Abruzzo

Le chiese di campagna, ch’erbose hanno le soglie…Così nei versi di Pascoli. La chiesetta di Madonna della strada, una frazione di Scoppito, aveva la soglia invasa dai rovi, la porta divelta a metà, pochi vetri alle finestre. L’interno era tutto imbiancato a calce, salvo una sparuta immagine di madonna che sovrastava il misero altarino. La chiesetta era la casa dei rondoni che vi avevano nidificato numerosi e che stridevano acutamente sotto il tetto, volitando in un intreccio di traiettorie mirabili, per poi uscire a guadagnare la pura aria, lanciati nel cielo turchino a compiere più ampie volute. Quell’anno era venuto, sul piazzaletto della chiesa, un operatore a proiettare su uno schermo di tela tirato su alla meglio, una serie di vecchie comiche di Ridolini, tutte spezzettate. Una seconda volta, invece, fummo fortunati ad assistere, non so come, ad un film abbastanza recente intitolato “Sabotatori”, film che io vidi da una posizione molto defilata da cui le figure apparivano appiattite e allungate. 

Era trascorso solo qualche anno da quando avevano spesso di transitare, sullo stradale davanti alla chiesetta, tutti quegli autocarri militari scoperti, carichi di soldati armati, uomini scuri di pelle, tutti con turbanti sul capo. Uno di quegli anni vi era passata la Mille Miglia, che avevamo ansiosamente atteso in molti, restando ad aspettare il passaggio di Tazio Nuvolari e seguitando poi a parlarne per molti giorni. Era quello il tempo in cui la figura di uomo ideale era per me il meccanico. Alla fornace ce n’era uno di nome Dante, un uomo che stava tutto il tempo a manovrare su una moto, che provava da ferma facendone andare il motore a tutta callara, come diceva lui, spandendo intorno un odore acuto di olio di ricino fritto. Mi faceva impazzire la sua tuta tutta d’un pezzo, frusta e sporca d’olio, con la chiusura-lampo di traverso. Dante aveva mani forti, che serravano gli strumenti con calma abilità; quando aveva le mani occupate ad aggeggiare, teneva la sigaretta tra le labbra nell’angolo sinistro della bocca, strizzando l’occhio per evitargli il fumo.

     Dell’Abruzzo ricordo queste cose scabre, questa gente di campagna, i paesaggi invernali e la neve calpestata delle strade sassose, una immensa selva di biancospino, il canto dei contadini sulle aie al tempo della trebbiatura, il loro duro lavoro intorno al frumento, che lanciavano in alto con quel grande setaccio per liberarlo dalla gluma. Ecco, l’immagine dell’Abruzzo, che a scuola la maestra diceva “Abruzzi”, per noi inspiegabilmente al plurale come “le Calabrie” e “le Puglie”, l’immagine dell’Abruzzo era proprio una immagine scabra, come ho detto. Il solo fatto che quella possente montagna, quel massiccio imponente fosse semplicemente chiamato “sasso”: il Gran Sasso, mi testimonia oggi di un atteggiamento chiuso, di una inclinazione a risparmiar persino le parole, a ridurne la portata al puro significante. Questo atteggiamento, che è nella sostanza un profilo spirituale, significa alla fine una integrità, che dura sia pure per poco, il tempo che dura una favilla, ma che resta come percezione forte di un mondo costituito di pochi elementi semplici, naturali, piccoli doni dati a tutti, ma che poche volte, o una soltanto, riusciamo a vedere come grandi tesori e che, una volta intravisti per tali, restano in noi come indelebile idea del mondo, una fra le tante, bella come tante. Un mito, il “Sasso”, il sasso grande. Un altro mito di questa terra resta per me il lupo, discorro dell’epoca immediatamente post-bellica, parlo delle stragi di pecore e dello sconforto susseguente, parlo dei lupari che venivano riconosciuti come meritori difensori della comunità pastorale, tantoché riscuotevano mance in natura, alquanto risicate in verità, come sempre mi è capitato di osservare, conducendo in giro il lupo ucciso, messo di traverso su un somaro, a mostrarlo alla gente. 

     Il paesaggio dell’Abruzzo, quello che io ricordo. I prati smaltati di pioggia, l’odore della terra intrisa, l’umido respiro della terra, l’odore delle pecore; il vello folto scosta l’acqua ma esala un fortore selvatico, il pastore ha l’odore, lo stesso, delle sue pecore, il pastore vive in un cerchio di pioggia, resta sotto la pioggia senza neppur aprire l’ombrellaccio che porta a tracolla, e non cerca ricovero nella capannuccia di rami, gli bastano l’incerata e il suo feltro a punta; il pastore fischia i suoi acuti richiami da pecoraio, che servono solo a far compagnia a se stesso e a farne alle pecore, anche se sono chiuse, aggruppate strette nello stabbio di corda, al cane bianco che non ha riposo attorno al gregge, come se fiutasse continuamente un pericolo. Il pecoraio guarda in giro all’orizzonte sotto la tesa di feltro, anche se non dà a vederlo e sembra che guardi fisso alle sue pecore, invece conosce gli alberi e vede le volpi passare lontano e a notte parla alle stelle.

     Il paesaggio contiene poche cose disegnate, dovunque si guardi, quello che c’è è venuto su naturale, soltanto gli steccati sono fatti dagli uomini ma sono grezzi, intrecciati di rami storti come storti sono i muriccioli di pietre a secco; la strada asfaltata è l’unico vero disegno, la strada con la casina rossa del cantoniere, con le piazzole di materiali messe a intervalli regolari, dove dagli stradini sono stati ammonticchiati, in cumuli a forma di perfetta piramide tronca: i sassi e la ghiaia grigia per le toppe, per le riparazioni da fare usciti fuori dall’inverno. E i fontanili, sì anche i fontanili che rispecchiano il cielo sono costruiti dagli uomini, e così i calzini messi agli alberi, la fascia bianca di calce dipinta ai piedi dei tigli che seguono la strada e nella notte segnano il cammino. Tutto il resto, le macchie degli abeti le siepi fitte di rovi gli arbusti i meli selvatici i prati di fragole ribes lamponi uvaspina il ruscello il profilo dei monti, tutto è un capriccio di forme come le nuvole e la loro ombra, come i massi sparpagliati sul terreno e ricoperti di licheni e di muschio.

     L’Abruzzo! Uno stato d’animo speciale, influenzato certamente dal carattere non solo fisico del luogo, che mi ha fatto provare a lungo e molte volte quel brivido metafisico, effetto della mia natura contemplativa e della mia sensibilità panica. Così una stagione di vento, le sempre mutevoli strade che esso percorre, come le strade del cuore. Il vento soffiava quella stagione, lassù sull’Altopiano delle Rocche, in una maniera nuova per me. Era un vento strapazzone e ridente che spirava nei golfi del mio cuore e io ero pieno di vento e facevo parte del vento. Il vento, spirito della notte, sorvolava i tetti frusciando e io con esso perdevo a tratti la memoria nel sonno e a tratti la ritrovavo. Il fruscio lene di altri mondi, di mondi remoti. Avevo allo stesso tempo una sensazione di familiarità con me stesso e di estraneità. Andavo con il vento, come i nugoli di polvere vanno, come le foglie a mulinelli. Udivo il vento urtare sui vetri con violenza, sulla carta incatramata messa a riparo dove mancava una lastra. Il vento passava sotto le porte e spifferava nelle stanze…Quella fu anche la stagione delle lucciole nelle notti serene. Le vedevi per un attimo, vedevi la loro tenue luce solo per un attimo in un punto del buio e un istante dopo in un altro punto. Ma era la stessa luce, la stessa lucciola? Non vi è nella notte un maggior intenerimento che la sorpresa di guardare una lucciola accendersi indifesa sul palmo della tua mano e volare subito via. E non c’era in quelle notti sull’altopiano una visione più alta della Via Lattea, dove la mia ossessione di infinito si placava. Potevo guardare all’infinito, potevo vederlo. Una cosa nebulosa, l’infinito, una cosa imprecisa: ci sono fiamme accese a distanze siderali dove l’occhio non arriva. Ma sai che ardono malgrado i tuoi occhi. 

Abruzzo © Renato Gabriele

Facebook: https://www.facebook.com/RenatoGabrieleScrittore

 

 

 


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Per rivivere insieme a noi i luoghi di questa “prosa poetica” di Renato Gabriele puoi seguirci nel nostro Viaggio Fotografico che faremo in Abruzzo dal 21 al 26 giugno 2021, poi per chi vorrà il tour prosegue direttamente per il Molise e chi si iscrive ad entrambi i viaggi risparmia 100,00 Euro sul totale. Info, costi e iscrizioni sul sito: https://viaggiofotografico.it/product/abruzzo-aquila-e-pecore/

Il comandante della caccia reale

Dal Romanzo Il comandante della caccia reale di Renato Gabriele (Genesi, Torino 2008). Il libro narra la vicenda, intorno all’anno 1830, di Nicandro Ferrante, master di caccia di Francesco I di Borbone. Il Romanzo è stato selezionato per il Premio Campiello 2008. Clicca qui per vedere la scheda del libro

Il libro sarà in vendita durante il workshop.

S’incamminò per la lieve discesa di Toledo inondata di sole ed ormai molto animata. Era completamente stordito dall’alto rumore che vi risuonava come un cacofonico sottofondo musicale dal quale a strappi, secondo il prevalere dell’uno o dell’altro strumento, si poteva distinguere ora un sonoro zoccolare ora un arrotare o un battito metallico ora il richiamo d’un venditore ora il vociare di un gruppo di persone o una canzone proveniente da una finestra.

Diversi lo seguivano con lo sguardo e qualcuno addirittura si voltava, forse incuriosito dal contrasto che fra loro facevano i vestiti dal tono tanto discorde e dal fucile che portava con la canna in giù, a spasso per la città, unitamente alla borsaccia. Gli si avvicinò un fratacchione di cerca che gli chiese l’elemosina per le anime del purgatorio ma lo fece con un tono che gli suonò insultante. Dette una moneta e pensò che forse avrebbe fatto meglio a tenere la giacca vecchia ed a lasciare la nuova al sarto, per ritirarla l’indomani insieme con le brache.

Considerato che il sole scaldava a sufficienza ed anzi finanche troppo, si svestì della giacca ed andava portandola ripiegata sul braccio, restando con il solo panciotto sulla camicia.

Il largo di San Ferdinando a Chiaia brulicava di gente intorno ad un paio di saltimbanchi. I due caffè erano pieni di uomini in tuba e vestiti di nero. In giro c’erano donne con l’ombrellino e nugoli di ragazzini rattoppati, da cui don Nicandro si tenne accuratamente alla larga, reputandoli pericolosi marioncelli ed avendo per giunta l’impaccio del bagaglio e dell’arma, che sicuramente riducevano le sue difese contro i borseggiatori. E tra quella gente dovevano essercene molti.

Si fermò sulla piazza di palazzo. Eccola là davanti, la chiesa di Pietro Bianchi, la intravedeva dietro l’impalcatura. Non gli parve una cosa speciale, almeno per quello che ne avrebbe potuto capire lui; doveva però essere importante, se lo stesso architetto aveva saputo ideare quella grande macchina del teatro mobile alla Fagianeria, un marchingegno poderoso, per l’Anticristo!, che aveva potuto essere smontato in così poco tempo e trasportato altrove.

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Van Pitloo

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Camminando per la via fu costretto a mettere i piedi in certi rivoli d’acqua o d’altri liquami, cercando intanto di schivare scoli e iatture che potessero macchiargli la chamberga. Ma non poté schivare le continue richieste d’elemosina che gli faceva una moltitudine di persone malridotte, coperte di stracci e chiaramente denutrite, con gli occhi infossati dalla fame, emaciate, ingobbite e bitorzolute, zoppe e gozzute, cieche e mutilate, che suscitavano in lui uno schifo istintivo e nessun intenerimento caritativo ma reazioni d’insofferenza per nulla temperate:-Passa là, dannato zelluso…fetente! Non me toccare co’ ‘ste luride mani, per l’Anticristo!

Queste oltraggiose proteste gli causarono alla fine un’aggressione in un vicolo stretto in cui, ignorando che fosse a cul di sacco, era andato a cacciarsi. Se la cavò menando cazzotti poderosi e calci da mulo, senza neppur dover toccare la sferra che portava infilata alla cintura. Dovette però cambiare itinerario e portarsi a Toledo, dove c’era tanta gente e dove il numero dei mendicanti, pur non scemando, era più concentrato nei pressi delle chiese, dove ormai sul far della sera andava parecchia gente per la funzione vesperale, ed all’uscita dei palazzi gentilizi e dei conventi, dove restavano ad aspettare gli avanzi della cena.

Dopo aver bighellonato per fondachi e botteghe, guardando con insistenza negli occhi alle donne che passavano a piedi o in carrozza, quando gli riusciva di farlo, senza essere per nulla intimorito dalla presenza degli uomini che le accompagnavano, pensò di rientrare a palazzo. Non prima però di aver fatto le compere progettate e che volle abbondanti: di maccaroni e di zampi di porco arrostiti, di zeppolelle e di altre fritture. Per terminare con le dolcezze, aveva comprato frutti canditi e cioccolatte.

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Giacinto Gigante

Stava dirigendosi al Montedidio con lo scopo di vedere la ragazza, di presentarsi a lei sia per levarsi l’uzzolo che le trame della madre gli avevano messo in capo, sia per provare, non si sa mai, a corteggiarla, come aveva ormai capito di dover fare, corteggiare le donne che non amavano le maniere spicce alle quali lui era aduso, lui che per la verità trovava ridicole le mosse del suo mentore in proposito, il dolcissimo Fergola.Lui, il guardiacaccia, non aveva mai imparato a corteggiare ed al più era stato capace di fare due regali, trovando che questa fosse una facile strada di approccio alle grazie femminili.

 Per la strada però aveva cambiato idea sullo scopo della visita. Il nuovo proposito gli era stato suggerito dalla sensazione che gli avevano dato, quel giorno come quello precedente, le continue richieste d’elemosina di certi poveri cenciosi e gli sguardi di alcuni che incontrava: la senzasione di essere da quelli reputato un signore, e forse anche facoltoso. Avrebbe allora ben potuto presentarsi in una modisteria, anche per comprare qualche cosa di più costoso ed importante di una cuffia ricamata.

La modisteria si riconosceva da lontano per un’insegna a bandiera a forma di cappello. Da un braccio metallico infisso nel muro pendeva una sagoma di lamiera piuttosto sottile, ritagliata sul profilo di una cappina femminile alla moda, del tipo a sporta, e tutta dipinta a colori vivaci, così il passamano che accostava le tese per annodarsi sotto il mento, così i fiorellini e le aigrettes che ornavano la piatta cupoletta. Sulla cornice alta della porta, per chi provenisse dall’incrocio delle strade, e perciò visibile ben da lontano, era posta una vasta tabella di bandone leggermente curvato di foggia rococò, con dipinta la scritta Mode al centro di due silouettes, l’una di un paio di guanti lunghi, l’altra ancora di un cappellino.

L’interno ebbe su Nicandro l’effetto di una cappella di preghiera, per il sommesso mormorio che l’attraversava, senza che si distinguesse da quali labbra provenisse quel parlottare, se non da un’indistinta origine posta al centro di certi gruppi di due o tre giovani lavoranti a capo chino, la cui calma operosità fatta di svelti gesti di mani sicure, l’affascinava a guardare.

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Nicandro veleggiava a lunghi passi nel vento, che davanti al Castiello tirava gelido e gagliardo. Ad Astroni avevano forse già indossato i tabarri, a scanso che l’umido respiro del bosco intaccasse le ossa; forse avevano anche acceso i camini ed allungavano già le gambe alla fiamma, arrostendo le prime castagne per ingannare le ore del buio, che nel cono profondo della foresta anticipava la notte.

L’autunno che pareva in quei giorni talvolta smentito da certe brevi sopravvivenze dell’estate, si capiva comunque definitivamente arrivato: dalla qualità e dal colore dell’aria nelle sere e dai voli degli uccelli bruni, partiti ormai le rondini e i balestrucci, a rigare i più pallidi tramonti.

Anche a Napoli, finiti i fichi tardivi, s’erano già visti i frutti autunnali e soprattutto le ceste ricolme di castagne di Mercogliano, quei bei frutti così freschi e lucenti, e dentro così bianchi e sodi, con la barba dei fioricini ancora intatta.

A falcate s’era lasciato alle spalle l’Incoronatella ed in breve era giunto alla rua catalana, ancora alquanto animata, anche se i garzoni delle botteghe avevano cominciato a sgomberare, dagli attrezzi di lavoro e dai materiali d’ogni genere, la stretta strada che, tutta quant’era lunga, era selciata. Restavano all’aperto soltanto le opere finite e la merce, insomma soltanto gli oggetti da vendere. E così restavano appesi ai ganci esterni delle botteghe i panari e i canestri, i cordami d’ogni tipo e misura e, ammonticchiati com’era possibile alla meglio, per non ostruire il traffico dei carri e della gente, botti e varrili, mastelli e tinozze, e banchetti carichi di scelle di baccalà e d’arenghe affummichiate…

Negli interni già riluceva qualche lampa, come nell’officina d’un ferraro e nel fondaco d’un carbonaio, un uomo dalla faccia totalmente nera, in cui roteavano gli occhi d’un bianco inusitato, intento a spalare, per ammassarli in gruppi più grossi, i residui della vendita del giorno, che puzzavano del piscio d’ogni cane di passaggio.

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Uscendo per recarsi al teatro di San Carlo, ch’era proprio a due passi, girato l’angolo del palazzo reale, si ricordò di dover avvertire il guardaporta che sarebbe rincasato dopo l’ora normale di chiusura ma questi lo rassicurò che lo avrebbe trovato anche a quell’ora nella bussola a vetri, essendo previsti alcuni rientri a quattr’ore di notte, per via di altri spettatori dell’opera, gente importante del secondo piano.

Giunto sulla vasta piazza di palazzo, si volse alla sua sinistra, nella direzione del mare, scrutando il cielo, ma brevemente perché l’addensamento delle nubi attestava chiaramente come stesse mettendosi il tempo. Pioggia, di certo, e neanche poca! L’inverno, pensò Nicandro, si promette acquoso. Si lasciò andare al pensiero o piuttosto alla visione, tanto gli era nitida l’immagine davanti agli occhi, della pioggia, quando cadeva a fiumi su Astroni.

Mancando ancora un paio d’ore all’incontro con il barone, che doveva avvenire sotto il porticato del teatro, andò alla ricerca d’un barbiere per farsi radere. Presto trovò una bottega in cui c’era da attendere poco essendovi soltanto due avventori da servire, meno che nelle altre barberie, che aveva incontrato numerose nei quartieri spagnoli.

Entrò senza salutare e rispose con un salute a voi ai salamelecchi dell’untuoso padrone, che lo aveva chiamato cavaliere eccellenza. Tre erano i clienti serviti in quel momento, in turno c’era poi un giovane musicista o studente, che di continuo apriva con uno scatto la custodia del suo strumento, una sfavillante cornetta, che traeva fuori e soppesava per provarne i tasti con le dita e quindi riporla sul velluto rosso cupo e richiudere poi la nera scatola sagomata. L’altro in attesa era un barbogio in calze nere di seta e scarpe verniciate e dalle fibbie dorate, alla moda delle calzature che Nicandro aveva visto indossare solo dai prelati.

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La Scuola di Posillipo

Dopo circa un’ora ritornarono sulla piazza di palazzo, ormai sulla via di rientrare a casa per il pranzo domenicale. In piazza c’era un assembramento di gente che pareva far ali ad uno spettacolo o ad una gara che si stesse svolgendo lì in mezzo. Molti infatti urlavano incitamenti e sbattevano le mani o alzavano i pugni. Domandarono ai presenti senza però ben comprendere le risposte. Si trattava di una gara tra uomini che montavano…sì! certi cavalli meccanici, una diavoleria che veniva esibita per la prima volta in pubblico.

Si avvicinarono al canapo che delimitava lo spazio di quella giostra e videro da lontano, su certi stranissimi trabiccoli, due uomini scamiciati che affannavano a girare intorno ad una meta e si urtavano urlando come ossessi indiavolati. La prima a riconoscere Nicandro in uno dei due concorrenti, prima ancora di sentirlo urlare: per l’Anticristo t’afferro e te passo!, fu Pompilia. Lo vide che sgomitava allungando quelle zampacce da cane, chillo  farabutto d’uno  tradetore, per fare leva in terra e spingere in avanti quel marchingegno. Alla fine, arrivato per primo in mezzo a due panzoni in tuba, uno di qua uno di là, scese dal trabiccolo trafelato ed ansante, con le narici da cane ancor più dilatate del solito, ma possente, sangue di Giuda!, ed imponente, e ricevette da uno dei panzoni, che gridava: il vincitore, il vincitore!, una ghirlanda infiocchettata. E Pompilia dovette anche sopportare l’umiliazione di assistere al gesto plateale che il comandante fece, ma da chi l’aveva mai visto fare quell’orso cicisbeo?, di consegnare la ghirlanda a Margareta, che gli reggeva, quella smorfiosa inguantata di bianco, la giacca: proprio come una di famiglia, una mogliera!, e di nominarla regina davanti alla folla acclamante:- La ghirlanda la dongo a chesta regina jonna, a chesta figliola ch’è la rigina de chesta jurnata, a ‘sta bardascia affatata e gentile, che ave d’oro li capilli!

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Si diresse dunque alla rua catalana dove trovò una babilonia di gente nelle cui voci risuonavano lingue e dialetti incomprensibili. Oh maronna! Pure li Turchi ce stanno! Per ogni dove si vendeva qualcosa, sia roba da mangiare che cianfrusaglie. Si soffermò un poco a guardare un grassone con un turbante sormontato da una piccola falce di luna, ma che parlava napolitano con una voce pastosa ed arrochita, che gli gonfiava il collo, ad ogni parola, come quello di un rospo. L’uomo era impegnato in quell’uguale cantilena ipnotica che accompagna sempre il gioco delle tre carte, in cui era intento con le sue grassocce ma mobilissime mani dalle unghie cerchiate di una farda nera.

Allontanatosi da quel crocchio si sentì chiamare dalla voce di un ragazzetto alle sue spalle. Avrà avuto sette od al massimo otto anni ed era in compagnia d’una torma di coetanei scalzi e smandrappati come lui.-Signo’, signo’, vedite ccà…- Gl’indicava quella che diceva una grossa macchia, una lordura di grasso, giusto al centro delle spalle, su quella sciammeria tanto bella.

Nicandro non riusciva a guardare in quel punto della schiena e fece spallucce scacciando la banda di ragazzini con un gesto della mano e continuando a camminare. Ma uno di quelli, per convincerlo, gli aveva passato un dito su quell’untume nero e glielo aveva mostrato.- La vedite ‘sta ‘nzogna nera?- Nicandro allora si tolse la giacca e quelli l’aiutarono, facendo di tutto, ancorché lui li scacciasse come mosche fastidiose, per grattare il grosso di quella spessa e densa materia.- Vabbuono, iatevenne mo! Guarda tu che canchero m’hanno cumbinato a ‘sta sciamberga nova nova! Vabbuono accussì, iatevenne, iatevenne!-

I ragazzini, che fino a quel momento ridacchiavano sfottenti, che peccato…’sta bella sciammeria…guarda ccà!, e si davano di gomito strizzandosi l’occhio, si mostrarono come risentiti ed offesi dalle urla di don Nicandro e si dileguarono rapidamente. Fu allora, appena quelli furono spariti dalla sua vista, che Nicandro portò istintivamente la mano alla tasca della chamberga. Vuota. Un tuffo al cuore.

Meccanicamente tastò il giustacuore. Il rigonfio era lì, quello almeno per fortuna. Certo avevano dovuto tastarlo anche chilli nati da cane, bastardi mariuoli. Adesso che ci pensava, si rendeva conto di averli scacciati , ed in malo modo, non per reazione a quella finzione d’aiutarlo ma per il fastidio d’essere toccato simultaneamente da tante mani in ogni parte del corpo. Ecco, cercavano il fagottone, il pacco grosso, e dovevano aver urtato anche la sferra che portava alla cintura, dovevano averla subito vista, ‘sti muccusi delinquenti! E lui, la sferra, quella no che non gliel’avrebbe lasciata sfilare; i denari sì, in quello erano riusciti. Altra cosa sarebbe stato il tentativo di sottrargli il coltello, la cui presenza al suo fianco era né più né meno che quella di un arto aggiuntivo e di cui serbava la coscienza che si ha delle membra del corpo.

Renato Gabriele è scrittore, poeta e saggista.

Cell. +39 349 6678755

Email: renatogabriele43@gmail.com

Elegia Romana

Quante immagini offre di sé una città? Quante ne mostra Roma? Infinite, tante quanti sono gli occhi che la guardano, quanti sono i passi che la attraversano…Tra le tante vi proponiamo questa volta la visione di una prima volta, quella di un bambino degli anni quaranta dello scorso secolo. Si tratta di un racconto bellissimo e struggente, pieno di meraviglia e di stupore; una narrazione attenta a cogliere le irripetibili atmosfere di un’epoca storica irritornabile. Ecco dunque questo racconto dal titolo “Elegia romana”, pubblicato nel 2003 da L’argonauta, nel volume “Il giorno dell’ira e altri racconti” di Renato Gabriele.

ELEGIA ROMANA

Racconto: Renato Gabriele

Fotografie: Roberto Gabriele

“Stiamo arrivando, mi aveva detto lo zio, siamo sul binario”. Era stato lungo quel viaggio, avevamo ingoiato il fumo del treno nelle gallerie; sentivo in bocca un sapore di fuliggine. Nello scompartimento s’era formata una nebbia densa, tante le sigarette che gli uomini avevano fumato. Uno, seduto di fronte a me, ne aveva confezionate tante con quelle mani dure, callose. Gli riuscivano male, storte,mezze vuote. Le leccava per incollare i lembi della cartina e, così bagnate di saliva, le fumava con boccate piene strizzando gli occhi e lasciando che il fumo gli uscisse dagli angoli della bocca.

Durante il viaggio ero stato al finestrino a guardare gli alberi e le case sfilare veloci. C’erano autocarri abbandonati sulle strade, qualcuno rovesciato in un fosso. Erano carcasse spoliate di tutto, senza più motore, senza copertoni. Avevano perso ogni cosa, con il tempo avrebbero smontato e portato via anche il resto. Avevo visto un piccolo autoblindo e perfino un aereo che sembrava un giocattolo dimenticato su un prato. “ I segni del conflitto”, aveva detto lo zio, con quel suo parlare preciso. Mi dava brevi ma complete spiegazioni che non ammettevano domande né repliche.

Ad una fermata del treno avevo avuto paura di aver perso lo zio, avevo provato il panico di essere solo, abbandonato. Lo zio, che era sceso per bere alla fontanina della stazione, non era ancora tornato quando il treno si era rimesso in movimento, L’uomo che fumava mi aveva però rassicurato:” Non preoccuparti, vedrai che viene subito…tuo padre, sarà salito in un vagone dietro”. L’avevo visto esitare ma non avevo voluto dirgli che quegli era mio zio, che mio padre era morto. Adesso lo zio era lì, davanti a me, con gli occhi chiusi.

IMG_0713Uno strattone, un rumore di ferraglia, un urto, un sussulto:”Ci siamo, vedrai com’è Roma”, fece lo zio con voce atona, senza enfasi, con la serietà di che propone di assolvere un dovere, un compito. Mi domandai subito se quella di Sassa, da dove ero partito quella mattina, fosse una stazione vera, se potesse chiamarsi una stazione, con le sue aiuole fiorite, lo zampillo, le panchine: tutto al sole, all’aperto, dove a certi intervalli regolari passava un trenino per bambini. Qui a Roma era tutto più scuro. C’erano molti treni allineati, ed erano neri, enormi. A Sassa passava soltanto la littorina, un trenino con un solo vagone, che si annunciava con un rombo come di un tuono che vada spegnendosi, nel silenzio assoluto della valletta.

C’incamminammo tra tutta quella gente vociante che pareva andare verso un’unica direzione comune. Tutti parevano presi da una smania che li accelerava. Trascinavano vecchie valigie di fibra, segnate e graffiate, stracariche, legate con lo spago e con grosse cinghie. Pensai che quella gente non desiderasse, dopo di là, andare in nessun altro luogo. Sembravano arrivati per restare ma continuavano a muoversi in quel posto su itinerari prestabiliti, a volte paralleli, a volte incrociati. Come le formiche. Non sapevo se io fossi arrivato per restare.

Quattro giorni prima giocavo ancora ai banditi con Nicolino. Ci appostavamo in mezzo al malvone, ai sambuchi, dietro le fratte del biancospino. Poi era arrivata tutta quella gente, che veniva su verso la nostra casa dallo stradone bianco. Erano scesi dalla corriera poco più sotto, a Madonna della Strada. Erano bianchi di pelle, molti di loro portavano gli occhiali. Mi pareva strano, mi ero chiesto per quale motivo tanta gente insieme portasse gli occhiali. Il giorno dopo era stato mio fratello a dirmi che nostro padre era morto, che quelli erano parenti venuti per la sua morte, per il suo funerale. Non conoscevo nessuno di loro, neppure lo zio che mi aveva portato a Roma con sé.

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Ed eccomi qui, arrivato a Roma, tra quella folla frenetica, disordinata. Lo zio aveva portato con sé un incarto con un quadro di mio padre. In treno, un momento che eravamo soli, mi aveva parlato un poco di lui, della sua vita sfortunata. Avevo sentito per la prima volta che la vita di mio padre era stata sfortunata. Non sapevo che una vita potesse essere sfortunata. “Chi di voi sa disegnare, chi ha ripreso da lui?”aveva chiesto lo zio. Io avevo fatto spallucce lasciando cadere la domanda. Lo zio mi rassicurava, con la sua voce paziente. In quei giorni le voci di tutti quelli che erano venuti nella nostra casa avevano un comune accento, che non uniformava però la sostanza della voce. La voce della Bolognese era rimasta una musica per me, come sempre.

IMG_0693Adesso camminavamo in silenzio, io portavo il mio pacco con la biancheria. Sul treno lo zio aveva detto:”Io porto i miei colli, tu porta il tuo pacco.” Non sapevo che cosa fosse un collo ma lo capii quando vidi che lui dava di piglio ai suoi involti. Presi il mio pacco fatto con la carta di giornali e tenuto con lo spago. Molti passeggeri avevano pacchi come il mio.

Camminavamo affiancati, immersi nei nostri pensieri, tra uomini in maniche di camicia, con le maniche arrotolate, tra donne in abiti colorati. Qualcuno portava la giacca sul braccio o appoggiata alle spalle senza infilare le maniche.

Usciti da quella fiumana, aspettammo a lungo alla fermata del tram. Non ne avevo mai veduto uno prima di quella volta. Passava scorrendo pesantemente sui binari, con gente appesa dovunque fosse possibile, all’esterno. Dietro, però, su un rigonfiamento da cui partiva un grosso cavo, c’era solo un ragazzo perché l’appoggio era difficile. Riuscimmo anche noi a salire, impacciati nei nostri colli e restammo in piedi, pigiati da ogni lato.

IMG_1216Scendemmo in un viale di periferia. Qui c’era gente più distesa, una folla ilare il cui vociare si dondolava a momenti sui rami delle acacie e restava talora come improvvisamente fermo nell’aria. Aspiravo profondamente l’odore delle gaggie, che mi riportava celermente al ricordo di Madonna della Strada. Qui però era costruito tutt’intorno, la strada era incassata tra gli alti fabbricati come un fiume tra alte rive scavate. Una strada di Roma era un po’ come una cupa di campagna, solo che al posto delle sponde di terra con gli arbusti penduli c’erano alte sponde di mattoni e steli di fanali. Adesso sentivo l’odore di frittura che usciva denso da una friggitoria. Odori nuovi per me; buono, piacevole quello che annusai passando davanti a un negozio con la scritta Pizzicheria. Dentro c’erano meravigliose torri di tonde scatolette rosse.

Voltammo in una strada morta, buia, dove non passava nessuno. Lo zio mi condusse in una latteria, un posto bianco di infinita tristezza. L’odore qui mi stomacava, detestavo il latte. Al banco c’era un uomo tutto vestito di bianco, aveva un lungo grembiule. Odorava di latte, aveva bianchissime le mani. A servire c’era anche una ragazza con un berrettino bianco a forma di bustina. La ragazza rideva con un militare, mentre gli serviva una coppa di panna. Trangugiai senza fiatare il bicchiere di latte che lo zio mi aveva porto. Mi domandò se ne desiderassi ancora. Risposi “Nz, grazie”. Lo zio mi suggerì di dire no invece di nz. “No, grazie”, feci io.

Elegia romanaIn quel posto di desolante disperazione, in quel limbo albicante ebbi un urto del sangue, un soprassalto di palpiti nella gola:avevo visto mio padre, seduto a uno dei tavoli lungo il muro, mio padre che mangiava un uovo fritto intingendo nel rosso i pezzetti di pane. In quel sepolcro imbiancato e piastrellato.

Riprendemmo il tragitto per la strada morta. Passò una solitaria motocicletta a tutto gas, lasciandosi dietro un penetrante odore di olio bruciato. La strada mi pesava nelle gambe, camminavo in silenzio senza sapere dove fossimo diretti, neppure lo avevo domandato. Affrettavo il passo per uguagliare le falcate dello zio taciturno. M’ero incupito, attristato, sentivo un dolore indefinibile, oscuro. Mi entrava dentro per vie sconosciute, non era il dolore delle sassate di Nicolino. Questo era un disgusto, una nausea. Mi dissi che Roma era quel dolore, il mio spasmo indefinibile.

IMG_1514Eravamo accaldati, camminavamo senza una parola. L’asfalto era molle ed esalava un odore acuto. Le case s’erano fatte rade, finché la strada morta andò a perdersi in un luogo aperto, buio, da cui si vedevano lontani fanali. Arrivammo sotto un caseggiato immenso, altissimo, una enorme scatola grigia che s’innalzava da un terrapieno in mezzo a sterri, al centro di una radura di sterpaglia, dove c’erano cumuli di detriti disseminati qua e là. Ai margini nereggiava l’imponente torre di tubi di un gasometro e, sotto, la sagoma a denti di sega di un tetto di fabbrica dalla tozza ciminiera.

Salimmo per una scala che mi parve interminabile, fino alla cima del caseggiato, là dove c’era l’appartamento dello zio. Lì dentro mi sentivo soffocare, lo spazio mi si chiudeva intorno. La zia scambiò brevi parole con lo zio. Mi prepararono una branda nella camera da pranzo e mi mandarono a letto. Ma non potei dormire. Guardavo l’ombra listata della persiana. Noi a casa non avevamo persiane ma imposte e tra queste passavano spiragli di luce, lame in tralice che dividevano il buio della stanza, quando nei pomeriggi di caldura , mia madre ci obbligava ad andare a letto.

Mi alzai e mi misi alla finestra. L’altezza mi sembrava vertiginosa, non ero mai stato così in alto. Guardavo l’abisso della radura,laggiù. Scrutavo il cielo. Le stelle brillavano pallide,sbiadite. Lassù arrivava un indistinto rumore, come un sommesso grugnito. Sentivo una radio, da basso. Una voce falso-flautata cantava:”Vecchia Romaaa, sotto la lunaa, non canti piùùùù…

Da “Il Giorno dell’ira e altri racconti”di Renato Gabriele, L’Argonauta Editore, 2003

 

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La grazia scontrosa di Trieste

Trieste

Questo ci dice Umberto Saba:” Trieste ha una scontrosa/ grazia. Se piace,/ è come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore;/ come un amore/ con gelosia.”

TriesteSono versi che ritroviamo nel libro”Trieste e una donna”, che raccoglie le poesie scritte tra l’anno 1910 e il ’12 e che in particolare include i versi ispiratigli dalla sua città. Di essa egli compone un ritratto intimo, velato di una sorta di gelosia per i luoghi che a lui sono di conforto e che non vorrebbe condividere con nessuno. Quei luoghi stessi, che egli nomina indicandone talvolta la reale toponomastica, sono da lui ricercati come ricetto e rifugio alla sua agitata esistenza, che sappiamo turbata da ricorrenti stati di perniciosa malinconia e di depressione. Nonostante questo male dell’anima le poesie di cui parlo, come del resto gran parte della poesia di Umberto Saba, hanno la singolare trasparenza e la trasognata delicatezza di cui è capace  la sua lingua piana e persuasiva, la lingua, appunto, degli affetti e degli intimi moti del cuore.

TriesteUna singolare attrattiva dei luoghi può talvolta consistere nella ricerca di rispondenze, per quanto tenui, per quanto affievolite dal tempo e dalle mutazioni subite dai contesti urbani, di rispondenze, dicevo, tra la descrizione fattane da taluno, in specie da uno scrittore o da un pittore, e lo stato attuale. E, in questo caso, il possibile intento sarebbe quello di verificare la residuale esistenza di quelle impressioni, di quell’archeologia del sentimento: impresa ardua, è vero, ma proprio per questo appassionante.

Trieste

Umberto Saba

Umberto Saba ci dà di Trieste sia la veduta complessiva: quell’azzurra luminosità, quei colori (“circola ad ogni cosa/ un’aria strana, un’aria tormentosa,/ l’aria natia”) sia la veduta particolareggiata: quel mare, quella gente (“Qui prostituta e marinaio, il vecchio/ che bestemmia, la femmina che bega,/ il dragone che siede alla bottega/ del friggitore,/ la tumultuante giovane impazzita/ d’amore…”). La possibile rivisitazione dei luoghi non raffigura dunque una sorta di convenzionale pellegrinaggio turistico, bensì un’appassionata ricerca di atmosfere, quelle che certi posti sanno restituirci semplicemente con il mostrare l’opera del tempo. Del resto non si tratta qui di luoghi celeberrimi come la “siepe dell’infinito”, autenticamente mitizzata, non si tratta di luoghi citati con intento celebrativo ma semplicemente di posti dai nomi familiari e dunque direttamente evocativi di umani affetti.

TriesteRestando ai versi di Umberto Saba, si potrebbe dunque ricercare la Via del Lazzaretto Vecchio: “C’è a Trieste una via dove mi specchio/ nei lunghi giorni di chiusa tristezza:/ si chiama Via del Lazzaretto Vecchio./ Tra case come ospizi antiche uguali,/ ha una nota,una sola, d’allegrezza:/ il mare in fondo alle sue laterali./ Odorata di droghe e di catrame/ dai magazzini desolati a fronte,/ fa commercio di reti,di cordame/ per le navi…” E ancora: “ A Trieste ove son tristezze molte,/ e bellezze di cielo e di contrada,/ c’è un’erta che si chiama Via del Monte. Incomincia con una sinagoga,/ e termina ad un chiostro; a mezza strada/ ha una cappella, indi la nera foga della vita scoprire puoi da un prato,/ e il mare con le navi e il promontorio,/ e la folla e le tende del mercato./ Pure, a fianco dell’erta, è un camposanto/ abbandonato…”, “ ma la via della gioia e dell’amore/ è sempre Via Domenico Rossetti./ Questa verde contrada suburbana,/ che perde dì per dì del suo colore,/ che è sempre più città,meno campagna/ serba il fascino ancora dei suoi belli/ anni, delle sue prime ville sperse,/ dei suoi radi filari d’alberelli…” Il poeta ci parla anche della Via della Pietà, “sì lunga e stretta come una barella./ Hanno abbattute le sue vecchie mura,/ e di qualche ippocastano si abbella.”

L’intima cosmologia del poeta si compone di molti posti non nominati ma descritti con vaghezza come altrettanti topoi dell’anima, luoghi che esercitano su di lui quel fascino recondito che percorre le strade del cuore e che è bello e ci commuove senza un motivo preciso, un motivo che noi stessi non vogliamo approfondire al solo scopo di restare nella suggestione dell’intenerita maraviglia. Un ultimo posto voglio citare. Questo è il Molo: “ Per me al mondo non v’ha un più caro e fido/ luogo di questo. Dove mai più solo/ mi sento e in buona compagnia che al molo/ San Carlo, e più mi piace l’onda e il lido?”

Molto si è scritto di Trieste, molti passi vi sono e anche saggi ad opera dei suoi celebri scrittori, molto si può dire di questa città, città giovane e cresciuta con foga. A me piace pensarla come la città del vento, come la città spazzata dal vento. Le strade del vento s’incrociano nel cielo, in un freddo mattino di campane. Sotto un cielo d’ardesia, lentamente marcisce l’autunno nei giardini.

Renato Gabriele

 

 

 

 

 

 

Premio Kapuscinski 2013

25 settembre 2013

Il 24 settembre si è conclusa, con la proclamazione dei vincitori, la seconda edizione del “Premio per il Reportage” intitolato al giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński, manifestazione che si è tenuta come anteprima della più ampia rassegna intitolata “Festival della letteratura di viaggio“, in svolgimento a Roma fino al 29 settembre.

Questo premio vive grazie all’iniziativa dell’Istituto Polacco di Roma in collaborazione con la famiglia Kapuściński e con Feltrinelli Editore.

 

Alla serata hanno partecipato, tra gli altri, anche Alicja Kapuścińska, vedova dello scrittore, Jaroslaw Mikolajewski, il noto poeta e giornalista polacco, che è stato fino a pochi mesi fa direttore dell’Istituto Polacco di Roma, e Marino Sinibaldi, giornalista di Radio Rai e conduttore radiofonico, molto noto come instancabile promotore e animatore di grandi iniziative culturali, il quale ha coordinato gli interventi dei partecipanti alla serata ed ha intervistato i premiati.

La manifestazione si è svolta a Roma, in Campidoglio nella splendida sala Pietro da Cortona, alla presenza di un folto pubblico, nel quale abbiamo riconosciuto persone di grande spicco del mondo culturale italiano e polacco.

I Premiati:

Sono stati premiati, nell’ordine, il fotografo Ferdinando Scianna, lo scrittore Francesco M.Cataluccio, e il giornalista e scrittore Paolo Rumiz, tutti e tre personaggi di alto profilo che non hanno bisogno di presentazioni.

Il  clima della serata è stato molto piacevole, direi soprattutto per il modo informale in cui si è svolta, un modo improntato all’amicizia e soprattutto alla rievocazione della figura di Kapuściński, del quale, oltreché i meriti di grande reporter e scrittore, nonché di poeta, come forse non molti sanno, è stata delineata la figura umana in aspetti inediti quanto interessanti.

Le prospettive più squisitamente umane e personali di lui sono state messe in risalto dagli interventi della vedova di Kapuściński e dai tre premiati, che con grande generosità hanno poco parlato del proprio lavoro e invece hanno molto parlato di lui, dei loro ricordi provenienti dalla frequentazione diretta con lo scrittore e del significato da lui avuto, quando vi è stato, come punto di riferimento pratico,e anche simbolico, di un modo di lavorare e di scrivere.

Io stesso ho avuto il piacere di conoscere personalmente lo scrittore, che ho incontrato varie volte, e sempre ne ho ammirato la figura schiva e come inconsapevole della propria grandezza, quella che invece gli è stata universalmente riconosciuta fino a consacrarlo come l’autentico scopritore del reportage giornalistico.

Renato Gabriele

Ritornerò a Innisfree

Tanti sono i motivi per amare un luogo ma a volte ne basta uno soltanto e così, del resto, accade anche per le persone. Per innamorarsi di una donna potrebbe bastare invaghirsi di un particolare, che so: la voce, il modo di ravviarsi i capelli, di camminare, il modo di ridere o di cantare… Tutti elementi o addirittura frammenti della donna-archetipo che ognuno si porta nella testa. Non era forse accaduto così per Andreas, il protagonista de “Il treno era in orario” di Heirich Boll? Egli, disteso ferito al margine di una strada in Francia, durante la seconda guerra mondiale, si era innamorato dello sguardo di una donna, sì aveva conosciuto il più vero e profondo amore in una frazione di secondo, specchiandosi negli occhi di una donna che non aveva più rivista.

unuomotranquilloSe dovessi ridir le ragioni del mio amore per l’Irlanda, farei presto a elencarle. Dico subito che non ho mai approfondito gli avvenimenti storici del Novecento in quell’amato Paese, trovandoli in verità ingarbugliati e soprattutto capaci di distogliermi appunto dall’amore per quell’archetipo-Irlanda che mi ero formato nel cervello. Del resto, mi dico, accade anche così per coloro che amano l’Italia, non stanno a guardar tanto per il sottile alla nostra storia, specialmente a quella recente!
Quanto alla mia passione per la terra irlandese, essa è incominciata con “Quiet man” di John Ford, “Un uomo tranquillo”, il film con John Wayne e Maureen O’Hara. L’avevo visto all’età di dieci anni e fin dalla prima volta mi aveva affascinato, a pensarci bene, per la forza dei sentimenti che tutti i personaggi esprimevano. Sarà stata forse la mia troppo precoce orfanezza di padre a farmi ravvisare nella gagliarda personalità di John Wayne un modello di un uomo protettivo, un tipo buono per me, una sorta di padre ideale, chissà! Fatto sta che quella pellicola mi si era stampata indelebilmente nella mente offrendomi il primissimo spunto di amor d’Irlanda. Dopo di allora mi è capitato di rivedere quel film in televisione e soprattutto, con l’avvento delle videocassette, di riguardarlo un’infinità di volte, sempre aumentando i motivi di interesse. Una fissazione? Può darsi! Potrei raccontare scena per scena, ad iniziar dall’arrivo del treno e dall’annuncio del capotreno:-Castletown! Potrei dire della curiosità, che anima tutti coloro che sono nella stazione, di sapere chi sia quello straniero che è sceso dal vagone, potrei descrivere tante scene, per finire con il racconto della grande scazzottata finale che non rappresenta il culmine di una inimicizia ma, direi, l’inizio di una generale pacificazione.

Adesso l’intero film mi detta una serie di motivi di apprezzamento, ad iniziare dalla bella musica che accompagna la vicenda, seguitando con l’aspra bellezza dei luoghi e soprattutto con l’incanto del verde, con l’assorta bellezza di quella verdità che non è soltanto un colore ma direi piuttosto un concetto, tanti sono i toni affluenti, tante le sfumature che vanno a comporre quell’entità che siamo soliti designare come “il verde”. Proprio questo, il verde, è il cuore dell’Irlanda, così come da tutti è riconosciuto. E possibile allora che un unico film abbia determinato in me una tanto amorevole inclinazione? Indubbiamente siamo davanti a un’opera d’arte, e non è questa la capacità sublime di ogni lavoro che possa definirsi in quel modo.

jamesjoyce“Un uomo tranquillo” è un’opera di poesia, di poesia degli affetti ma contiene non effimeri brani di epos. Sean Torton-John Wayne ritorna a Innisfree, la sua patria elettiva, dopo un tratto della sua vita vissuta in America. Ritorna al luogo del sogno, sulle rive del lago di Innisfree, di cui nel film abbiamo magnifiche scene di tramonto. La pellicola narra la vicenda di un uomo ma anche di una donna e di tutto un villaggio, che alla fine ci si presenta come un luogo di favola, una sorta di Brigadoon, in cui sia possibile la felicità e questa sia ottenibile con la semplicità del vivere e l’autenticità degli schietti sentimenti.

Avanzando nell’età ho letto, come tutti, qualche scrittore irlandese ma senza dare gran peso al luogo di origine come, ad esempio,nel caso di Samuel Beckett, che per quanto mi riguarda potrebbe essere francese o inglese.
Non così con Seamus Heaney, che per mia buona ventura conoscevo dall’epoca precedente all’assegnazione del Nobel, per averlo incontrato nelle pagine di quella gloriosa rivista che fu “Uomini e Libri”, che tanto ha fatto per far conoscere in Italia la poesia del resto del mondo. Heaney mi appariva come un autentico poeta irlandese, con quel suo ricondursi alla tradizione della sua terra, alle eroiche leggende dell’Irlanda, ai personaggi mitici della sua storia.

Non così soprattutto con James Joyce di cui, per mia maggior ventura, ho letto “Ulisse” nella prima traduzione mai fatta in italiano, quella di Giulio De Angelis, con la consulenza di Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, quel bellissimo volume in cofanetto stampato su carta giallo-pallido nella collezione I classici contemporanei stranieri diretta da Giansiro Ferrata per Arnoldo Mondadori Editore. Lessi “Ulisse” nel 1961, quando avevo diciotto anni. Fu un’esperienza incredibile, rappresentò per me una profonda revisione di schemi, soprattutto di quelli discendenti dall’insegnamento scolastico, nella sostanza si tradusse in una operazione analoga a quella che avevo compiuto appena un anno addietro, quando avevo conosciuto la poesia di Federico Garcia Lorca, che d’incanto mi aveva sottratto all’ostaggio carducciano, a tutta la monumentalità della poesia. Scoprivamo il flusso di coscienza, vi ci introduceva J.Joyce. In quel periodo si trattò di un evento fenomenale, basti dire che tutte le stelline del cinema, interrogate su quale fosse il libro preferito, attestavano con sicurezza sospetta e senza interporre alcun tempo di dubbiosa riflessione: – Ulisse, di James Joyce! Non saprei riferire ora quanto allora ci avessi capito, posso dire però che l’Irlandese mi aveva conquistato. Non avrei mai più dimenticato la figura del paffuto Buck Mulligan né il sole che saliva sul grigio mare della baia di Dublino (una dolce madre grigia) mentre lui officiava una scherzosa, blasfema?, pantomima della messa con il bacile di schiuma per radersi. E come dimenticare l’errabonda giornata di Leopold Bloom, il borghesuccio ebreo, e di Stephen Dedalus, l’intellettuale tormentato e problematico? Come scordarsi la figura di Molly, come l’attraversamento di Dublino in quella giornata del 16 giugno del 1904?

Qualunque cosa avessi allora capito del libro, riuscii forse ad afferrare qualche nuovo significato ogni volta, quante?, che lo ebbi riletto. Soltanto dopo lessi le poesie joyciane, soltanto dopo Dedalus e Gente di Dublino. L’Irlanda aveva in Joyce uno scrittore geniale! Il più grande del secolo, dicono. Lui sì che mi appariva un grande irlandese! Fu lui a rinsaldare il mio vincolo con quella verde isola. Lui e William Butler Yeats. Di quest’ultimo, per chiudere il cerchio con Innisfree, di cui ho parlato all’inizio riferendomi al ritorno di Sean Torton-John Waine, voglio citare soltanto i meravigliosi versi de L’isola del lago d’Innisfree, nella traduzione di Roberto Sanesi (Mondadori):

YeatsIo voglio alzarmi ora, e voglio andare,andare ad Innisfree,
E costruire là una capannuccia fatta d’argilla e vimini:
Nove filari a fave voglio averci,e un alveare,
E vivere da solo nella radura dove ronza l’ape.

E un po’ di pace avrò, ché pace viene lenta
Fluendo stilla a stilla dai veli del mattino, dove i grilli
Cantano: e mezzanotte è tutta un luccicare, ed il meriggio brilla
Come di porpora, e l’ali dei fanelli ricolmano la sera.

Io voglio alzarmi ora, e voglio andare, perché la notte e il giorno
Odo l’acqua del lago sciabordare presso la riva con un suono lieve;
E mentre mi soffermo per la strada, sui marciapiedi grigi,
Nell’intimo del cuore ecco la sento.

PER SAPERNE DI PIU’

Parti con noi, vieni a scoprire i luoghi descritti in questo bellissimo Articolo di Renato Gabriele Partiremo per l’Irlanda dal 2 al 12 agosto 2013 con un Viaggio Fotografico adatto a tutti: Fotografi incalliti e Appassionati alle prime armi.

Una lettera da Makassar

Una lettera da Makassar, nell’isola di Sulawesi.

L’oggetto più antico esistente nella nostra casa, un vero cimelio storico, era un bauletto appartenuto al mio trisavolo materno. Per tutti noi era semplicemente il forziere, un nome che testimoniava l’alta considerazione in cui era tenuto per via della vita lunga e avventurosa dell’avo, della quale ciascuno di noi era a conoscenza, almeno a grandi linee, perché nel racconto di quella umana vicenda si era esaltata la fantasia di ogni giovane generazione della nostra famiglia. Non escludo che il racconto orale, nel lungo tempo trascorso, possa essersi arricchito di molti particolari o di episodi che abbiano aumentato l’attrattiva e lo smalto favoloso di quel vissuto. Dico questo soprattutto in considerazione di quanto fatto proprio da me con l’accrescere,ogni volta che ne raccontavo, l’aspetto avventuroso di quella vita, e con la colmatura delle lacune e degli strappi nella successione cronologica,ma suppongo che molti altri abbiano dato un contributo a trasformare i vari episodi in un vero romanzo di avventure. Durante l’adolescenza sono stato un affamato lettore di libri di quel genere ma non saprei dire se a ciò fossi indotto dal ricordo dell’avo o se viceversa fosse stata la mia passione per i libri di avventura a farmi mitizzare la sua figura. Conoscevo a fondo, per averli letti e riletti, romanzi come L’isola del tesoro, come Le avventure di Arthur Gordon Pym o Robinson Crusoe, come I pirati della Malesia o Billy Budd, gabbiere di parrocchetto.

Mi piaceva soprattutto la marineria ed ero giunto al punto da studiarne propriamente ogni aspetto, come la nomenclatura completa di ogni tipo e classe di bastimento e delle varie parti che compongono una nave e i vari pezzi di costruzione, l’alberatura, l’attrezzatura – cavi, paranchi, bozzelli, ancore, vele… – e le manovre, e i nodi, le legature…, come pure i nomi degli uomini che nelle varie funzioni attendono al governo di un natante. La mia passione si alimentava specialmente con le storie ambientate nei mari del Sud, il cielo australe mi affascinava per l’aura di mistero che io vi annettevo. E certamente pensavo che le avventure possibili in quell’emisfero fossero di tutt’altra natura, non dico superiore ma affatto diversa,che quelle nei mari del Nord. Insomma in quelle della Croce del Sud, in quei caldi arcipelaghi, nel Mar della Cina, nei mari della Malesia e del Borneo era tutto un andirivieni di giunche di pirati e di traffici di dubbia legalità;nelle altre,quelle dei mari del Nord, c’era il lento procedere delle navi rompighiaccio, l’attiva vita dei pescatori di aringhe e di merluzzi ai Grandi Banchi di Terranova, l’epica caccia alla balena nei freddi mari della Corrente del Labrador: due mondi così distanti…

Tornando al mio avo, vi è da sapere che il racconto della sua vita non è stato intessuto soltanto oralmente dai suoi discendenti ma ha avuto inizio da un prezioso brogliaccio contenuto nel suo forziere giunto fino a noi. In quel bauletto, un pezzo veramente ben costruito, in legno di pero rinforzato e borchiato e ancora pressoché intatto, erano contenuti oggetti preziosi e in primo luogo un brogliaccio rilegato solidamente,con il taglio delle pagine tinto di rosso come una bibbia o un breviario da ecclesiastico:e questo sì, è il pezzo che maggiormente ci interessa ma non posso tacere del fascino che su di me esercitavano le altre reliquie (un piccolo cannocchiale di lucente ottone, due paia di guanti, un orologio da tasca, un paio di occhialoni con la mascherina, un kris malese, un cannello di penna di giada, una medaglia della British East India Company, vari libriccini di appunti delle dimensioni di un enchiridio, un calendario perpetuo e altri piccoli oggetti) la principale delle quali era un copialettere portatile ancora perfettamente funzionante. Proprio con quello strumento il mio avo aveva diligentemente ricopiato nel grande brogliaccio ogni atto scritto e ogni lettera – atti e lettere redatti in italiano, in francese e in inglese – da lui prodotti nel corso della sua lunga vita, essendo morto nonagenario, proco prima della grande guerra, nel suo buen retiro sorrentino.

Nel brogliaccio del mio trisavolo erano annotati, quali brevemente e quali più estesamente, molti fatti e circostanze della sua vita, non esclusi certi rilievi psicologici personali e certe meditazioni, tutte scritture che fanno di quel libro un vero e proprio diario. Ho detto già degli spunti di riflessione ma non sottovaluto le altre minuzie e gli appunti frammentari rilevati dagli enchiridi: tutte notizie che compongono il vivido mosaico della sua esistenza. Si va dai fugaci amori, per la verità non infrequenti anche dopo il suo matrimonio, alla nascita dei figli, dagli acquisti di oggetti importanti all’annotazione dei bagni completi fatti per l’igiene personale e finanche talvolta alle osservazioni meteorologiche  e climatiche.

Durante la mia adolescenza, nelle lunghe giornate delle vacanze estive, ho trascorso molto tempo a compulsare quel diario ed a farne un duplicato in un librone molto somigliante all’originale, riportando però tutti gli scritti in lingua italiana, avendo io stesso tradotto tutti i testi. Tra le lettere più importanti ve n’è una che contiene alcune informazioni generali sull’autore, di cui non ho ancora detto il nome perché lo dirà lui stesso nella lettera. Questo scritto è una sorta di curriculum da lui inviato all’antropologo dell’Inghilterra vittoriana Edward Burnett Tylor, l’autore del famoso libro Primitive Culture. Ho definito avventurosa la vita del mio trisavolo senza dire perché lo fosse: dalla lettera si capisce e per questo la trascriverò qui di seguito, ma intanto basti considerare il luogo di partenza di quella lettera, Makassar – una città che ai giorni nostri è la capitale della provincia indonesiana del Sulawesi Meridionale, che è una grande isola – e che già allora, alla metà del secolo diciannovesimo era un importante porto libero dell’isola di Celebes, nome con cui a quel tempo era conosciuta in tutto l’Occidente.

Dopo queste poche premesse è ormai il momento di riportare l’intero testo della lettera nella versione da me tradotta.



Mittente: P. A. Giaccarino
Care of  Missione Commerciale Genovese
MAKASSAR

Al Signor Professor
Edward Burnett Tylor
care of Reale Società di Biologia
LONDON
“Makassar, a dì 13 aprile 1848

“Illustre Signore,

mi presento a Lei a nome del Primo Nostromo della goletta Plymouth II, il Signor Bud Fitzpatrick: sono Pietro Agnello Giaccarino, un suddito di S.M. il Re delle Due Sicilie. Sono nato a Sorrento nell’anno 1823 e mi sono stabilito nell’isola di Celebes da circa quattro anni, dopo aver fatto la spola per tre anni, negli arcipelaghi delle Molucche e della Sonda, su un navilio di lungo corso, un brigantino mercantile a tre alberi. Conosco il mare dall’infanzia e navigo fin dalla giovine età dei sedici anni.

“Il mio officio consiste nell’approvvigionare di legnami pregiati, tek, ebano, sandalo e canfora, nonché di scorza di china una ditta genovese, di cui sono commissionario, la quale ne fa commercio in Italia e in Europa; legnami che in queste terre sono largamente diffusi.

Il Nostromo Fitzpatrick avrebbe in me ravvisato le qualità adatte a  corrispondere con Lei, illustre Professore, con riferimento alla materia delle usanze e tradizioni tribali nonché dei riti di queste popolazioni, per il fine di fornire a Lei mezzi di studio e di comparazione, se ho ben compreso, per un Suo lavoro intorno alla cultura delle genti primitive.

“Quantunque il mio umano sostentamento mi provenga dall’attività del tutto diversa di cui Le ho riferito e nonostante il forse troppo breve periodo di stanziamento in Makassar, mi professo adatto alla bisogna,g iacché il tipo di osservazioni che essa mi richiederebbe è consono al mio personale interesse. Le dico, a tal proposito, che io fui educato in Amalfi da un sant’uomo,un ecclesiastico barnabita, di nome Padre Bracciolino Calise, già stato missionario per lunghissimi anni in terre d’Affrica eppertanto  profondamente versato nella scienza etnografica, di cui m’insegnò i rudimenti, quegli stessi che mi hanno accompagnato in Celebes e che m’hanno dato contezza di tanto argomento che altrimenti mi sarebbe restato estraneo.

“Vorrei dunque darle un breve saggio delle informazioni che potrei trasferirle se Lei acconsentisse alla mia collaborazione, che sin d’ora Le assicuro gratuita. Per il momento mi applicherò a riferire le osservazioni già da me fatte, specialmente quelle intorno ai Toradja o Taraja, il popolo dell’altopiano. In seguito Le fornirò notizie più diffuse e più dettagliate,conforme al desiderio mio di servir al meglio Lei e la scienza.

“Inizio dai riti connessi con la lunga siccità o con l’eccesso di pioggia e dunque dalle azioni volte a provocarla,nel primo caso, ed a farla cessare, nel secondo. Nelle zone a nord di Celebes nominate Minahassa, gli sciamani prendono lunghi bagni cerimoniali con l’intenzione di provocare il cielo alla pioggia. Nella zona centrale dell’isola, allorché per l’assenza prolungata dell’acqua le piantine di riso principiano a rinseccolirsi e prima che il raccolto vada perso del tutto, gli abitatori dei villaggi si portano ai fiumiciattoli,alle pozze d’acqua e se ne aspergono con grandi strilli, specialmente quelli dei giovani, e se ne spruzzano e schizzano. E imitano il rumore della pioggia battendo le mani sulla superficie liquida o tamburellano,con la stessa intenzione, su una zucca svuotata. Sotto questi cieli è altresì necessario, talvolta, scongiurare la pioggia, farla cessare quando è troppa e questa, si sa, è una necessità anche dei contadini delle nostre parti. Ed anzi posso aggiungere che tante pratiche consimili avvengano anche nelle terre dove nacqui. Per restare a Celebes, l’eccesso d’acqua può diventare disastroso, e questo accade quando i venti Alisei si sono sovraccaricati all’eccesso di umidità durante il loro percorso sugli oceani. Può allora piovere sull’isola per mesi e mesi e mandar tutto marcio. Prima che questo avvenga, il sacerdote o mago della pioggia inizia quello che è un combattimento serrato con l’acqua, cioè si astiene totalmente dal toccarla, non si lava mai,beve soltanto il vino di palma; se deve attraversare un ruscello cerca un punto in cui gli sia possibile farlo senza toccare l’acqua, appoggia i piedi sui massi petrosi che emergono. Durante questo tempo propiziatorio egli vive in una capannuccia appartata dal villaggio ed eretta nel campo di riso. Qui accende un focherello che deve essere continuamente alimentato e vi brucia legnetti che dovrebbero avere il potere di tenere lontana la pioggia. Se all’orizzonte si profilano banchi di nubi carichi di pioggia, il mago soffia in quella stessa direzione reggendo tra le mani foglie e scorze d’albero che, per gli stessi nomi che portano suggeriscono la leggerezza e dunque si presume abbiano il potere di allontanare le nubi rendendole leggere sotto il soffio dello sciamano. In questo caso come in tante altre occasioni, questi uomini fanno un teatrino basato sulla somiglianza, sull’imitazione, credendo così di indurre gli spiriti che sono nelle cose ad imitarli. Questo mi ha insegnato il mio maestro Padre Bracciolino Calise e questo ho sempre potuto osservare:ma queste sono cose che lei sa meglio di me,modi di cui Lei conosce il nome ed io no. Ad ogni modo posso dirle che questa imitazione, questa specie di recita teatrale tanto ingenua è largamente praticata da tutti,anche da chi sciamano non è e per una serie infinita di intenzioni. Per esempio, chi volesse catturare un cinghiale, un maiale selvatico o altro animale, dovrà esporre all’esterno della casa o capanna una parte dell’animale che vuole attirare:una zampa,un corno,un lembo di pelle scuoiata… Lo stesso fanno, s’intende in altri modi ma con la stessa idea di teatro e di somiglianza, per mantenere in vita una persona,per scacciare gli spiriti del male. Queste però sono cerimonie cruente e qualche volta crudeli,almeno per noi. I riti che vogliono espellere il male sono eseguiti con il sacrificio di animali,con scannamenti che a noi potrebbero sembrare raccapriccianti se non sapessimo che un tempo,e forse ancora oggi presso i gruppi tribali più selvaggi,i sacrifizi erano fatti con l’uccisione di persone.

“Modi estremamente cruenti accompagnano anche il più complesso rito della sepoltura,un evento che può occupare giorni e giorni, durante i quali il villaggio attraversa momenti di baraonda alternati allo svolgersi della comune vita, al commercio ed alle altre umane cure. Quello che conta è l’importanza che si dà al corpo del defunto che,con un lungo cerimoniale accompagnato da canti e suoni di cimbali e tamburi, viene posto,dopo essere stato portato in processione, su un grande catafalco tutto ornato. D’intorno c’è gente che mangia (e questo, se mi è permesso dire, mi rammenta quel che avviene presso di noi, nelle nostre terre, dove si usa preparare il cuonsolo, cioè la consolazione, che è un lauto pasto da offrirsi a cura dei vicini alla famiglia del defunto), gente che attende ai propri affari approfittando dell’occasione di quel grande concentramento di gente. In queste cerimonie, quello che maggiormente mi ha impressionato è il sacrificio del bufalo, anzi di uno o più bufali, che viene fatto davanti a tutti, sulla radura dove si svolge il rito funebre. Quegli animali mastodontici vengono legati per le zampe ad un palo conficcato saldamente nel terreno, tanto profondamente per poter reggere, senza svellersi, alla forza immane dell’animale. Quando è il momento, il sacerdote si avvicina cautamente al bestione, che forse per via delle legature subite è già infuriato e come presago del suo destino di morte, e servendosi di un lungo e affilatissimo pugnale lo trafigge alla gola. L’impressionante fiotto di sangue che ne spiccia fuori inonda il terreno circostante, cioè tutto il cerchio intorno al palo a cui è vincolato e nel quale l’animale impazzito riesce ancora a muoversi scalciando in maniera furibonda. Durante questa penosa agonia la bestia riceve altre trafitture con le stesse modalità finché, totalmente dissanguato, crolla al suolo privo di vita se non per qualche fremito o spasmo residuo del suo corpo. Considerato che questo sacrifizio può ripetersi con altri animali durante la stessa cerimonia, alla fine il terreno è intriso totalmente di sangue.

Egregio Signor Professore, queste poche considerazioni valgano soltanto a illustrare la possibilità di giovarsi dei miei rapporti, che saranno tanto più accurati se Ella vorrà indicarmi uno schema da seguire, una traccia a cui attenermi. In attesa di un Suo scritto di risposta, Le mando i miei migliori saluti da Makassar. Sono il Suo servitore e mi firmo Pietro Agnello Giaccarino.”

Renato Gabriele

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