano un grande turbante bianco. I borghesi di Kabul un elegante berretto in pelliccia di karakoul. Gli afghani del Nord indossano il pakol, un berretto marroncino che sembra una padella con il bordo ingrossato. Assomiglia al copricapo dei Signori del Rinascimento italiano.

Davanti ad un cinematografo nel bazar, una piccola folla commenta sorpresa i manifesti del film americano Cat Ballou, in cui Jane Fonda si mostra in una posa curiosa.

Foto: © Francesco Ghion – Cat Ballou
Foto: © Francesco Ghion – Il venditore d’acqua

Seduto a terra, un erudito legge il Corano ad un devoto accovacciato di fronte. L’afghano sembra un po’ perplesso.

Foto: © Francesco Ghion – Al bazar. La lettura del Corano
Foto: © Francesco Ghion – Il Fotografo

Un venditore d’acqua porta un otre ricolmo. La barba è tinta di rosso con l’hennè. E’ vestito di una stoffa ricavata da un sacco, ma con taglio quasi occidentale. Orologio al polso e toppe sui gomiti ne fanno un elegantone.

Foto: © Francesco Ghion – L’attesa

Al mercato le donne con il burqa appaiono silenziosi fantasmi colorati. Da lontano vedi volteggiare un leggero mantello dai colori tenui dell’azzurro e del rosa. Scende dalla testa ai piedi e le mille pieghe si muovono sinuose. Un bimbo in braccio si nasconde tra le pieghe.

Foto: © Francesco Ghion – Bimbo addormentato nel burqa

Ne siamo veramente affascinati. Nella immaginazione dei nostri vent’anni, così tutte le donne diventano belle, una immagine fluttuante, un corpo etereo che il vento si diverte a nascondere ed evidenziare, un balenare di occhi neri che ti osservano curiosi. Poi il capo si abbassa e il burka scompare tra la gente in un leggero fruscio.

Francesco Ghion

Foto: © Francesco Ghion – Spaghetti con l’ambasciatore
Foto: © Francesco Carmignoto – Francesco Ghion con il parroco di Kabul

Azerbaijan: gas, petrolio, e…

Ci sono i “viaggi del cuore”, c’è il “Viaggio della vita” ci sono le “vacanze spensierate”, i viaggi semplici e quelli avventurosi e poi… E poi c’è L’Azerbaijan, un Paese nel quale non ti saresti mai immaginato di andare, un Paese tutto da scoprire, nel quale letteralmente non sai cosa aspettarti e del quale non trovi neanche info sul web. Parti solo conoscendo la data del volo aereo.

Insomma ti scopri completamente ignorante di un angolo di mondo e decidi di partire, di andare a vedere cosa ti sei perso, cosa si perdono quelli che ancora non ne sanno nulla…

Ed è proprio quello che è successo a me: tornando dall’Uzbekistan ho deciso di fare con il volo uno scalo a Baku, la capitale. Fino a quel momento non l’avevo neanche mai sentita nominare…

La metropolitana di Baku in stile monumentale sovietico. Foto: © Roberto Gabriele

Baku:

Arrivando a Baku mi sono immediatamente accorto che le mie poche, pochissime, aspettative che avevo su questo Paese erano in realtà frutto della mia fantasia e di una specie di bonario “pregiudizio” che avevo sul Paese.

Il pazzesco sillogismo per il quale siamo convinti che una cosa, se non la conosciamo o non ne abbiamo sentito parlare, allora vuol dire che non è bella, che non la conosce nessuno e che non c’è nulla da vedere o da fare… Un vero Viaggiatore non dovrebbe mai ragionare in questo modo, ma è umano, capita di farlo… L’ho fatto anche io. Sbagliando. E per vincere la mia ignoranza ho deciso di andare a colmare le mie lacune.

L’Azerbaijan ha ottenuto la sua indipendenza dalla ex URSS il 18 ottobre 1991, per cui in tempi abbastanza recenti, mi aspettavo quindi che Baku fosse una città con vecchi retaggi da regime, con austeri e imponenti edifici di stampo sovietico. Pensavo a giganteschi condomini e strade enormi per le classiche parate militari da guerra fredda… Pensavo insomma al vecchio clichè architettonico di Berlino Est, piuttosto che a Tashkent o Tiraspol, Astana… A quelle città costruite per dare fasto al regime comunista dell’epoca.

donna di Baku
Tra le vie periferiche di Baku sembra di essere tornati nella ex Unione Sovietica. Foto: © Roberto Gabriele

Ecco… Appena arrivato in aeroporto mi sono immediatamente ricreduto: quello che mi aspettavo fosse un gigante grigio e squadrato di cemento armato, un grosso “scatolone” porta persone, era invece uno dei più begli esempi di architettura aeroportuale che io abbia mai visto…

Un aeroporto ricco e fastoso come quello di un Emirato Arabo: modernissimo, rifinito e pulitissimo, che alterna forme armoniche in vetro e acciaio armonizzandole tra loro con la necessaria razionalità di uno scalo che guarda solo al futuro rinnegando il proprio passato.

Rinnegare il passato per l’Azerbaijan è stato ad esempio scrivere un nuovo alfabeto per cancellare completamente il cirillico a suo tempo imposto dal regime sovietico. Qui in Azerbaijan c’è ora una scrittura di provenienza latina, ma con alcune lettere modificate, segno di una vera e propria rivoluzione culturale che, per cercare una propria identità, ha iniziato a traslitterare la propria letteratura. Il Russo però è una lingua ancora molto parlata, studiata a scuola e conosciuta da chi è nato nella vecchia URSS e ora si trova cittadino Azero.

Il Il Centro Heydar Aliyev di Baku progettato dall’Architetto Zaha Hadid. Foto: © Roberto Gabriele

Lasciato l’aeroporto, in pochi minuti siamo arrivati alle porte della città, il benvenuto ce lo danno le costruzioni più moderne e innovative degli archistar più famosi al mondo: prima tra tutti Zaha Hadid. E’ opera sua l’enorme museo che è alle porte della città, ed è la prima cosa che si nota all’arrivo. Un museo come questo è già esso stesso un’opera d’arte che può ammirare chiunque gli passi davanti. Siamo rimasti due ore a camminare negli enormi prati circostanti, ad osservare e fotografare la gente che andava e veniva…

A pochi passi dal museo siamo arrivati in città e abbiamo notato qualcosa di strano…. barriere, tribune, tende, pubblicità enormi, strutture prefabbricate… Era la seconda sorpresa di cui non immaginavamo nulla: due settimane dopo ci sarebbe stato il Gran Premio di Formula 1 sul circuito cittadino di Baku, un pò come quello ben più famoso di Montecarlo… Pensavamo di trovare un Paese povero, tutto da scoprire e da… “civilizzare” e invece a due ore dal nostro arrivo ci rendevamo già conto che certi eventi muovono cifre incredibili e non può organizzarli un “Paese in via di sviluppo”.

Flame Towers
Le Flame Towers dominano la città di Baku. Foto: © Roberto Gabriele

Il nostro giro nelle strade del centro è stata una scoperta ad ogni passo: l’architettura è quella tipicamente parigina, elegante e neoclassica con i tipici tetti spioventi come nella Capitale francese, e nel centro nulla rimane, inaspettatamente, delle austere linee architettoniche del regime sovietico.

Baku è una città che ci ha saputo stupire, lasciare letteralmente a bocca aperta ad ogni angolo. Modernissimi centri commerciali, una linea di metropolitana semplice ma che copre tutta la città, un centro storico fortificato con vicoli e mura nelle quali è bello perdersi andando in giro ad esplorare ogni scorcio della città tra lussuose Ambasciate che si affiancano ai negozietti di paccottiglia per turisti.

Ma il centro è un susseguirsi di nuovissimi edifici e centri commerciali modernissimi in cui vetro e acciaio la fanno da padroni a copertura delle architetture più moderne e sfarzose. Tra questi il museo del tappeto con la sua tipica forma arrotolata e con tanto di decorazioni orientaleggianti, il lungomare che si estende sul mar Caspio è tutto un susseguirsi di viali alberati, teatri, centri congressi e tantissimi edifici dedicati alla ginnastica, alla danza e agli sport di lotta che sono le specialità in cui da queste parti riescono meglio ad imporsi ai massimi livelli al mondo.

Hammam
L’Hammam tradizionale di Baku è un insieme di arredi bizzarri. Foto © Roberto Gabriele

La gente passeggia nelle strade, ci sono persone che fanno sport e quelli che frequentano gli hammam decorati con un improbabile stile kitch di dubbio pregio ma di grandissimo fascino. E’ evidente un certo benessere generale, le persone lavorano tutte, la disoccupazione non è un problema ad ogni angolo di strada c’è un poliziotto di piantone, persino le stazioni della metropolitana hanno un bile di binario per ciascun senso di marcia, una cosa mai vista in nessun’altro posto al mondo. Hanno belle auto, vestono bene e c’è ancora il piacere di andare a fumare nei locali del centro per chiacchierare dei loro affari, sembra di stare nei caffè di Parigi di un secolo fa, ma senza rinunciare ai piaceri della modernità.

La zona periferica di Baku perde l’eleganza del centro e lascia il posto ad enormi palazzoni di stile ex sovietico. Foto: @ Roberto Gabriele

Fuori dal centro

Andando in periferia la situazione cambia completamente. Dalle boutique scintillanti del centro prendiamo la metropolitana che ha due linee e in poche stazioni, veniamo letteralmente trasferiti come in una macchina del tempo all’epoca della ex Unione Sovietica. Qui tutto ci riporta a quell’epoca, è un’altra città, un’altra epoca storica. E invece no, sono le due facce della stessa medaglia. Qui all’ultima fermata della LINEA ROSSA dallo sfarzo e dalla modernità dei palazzi amministrativi del centro si passa improvvisamente ai giganteschi mostri di cemento armato arruginito che assumono le sembianze di dormitori di 20 piani e 10 scale con centinaia di appartamenti e migliaia di persone che ci abitano.

Ecco… qui possiamo vedere, almeno in parte, quello che ci immaginavamo dell’Azerbaijan prima di partire.

periferia di Baku
Le case popolari di Baku nelle quali si vive ancora come un tempo. Foto: © Roberto Gabriele

La gente in questa zona della città ha una vita frenetica, i palazzi enormi e impersonali in cui vivono, condizionano molto il loro stile di vita. Qui si esce a piedi, senza badare al look, ci si veste per andare al lavoro negli impianti petrolchimici o per andare a fare la spesa al supermercato sotto casa. Di auto ce ne sono poche e quelle che ci sono sono vecchie e malandate. In strada al posto delle scintillanti boutique del centro ci sono fetide palestre e sale bingo, negozi di barbiere e di elettronica, fast food e una serie infinita di negozi di abiti da sposa, talmente numerosi che ci domandiamo quanti possano essere i matrimoni in un anno…

petrolio
Un lago di petrolio: l’Azerbaijan. è uno dei più grandi produttori di oro nero al mondo. Foto: © Roberto Gabriele

Gas, Petrolio e un mondo artigiano

Uscendo da Baku troviamo un’altra sorpresa: l’Azerbaijan è uno dei più forti produttori di petrolio e gas naturale al mondo e ce ne rendiamo conto immediatamente. Qui ci sono laghi di oro nero a cielo aperto: delle pozze putride sotto le quali da oltre 100 anni si estrae il greggio che viene esportato in tutto il mondo. Anche nel Mar Caspio ci sono giacimenti di gas a pochi metri dalla riva e vicinissimi al centro città. La zona estrattiva è molto limitata… una ventina di chilometri di diametro proprio intorno alla capitale: qui ci sono migliaia di pozzi, non ci sono recinti ma sono controllatissimi dal personale che non manca mai.

La terra è grassa, molle, priva di vita perchè impregnata di preziose sostanze, ci sono le Yanar Da, le montagne di fuoco dalle quali ininterrottamente da oltre mille anni escono lingue di fuoco e che sono state luogo sacro per la religione zoroastra. Il gas che fuoriesce dalla collina prende fuoco per autocombustione e crea un fronte di circa 12 metri di fiamme che venivano venerate dal popolo.

Azerbaijan
Un fabbro che lavora ancora in modo tradizionale. Foto: © Roberto Gabriele

Ci siamo poi allontanati da Baku in direzione di Sheki per fermarci tra le aspre montagne che sono intorno a Lahic. Qui abbiamo visto la parte meglio conservata dell’Azerbaijan, dove la gente vive come una volta in una società agropastorale che a stento e solo negli ultimissimi tempi si sta aprendo al turismo e alla modernità.

Qui puoi trovare solo qualche albergo, la connessione wifi e qualche ristorante, il resto è ancora tutto come una volta: un salto nel tempo alla nostra Italia del secondo dopoguerra…

I ritmi di vita sono sereni e rilassati, il venerdì si va alla moschea, la gente parla in strada o gioca a domino mentre sorseggia un bicchiere di the fumando liberamente nei locali pubblici.

Foto: © Roberto Gabriele

Qui si possono fare amicizie fatte di sguardi e di sorrisi, la gente non parla inglese ma ha voglia di socializzare e allora ti accoglie come può offrendoti un bicchiere di the o un caffè o chiedendoti una sigaretta in cambio. Per accogliere qualcuno non serve aver studiato le lingue, non serve neanche avere chissà quali discorsi da fare, a volte basta sedersi a tavola con un estraneo che ti fa capire che ha piacere di stare con te. E’ una sensazione molto forte, alla quale noi non siamo abituati, ma che invece è invece importante saper apprezzare.

Questo è il mio Azerbaijan, un Paese pieno di sorprese e tutto da scoprire.

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Pozzi di petrolio in pieno centro città a Baku. Foto: © Roberto Gabriele

Roberto Gabriele

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