Nell’agosto del 2018 parto alla scoperta della Puna, il vasto altopiano desertico dell’Argentina nord-occidentale, che si estende in mezzo alle due cordigliere andine, come lo spazio compreso tra i due lembi scostati di una cerniera lampo aperta malamente. Ci arrivo da Salta (a due ore di volo da Buenos Aires) dapprima percorrendo in 4×4 una pianura dove si alternano vigneti e cactus a perdita d’occhio.
Poi salendo, per oltrepassare il primo lembo della cerniera montuosa, tra cui sono adagiate morbide dune di sabbia rosata finissima punteggiate di cespugli dorati. E finalmente, si dispiega davanti ai miei occhi la vuota vastità della Puna di cui non si coglie la fine.
Capisco subito di essere molto in alto, oltre i 2000 metri, perché l’aria ha il sapore e l’odore della purezza, e il respiro ti brucia in gola.
I colori predominanti sono il giallo della secca e rara vegetazione bassa, il rosa violaceo delle alture striate di neve, il blu intenso del cielo e il nero della cenere sparata nei secoli dai numerosi coni vulcanici.
Non si incontra nessuno lungo i lunghi rettilinei di terra battuta che sembrano tracciati con il righello.
L’autista/guida dice che qui vengono pochissimi turisti, e neanche gli Argentini conoscono la Puna. Di tanto in tanto si incrociano i binari di una ferrovia ancora usata per trasportare sale e minerali tra Argentina e Cile. A Tolar Grande (m. 3508), un villaggio in mezzo al nulla, c’è una minuscola stazione dove i camion caricano e scaricano i vagoni.
Gli abitanti della Puna Argentina
E’ qui che finalmente incontro i pochi abitanti della Puna. Si radunano alla sera a mangiare e bere nell’unica locanda del paese, mantenendo indosso le giacche a vento perché anche all’interno il freddo è davvero tosto, e la stufa a legna proprio non ce la fa a scaldare.
E, usciti fuori, li ritrovo rannicchiati sulle panche della sala del municipio, l’unico posto dove prende il cellulare, o rintanati nelle loro jeep parcheggiate lì intorno con i motori accesi per ripararsi dal gelo.
Il primo agosto qui si celebra il rito di ringraziamento alla Pachamama (Madre Terra), una tradizione antichissima delle popolazioni andine. Per caso mi accorgo di un gruppo radunato attorno a una buca scavata nel terreno. Dopo aver recitato in raccoglimento la loro invocazione vi seppelliscono i loro doni alla Madre Terra: alcolici, frutta, ortaggi, riso, sigarette e foglie di coca, di cui hanno tutti le guance gonfie. Si passano l’un l’altro una ciotola contenente un miscuglio di tutte le bevande che hanno radunato, alcoliche e non.
Anch’io ne provo un sorso, per non offenderli. Il tono delle voci è sommesso per rispettare la sacralità del momento. Il silenzio è il suono tipico della Puna. Ancora adesso, a distanza di anni, se chiudo gli occhi lo rivedo quel cielo blu, avverto il vuoto silenzio e respiro la purezza di quell’aria.
ESCUELA CUBANA DE BOXEO – Una palestra di vita sul ring
In un paese lontano lontano, famoso per i sigari, il rum e la rivoluzione, si lavora duro. Ovviamente parliamo di Cuba, patria della boxe dilettantistica. Si stima che un ragazzino su due pratichi quella che per i cubani è una nobile arte e non una lotta.
A sette/otto anni inizia la formazione in palestre di quartiere volute e finanziate dagli stessi abitanti. Ci si dedica anima e corpo per rincorrere il sogno olimpico e rappresentare così il proprio Paese.
Una volta conclusa la propria carriera si diventa allenatori e il ciclo continua con le generazioni successive. La dedizione, la tradizione storica e il ritmo che i cubani hanno nel ballare li rendono pugili forti che poi hanno trionfato nel corso della storia.
Percorrendo le strade dell’Avana con sorpresa e gioia mi sono infilata (cogli l’attimo) in questa palestra di boxe e ho assistito all’allenamento dei ragazzi, guidati sapientemente dall’esperienza dei maestri.
È stata una bellissima esperienza che mi ha portata a riflettere sulla semplicità con cui questi ragazzi vengono tolti dalla strada ed educati allo sport come palestra di vita.
Ho immaginato che il sogno del bimbo coi guantoni sia quello di salire sul ring, di combattere, di far diventare il suo sport una vera e propria professione, ma questo a Cuba non è previsto per nessuno.
C’è una Cuba che tutti conoscono, è la Cuba della Salsa e di tutti i balli caraibici che la fanno amare da milioni di persone in tutto il mondo, ma non è questa la vera Alma de Cuba. C’è la Cuba legata ai grandi Rum pregiatissimi che sono apprezzati dagli estimatori di 5 Continenti. C’è la Cuba famosa per Che Guevara e Fidel Castro e la loro Rivoluzione. Ma non è di tutto questo che oggi voglio parlarvi, questo già lo sapete.
A me interessa il popolo, quello che fa e che sente la gente vera quando è lontana dai riflettori mediatici. Voglio parlarvi del motore sociale dell’Isola Grande, di coloro che con la loro opera quotidiana rendono questo posto una meta imperdibile per noi Viaggiatori e Fotografi.
Oggi voglio raccontarvi di quel popolo silenzioso e cordiale che vive tutto questo in prima persona in un luogo del mondo che sta crescendo troppo in fretta suo malgrado e senza accorgersene. Oggi vi parlo di come si arriva a quelle eccellenze e di come sta la gente vera, quelli che dopo 60 anni di Fidel Castro ancora lo amano anche dopo la sua morte.
Voglio farvi capire cosa c’è di bello nell’anima della gente di Cuba. Voglio uscire dai luoghi comuni che tutti conoscono, e farvi apprezzare una realtà complessa che ho toccato con mano.
In molti Paesi del mondo per trovare la gente più vera e autentica, occorre allontanarsi dalle grandi città, andare nelle campagne dove si vive ancora come una volta tra antiche tradizioni e uno stile di vita semplice. Bisogna vivere per qualche giorno in un luogo lontano per ritrovare tutt’oggi quello che era il vissuto quotidiano dell’Italia del Dopoguerra. Cuba non fa eccezione: la campagna è il vero senso di questo viaggio.
Ahimè, molto spesso, dobbiamo riconoscere che ci farebbe molto comodo poter lasciare intere nazioni nel loro degrado fascinoso e autentico, lasciarle nella loro arretratezza rispetto ai nostri standard. Molto spesso pensiamo che stiano meglio loro senza nulla rispetto a noi che abbiamo tutto.
La questione è un pò più complicata e ve la racconto dalla viva voce dei cubani che me la hanno raccontata durante i miei due viaggi ad un anno di distanza nella loro terra. A Cuba un benestante guadagna 100 Euro al mese, ma molti fanno 2-3 lavori, hanno più stipendi, ma riescono a recuperare pochi altri soldi, in genere ci sono famiglie intere che non arrivano a 150 Euro al mese pur con tutti gli extra.
I Cubani sono gente di cuore, gente che vive di passioni, fondamentalmente onesta e apparentemente felice nel loro piccolo mondo. Apparentemente perchè in pochissimo tempo le cose stanno cambiando velocemente, la gente inizia a sapere cosa c’è oltre il mare che circonda quell’angolo di paradiso e il turismo inizia a diventare di massa. Viene spontaneo quindi per loro, e giustamente, guardarsi intorno e fare le dovute differenze tra chi vive lì e chi ci va per turismo.
In città da un anno all’altro sono successe tantissime cose. Troppe…
La prima volta che sono andato era appena finito l’embargo e sembrava di vivere nella nostra Italia del Boom economico avendo loro la stessa tecnologia che avevamo noi negli anni ‘60. Tante televisioni, radio qualcuna, nessuna lavatrice, e le mitiche cadillac degli anni ‘50 ancora perfettamente funzionanti.
Ma la prima rete WIFI pubblica (nelle case ancora non esiste) è arrivata a giugno 2015 e ancora oggi ci si può connettere solo in alcune piazze di alcune città, da quel giorno, nel giro di 15 mesi sono avvenuti dei cambiamenti storici che hanno modificato per sempre la vita dei cubani.
Innanzitutto la visita di Obama, il primo Presidente Americano che sia venuto in visita ufficiale, poi subito dopo questo ha portato l’arrivo della prima nave da crociera, la prima di una lunga serie che scaricano 4-5000 passeggeri al giorno in una città che fino ad un anno prima vedeva le stesse persone in un mese.
E’ arrivato poi il concerto dei Rolling Stones che ha portato… “musica nuova” qualcosa di molto diverso dalle sonorità a cui erano abituati i locali. E infine la morte di Fidel Castro che ha causato la fine di un’ epoca.
I Cubani non sanno più dove stare, sono cambiate troppe cose in due anni, troppo rapidamente. Hanno iniziato a conoscere il lato consumistico del turismo, hanno visto arrivare soldi e sbarcare turisti e hanno visto il guadagno facile. Ma tutto questo senza avere una struttura mentale imprenditoriale, senza conoscere cosa sia il concetto di Qualità, di Servizio, di professionalità.
Sono ancora mentalmente molto legati allo stile di vita assistenzialista che avevano sotto Castro. L’Havana è una città troppo piccola per sostenere ondate così grosse di turisti e non è pronta ad accoglierli. Le campagne vivono i cambiamenti in modo più lento, ma anche lì si stanno iniziando a guardare intorno a capire che ancora molte cose gli mancano.
Gli errori più grandi che noi occidentali possiamo fare in questi casi sono due ed opposti tra loro. Il primo è il pretendere che i popoli si adeguino a noi in tempi troppo rapidi. Il secondo errore è quello di pretendere che rimangano in una loro affascinante quanto decadente arretratezza per preservarne la naturalità e la spontaneità.
La verità, invece, è che da queste parti in campagna si vive ancora bene. Questo accade non solo perchè i ritmi sono più lenti e adeguati all’indole del popolo cubano, ma perchè questi ritmi sono quelli più naturali per la nostra natura umana. Ogni momento è legato al ciclo lento delle stagioni che segnano il tempo del lavoro nei campi. La gente vive ancora lontana dal turismo. Ci si reca al lavoro su un carretto trainato da un cavallo oppure prendendo un autobus che passa senza orario.
Ecco… il fascino più vero e autentico dei cubani è proprio la loro lentezza, il non avere stress, avere ambizioni si ma con poca competitività. E tutto questo lo potrete apprezzare nelle campagne,
A Cuba i pochissimi che hanno una delle vecchie auto se la tengono gelosamente e in perfetto stato: sanno che ha un valore enorme come taxi, come mezzo da dare a noleggio con conducente.
Vita di una volta
Ma la vita nella campagna cubana riserva molte soddisfazioni a chi sia così curioso da volerne scoprire la luce calda del mattino quando il sole sorge nella rugiada e le ombre si stagliano in controluce sul cielo, qui è facile vedere i carretti che si dirigono nei campi trainati da un asino o un cavallo, vedere i ragazzi che vanno a scuola a piedi con le loro divise perfettamente pulite e con i colori diversi a seconda del grado di scuola che si frequenta: elementari, medie o superiori.
Qui la sera troverai la vita della gente che scende in strada a chiacchierare, a fare una passeggiata tra fidanzati o un giro in bici con gli amici. Strano… La musica non è diffusa ovunque come crediamo! A Cuba, nei posti che ho frequentato io non c’è musica come ce la aspetteremmo. Persino quando ho trovato la musica non era mai la salsa cubana che noi conosciamo dall’Italia.
In campagna la gente suona, ma non i ritmi caraibici ballabili, si sente invece più musica melodica e il repertorio classico alla Buena Vista Social Club…
L’altra cosa che può sconvolgerci è che a Cuba le case sono aperte, piano terra con la porta aperta e chiunque potenzialmente può entrare, affacciarsi a guardare dentro casa o a fare una foto. La gente qui si fida. Anzi, sono loro a dirti di entrare. Fidel Castro è dovunque, sui muri, nei portaritratti, sui manifesti…
Che Guevara è un’icona grafica, ha quasi del tutto perso le sue sembianze fotografiche per essere un tratto disegnato in bianco e nero, lo vedi sventolare sulle bandiere, stampato sulle magliette, esposto in case e uffici, la gente gli è grata e devota come se fosse un santo.
E a proposito di santi, in tutta l’isola si trovano luoghi e riti di Santeria, una religione che trae origini in quella cattolica ma sfocia tra lo sciamanesimo e l’animismo, vi si trovano adorazioni di alberi rituali e sacrifici animali, una cosa gioiosa ma spesso cruda e dura come la vita.
Qui non sarà raro vedere rituali che vengono celebrati al ritmo incessante delle percussioni con persone che entrano in trance, si portano offerte ai fantocci e cibi per le comunità o per i poveri.
In campagna ho trovato il meglio della gente di Cuba, in località piccole come a Vignales, a Pinar del Rio, nella Valle del los Ingenios…. Sono posti relativamente lontani dal turismo di massa, lì dove ancora si riesce a vivere in modo tradizionale, dove un contadino può coltivare il tabacco da vendere alle grandi manifatture governative, ma può anche tenerne una parte per se e farsi un “Puro” rollandoselo sul tavolo o direttamente sui pantaloni e poi incollandone le foglie esterne con il miele per dargli anche un sapore leggermente più dolce.
Beh… di certo non sarà nè perfetto di forma, nè bellissimo a guardarsi, però quel sigaro sarà solo suo, la miscela di foglie necessaria per comporlo sarà un mix unico e irripetibile, fatto in casa. E qualche Puro può anche venderlo in privato, favorendo così una microeconomia con la quale potrà finanziarci qualche spesa extra per casa.
Ho incontrato per puro caso uno di questi contadini in giro tra le campagne, non avevo una guida, nè un interprete, non parlo spagnolo e lui non parlava inglese, per cui ci intendiamo parlando ciascuno la propria lingua madre, convinti che le persone di buon senso se vogliono comunicare possono riuscirci anche solo a gesti. E così andò: ci capimmo al volo…
Poco dopo i normali convenevoli che si scambiano tra i viandanti, gli ho chiesto se conoscesse qualcuno ove potessi andare a vedere come viene fatta la lavorazione del tabacco. Ero infatti molto interessato a fotografare le varie fasi. Senza esitare mi invitò a casa sua per spiegarmi come viene fatta la coltivazione del tabacco, e naturalmente mi ha aperto tutte le porte senza alcun problema, la gente è sempre cordiale e disponibile da queste parti.
Il tabacco:
Al mio arrivo tutta la famiglia, compreso il nonno ultraottantenne, stava lavorando per trapiantare le giovani piantine nel campo in cui cresceranno e daranno i loro frutti. L’operazione di piantumazione, sarebbe banale nella sua semplicità, ma risulta essere una vera scoperta per un ingenuo “animale da appartamento” come me.
Qui tutto viene fatto a mano, non c’è fretta di automatizzare tutto, la lavorazione del tabacco da quando viene seminato a quando diventa sigaro dura un anno intero. Mi intrattengo a fotografare le mani degli operai che conficcano le loro dita tozze e forti nel terreno per dare dimora alle giovani piantine.
Ormai dopo mezz’ora di foto nei campi siamo diventati amici con il mio simpatico agricoltore: la fotografia aiuta moltissimo a ridurre le distanze tra le persone, che trovano in essa una loro dimensione di protagonismo. Quasi sempre la gente è portata a rapporti interpersonali informali ed è sempre molto cordiale e quindi quello è il momento giusto per chiedergli di entrare nella sua “Casa del Tabacco”.
Questa è una struttura a metà tra un essiccatoio e un magazzino: è un grande capanno di paglia stesa su un telaio di legno. Al suo interno si crea il giusto microclima per temperatura e umidità necessario alle foglie per essiccarsi in modo semplice e naturale, senza alcun agente esterno che ne velocizzi o rallenti il processo.
La natura segna il tempo di ogni cosa. Un posto del genere è un pò intimo, come una vera casa, ecco perchè ho aspettato a chiederlo, il motivo è che come in una casa, anche qui vengono custoditi i beni più preziosi della famiglia: l’intero raccolto del tabacco che darà lavoro e guadagno a tutti per un intero anno fino al raccolto successivo. Entrando nella casa si vede la quantità di prodotto che poi andrà allo stato, si dimostra così al visitatore la propria capacità di reddito. Infatti il 90% del prodotto andrà allo Stato e solo il 10% trattenuto dalla famiglia per uso personale.
Qui all’interno del capanno, le foglie sono perfettamente sistemate una per una, con la giusta quantità di aria che le avvolge, tutte infilate con il gambo all’insù. Rimarranno qui fino a quando verranno imballate in grossi pacchi e vendute alle manifatture statali. Non si sente ancora il tipico odore del tabacco qui, piuttosto qualcosa che ricorda il bosco in autunno, gli odori tipici del prodotto secco arriveranno poi con la lavorazione e la miscela.
I sigari:
La mia visita si conclude con il rituale quasi sacro della produzione del sigaro. Il Puro, quello lavorato alla buona e fatto sul momento ad uso e consumo di chi lo produce per fumarselo. Il Puro viene prodotto con lo stesso sistema dei sigari industriali, solo che viene fatto con molta meno cura, non viene pressato al torchio, la sua forma e dimensioni non sono perfette ma questo non è un problema per loro: il sapore e la qualità non cambiano.
Tutti i sigari, e quindi anche i Puri sono fatti con i diversi tipi di foglie della pianta che danno la giusta miscela e sapore. Le foglie esterne sono diverse da quelle che si trovano all’interno. Mi piace guardare, osservare e fotografare ogni sapiente gesto di quelle mani abili nel fare movimenti studiati, accurati, frutto di anni di esperienza…
Mi affascina vedere le mani che lavorano e questa cerimonia pagana che si celebra sotto la tettoia della veranda di casa circondati da cani, gatti e una scrofa che allatta…
“La parte più a nord dell’America del sud” questo è il singolare primato che può vantare la penisola della Guajira, una terra praticamente sconosciuta al turismo di massa che è stata meta di una delle mie originali scorribande in giro per il mondo.
Riconosco che non ne avevo mai sentito parlare, me la nominò il mio amico Dario, un Colombiano che mi raccontava di questo promontorio desertico che si protende verso i Caraibi suddiviso o forse sarebbe meglio dire condiviso tra Venezuela e Colombia. Le sue storie mi incuriosirono a tal punto che decisi di andare a scoprire cosa ci fosse da quelle parti.
Andammo a fine novembre, quando il clima è più mite, il caldo non è soffocante e le piogge sono virtualmente assenti. Il fattore meteo va sicuramente tenuto presente quando si va da queste parti: ci troviamo in piena fascia equatoriale, poco al di sotto del Tropico del Cancro.
Ci troviamo in piena fascia equatoriale, poco al di sotto del Tropico del Cancro.
Il viaggio è lungo e faticoso anche se fatto in aereo: innanzitutto ci vuole almeno uno scalo a Madrid o Lisbona, poi ci vogliono una quindicina di ore di volo dall’Italia. Il ritorno è peggio perchè di ore di volo ce ne vogliono 27 dato che la TAP fa scalo a Panama, l’aereo viene svuotato e i passeggeri imbarcati di nuovo.
Finalmente a Bogotà: 2640 metri di altezza sul livello del mare. Qui vista la posizione, fa freddo e piove, tipica giornata da fine autunno. L’aria è rarefatta vista l’altitudine, salire ulteriormente fino alla montagna del Monserrate con il suo Santuario El Senor Caido a 3150 metri di altezza. Ci arriva la funivia ma i pochi metri che ancora bisogna fare fino alla vetta metteranno alla prova quelli meno allenati a livello respiratorio.
Bogotà Ha un piccolo centro storico in stile coloniale, con casette basse coloratissime che ricordano moltissimo quelle di Trinidad nell’Isola di Cuba. Qui è bello passeggiare tra gli studenti universitari che abitano nel quartiere è lo rendono un luogo stimolante e attivo. Per il resto la città non vanta altre bellezze degne di nota, se non il Museo dell’Oro che è un’esperienza mozzafiato per la ricchezza e l’abbondanza dei reperti che risalgono all’epoca precolombiana.
Dopo la doverosa visita alla Capitale, il giorno dopo ripartiamo con un volo interno alla volta, finalmente, della Guajira. Appena scesi veniamo letteralmente proiettati in un’altra realtà, lontana anni luce dal nostro mondo e anche da quello visto il giorno prima nella grande città.
Atterriamo a Riohacha, un piccolissimo aeroporto di quelli tipici dei Paesi tropicali: le palme, un camioncino dei Vigili del Fuoco arrugginito e la scaletta per scendere direttamente sulla pista e proseguire a piedi fino all’aerostazione che è un grosso salone con porte e finestre aperte perchè non c’è aria condizionata.
Il volo viene operato da Avianca, la Compagnia di Bandiera colombiana che può vantarsi di essere la seconda compagnia aerea al mondo per data di fondazione preceduta solo dalla ben più nota KLM.
La Candelaria è uno dei quartieri più interessanti di Bogotà
la Compagnia di Bandiera colombiana che può vantarsi di essere la seconda compagnia aerea al mondo per data di fondazione
Siamo nel bel mezzo della Guajira, questa doveva essere la meta finale del viaggio con la motocicletta che fecero Che Guevara con il suo amico Alberto Granado, in realtà non arrivarono a destinazione: ma la mia meta aveva affascinato anche loro.
Da queste parti ancora si può provare l’ebbrezza di sentirsi “esploratori” o “viaggiatori” se preferite. Spingersi da queste parti significa essere davvero molto curiosi di sapere “cosa c’è oltre” oltre le solite mete turistiche, dove finiscono le strade asfaltate e inizia la vera avventura. E l’avventura non tarda ad arrivare: ci aspetta Emilio, il nostro autista: un omone gigantesco, un indio portato al sorriso e alla battuta con un tono di voce assordante, parla poco lo spagnolo, più che altro conosce la sua lingua, ma con le sue 20 parole riesce a farsi capire senza problemi su molti argomenti. Saliamo sul suo bel fuoristrada 4X4 a passo lungo ed eccoci ad iniziare finalmente il clou del nostro itinerario.
Nel pomeriggio ci fermiamo in un villaggio di capanne di fango e paglia, qui è la norma, sembra di stare in Africa. Le donne sono poco abituate al turismo, ci salutano con una certa timidezza e non hanno nulla da venderci, siamo noi stessi a chiedere loro se vogliano esibirsi in canti o danze tradizionali per condividere con noi una parte della loro cultura. Ben felici della nostra richiesta, le donne convocano un anziano percussionista che con il tamburo accompagna le loro danze che ricordano i movimenti che fanno i pennuti da cortile nei loro corteggiamenti. Questo è il nostro primo incontro con i Wayuu che vedremo più avanti.
Ma è proprio questo suo fascino selvaggio che ci piace trovare
Proseguiamo fino a Cabo De La Vela un villaggio sul mare in una posizione da sogno, incredibile, con un mare verde smeraldo e le coste sferzate da un vento fresco e gagliardo. Anche qui non esiste il turismo in nessuna forma. Il lungomare è solo il “giardino sul retro” delle capanne costruite sulle dune. Nel villaggio non c’è assolutamente nulla nè da vedere, nè da fare, nè da comprare. Ma è proprio questo suo fascino selvaggio che ci piace trovare in questo piccolo avamposto nel nulla sospeso tra il mare e il deserto. Non esiste corrente elettrica, non esiste segnale telefonico per i cellulari.
C’è giusto il tempo di fare un bagno nell’Oceano al tramonto che arriva la sera: siamo in fascia equatoriale, per cui qui durante tutto l’anno il sole tramonta intorno alle 18, il che vuol dire che alle 19 abbiamo già finito di cenare e alle 21 si spegne il gruppo elettrogeno e tutto il paese resta nel buio più totale… Ne approfittiamo per fare qualche foto ad una notte stellata incredibile che non dimenticheremo facilmente.
Parlavo di avventura e il momento di andare a dormire ci riserva un’altra bella sorpresa: non ci sono le camere, non ci sono muri, nè letti! Si dorme tutti insieme sotto una tettoia di paglia ciascuno sul suo chinchorro (da queste parti le amache si chiamano così), ma ci vuole l’esperienza del nostro autista Emilio che ci spiega la tecnica per dormire su questi inconsueti giacigli: basta mettersi a 45° rispetto all’asse dell’amaca: in pratica è necessario dormire con le gambe appese all’esterno del supporto in modo da farlo rimanere un pò più aperto. Solo i più fortunati riusciranno a dormire un paio di ore a notte…
Per fare uno spostamento di soli 200 km ci vogliono 10 ore di “Colombia Massage”
La Guajira è un vero deserto in mezzo al mare: qui ci sono altissime dune sabbiose che vanno a finire direttamente nell’oceano, ci si sposta solo in fuoristrada 4×4 perchè non ci sono strade: la velocità media che si può tenere sulle piste è di 20 chilometri all’ora, il che vuol dire che per fare uno spostamento di soli 200 km ci vogliono 10 ore di “Colombia Massage”, una giornata intera di sballottamenti tra rocce e sentieri, tra guadi e saline.
Da qui partivano i corrieri del mare, i trafficanti di cocaina del cartello di Medellin che attraversavano il Mar dei Caraibi per fare tappa a Cuba e poi portare la droga nel sud degli USA. Molte delle piste segnate da queste parti e ancora oggi percorribili, sono state tracciate dagli sgherri al soldo di Pablo Escobar e non meraviglia più di tanto il fatto che la penisola sia ufficialmente divisa tra Colombia e Venezuela, ma andando da quelle parti ci si rende conto che tali confini siano piuttosto labili e di fatti i Wayuu sono un Popolo apolide che si sposta più o meno liberamente a seconda delle necessità tra questi due Paesi.
Di fatto i confini tra i due Paesi non vengono controllati: sono pochi e segnati male, ne segue una gran tolleranza per le popolazioni locali che sono piuttosto libere di passare da una parte all’altra nell’indifferenza delle Autorità preposte ai controlli di frontiera.
Altra meta da non perdere in Guajira sono laghi e insenature di mare che ospitano migliaia di Fenicotteri rosa pronti a volare via appena l’uomo si avvicini nei paraggi. Per vedere questo spettacolo della natura suggerisco di utilizzare una piccola barca a vela con la quale avvicinarsi senza disturbare gli uccelli e di tenere anche montato il teleobiettivo stando pronti per riprenderli quando immancabilmente si alzeranno in volo: uno spettacolo meraviglioso contraddistinto dal particolare verso gracchiante dei fenicotteri impauriti!
Ma la meta più estrema del nostro giro nonchè il termine del nostro itinerario è Cabo Gallinas: la punta famosa per essere quella più a nord di tutta l’America del Sud! Qui c’è un faro per i naviganti, una meta imperdibile per soddisfare le vanità di ciascuno di noi con un classico SELFIE!
I Wayuu oltre ad essere pastori e allevatori, sono anche abilissimi nuotatori e quindi pescatori, qui a cena puoi mangiare 4 aragoste a persona spendendo solo 18-20 euro… Il nostro viaggio fuori strada continua fino alle ventosissime Dune di Taroa molto note in zona proprio per questo motivo: il vento praticamente costante tutti i giorni dell’anno, può essere a volte così forte da far cadere una persona con le sue raffiche.
I treni che portano il carbone dalle antiche miniere tutt’oggi funzionanti, fino ai porti
La Guajira è una zona che oltre alle sue bellezze porta i segni anche dello sfruttamento del territorio: ci sono delle saline enormi come quella di Manaure: qui ci sono ettari ed ettari di terra in cui viene lasciata evaporare l’acqua del mare per ottenere cloruro di sodio utilissimo per l’alimentazione umana.
L’altra fonte di reddito che viene da questa natura aspra e avara, sono i treni che portano il carbone dalle antiche miniere tutt’oggi funzionanti, fino ai porti o ai consumatori finali: vediamo passare tanti convogli, sono lunghissimi con la tipica motrice a gasolio si spostano lenti portando ogni tanto a bordo anche qualche clandestino che non aveva altro modo per spostarsi.
Il nostro viaggio termina con il lungo e lento rientro verso il nostro mondo occidentale, abbiamo vissuto giornate intense di scoperta di un Paese sconosciuto ai più. Ci resterà il ricordo di una esperienza di vita rude e a contatto con una natura gagliarda in grado di fare del male a chi la sfidi, e al contempo innocua con chi la teme. Ricorderemo il silenzio profondo che pervade quei territori sconfinati e disabitati divisi tra l’oceano e il deserto.
Il Perù raccontato dopo 30 anni da Andrea Del Genovese di Pisa. Altri tempi, altra fotografia. All’epoca naturalmente si scattava in pellicola, anzi, in questo caso in diapositiva, si scattava tutto in manuale e le foto si riguardavano solo una volta tornati a casa… Non c’erano monitor, nè stampe fine art, i più raffinati stampavano il bianco e nero nel bagno di casa. Chi voleva il massimo dai colori affidava le sue diapositive ad un laboratorio professionale rimanendo in attesa per giorni per vedere il risultato dei propri scatti.
Quando si faceva una foto la si pensava e si scattava molto meno perchè le pellicole avevano un costo immediato. C’era una cura diversa nel fare le cose, il fotografo all’epoca entrava davvero in empatia con la fotocamera e impiegava tutto se stesso per uno scatto. Da allora in 20 anni sono cambiate più cose nella storia della fotografia che nei precedenti 150 anni da quando fu inventata…
Il nostro Andrea è andato a rispolverare le foto del Perù dall’archivio di famiglia per farci scoprire un modo diverso di fare fotografia. Tecniche diverse, ma anche un linguaggio visivo che oggi è completamente cambiato.
Voglio ringraziare Andrea Del Genovese per aver voluto condividere con noi un pezzo della sua storia personale e per chi fosse interessato al Perù noi ci andremo dal 20 al 31 agosto 2018: https://viaggiofotografico.it/22396/peru-inca/
BUONA VISIONE
Un Perù ..vintage
La tecnologia applicata alla fotografia ha fatto passi da gigante; prova lampante le foto che presento(decisamente vintage!) relative ad un viaggio fatto nel 2001.Tutte fatte con DIAscattate con una Pentax Me super e frame di video girati con Sony VHS, entrambe digitalizzate.
Le immagini hanno questo sapore indefinito, sbiadite e poco incisive, ma i ricordi del viaggio in una terra meravigliosa come il Perù sono ancora assolutamente freschi e vividi.
Il Perù, con le proprie popolazioni Quechua, Aymara ed altri Gruppi Etnici,ha il potere di affascinare il viaggiatore grazie ai suoi spettacolari scenari sia naturalistici che archeologici legati alla Civiltà Inca.
Percorrere la Valle dell’Urubamba, godersi la vista di Machu Picchu dalla Puerta del Sol,vivere il colorito mercato di Pisac,ingraziarsi il Lago Titicaca offrendogli alcune foglie di cocaper assicurarsi un rientro a Puno dopo l’escursione all’isola di Taquile,esaltarsi con la vista aerea delle Linee di Nazca, immaginare come l’uomo abbia potuto 500 anni fa utilizzarei massi ciclopici della Fortezza di Sachsayuaman, ammirare la perfezione chirurgica della“piedra de los doce angulos” di Cuzco…
Vi lasceranno ricordi incancellabili e Voi avrete la fortuna di scattare in digitale ! Attendo con ansia le Vs . foto !
Cuba……. eccola! Fin da quando metti piede sull’isola ti ammalia, ti conquista e ti rapisce manifestandosi in tutto il suo splendore! E’ una miscela di odori che ti assale, odori che sanno di salsedine, di carburante, di umidità e muffe, di fragranze indefinite.
L’Havana. Foto Maria BonettoMalecòn al tramonto. Foto : Maria Bonetto
Entriamo in contatto con la realtà locale, con la sua gente e scopriamo un popolo che ha sofferto, che soffre, ma che non ha perso il suo sorriso. Il sorriso e la danza in questi giorni sono stati messi in un cassetto per la malinconia ed il senso di perdita che pervade l’isola. Il Líder Máximo non c’è più, ma la sua presenza è ovunque. Il Paese celebra e piange Fidel. Tutto ha assunto un tono sussurrato. Il momento storico che stiamo vivendo è unico, tutto è pervaso da un senso di tristezza composta. Mi meraviglia e sorprende quanto amore, nonostante tutto, il popolo cubano manifesta nei confronti di un dittatore che ha procurato loro ristrettezze sotto diversi aspetti. Ma la risposta forse è sintetizzata da Silvia, afrocubana, che ci accoglie all’aeroporto: “è stato un uomo che ha consentito agli esclusi di poter lavorare, studiare, curarsi”. I cubani hanno lottato per una Rivoluzione che ha smarrito gli obiettivi iniziali, che ha infranto i loro sogni, ma nonostante tutto ammirano e amano questo “condottiero” che ha lasciato un segno indelebile nella storia. Ha trasmesso loro un orgoglio nazionale che si ritrova in ogni aspetto della loro vita e che non è affatto appoggio integrale alle politiche della Cuba rivoluzionaria, e tuttavia è conseguenza di un grandissimo rispetto per chi ha cambiato la storia di un Paese.
Foto: Maria Bonetto
Questo orgoglio lo si riconosce anche nella loro musica, che condisce ogni momento della loro vita sia come forma di canto che di esecuzione strumentale che di ballo, permea le giornate che i cubani affrontano con uno spirito estremamente positivo. Ai loro problemi contrappongono il loro approccio alla vita. La miseria e la serenità si confondono e si integrano. Il grigio dei loro giorni è compensato dal colore e dal calore con il quale li abbelliscono danzando non appena sentono una nota musicale. Eccoli che suonano e ballano in strada appena termina il proclamato lutto nazionale e la vita riprende con il consueto ritmo.
L’Havana, il Malecòn. Foto : Maria Bonetto
Trovi la gente in fila con la libreta del razionamento alimentare e acquistano beni di prima necessità pagando in CUP, moneta utilizzata solo dai cubani. E’ infatti tuttora in vigore il sistema della doppia moneta che nel corso degli anni ha prodotto alcuni effetti negativi, creando due “mercati paralleli”, con un conseguente senso di esclusione economica di una fascia della popolazione cubana, ed una disparità di ricchezza tra coloro che sono pagati in CUP e coloro che invece hanno accesso ai CUC o ai dollari, monete derivanti soprattutto dal settore turistico.
Della gente colpisce la loro generosità e cultura. Non ti possono donare nulla ma donano loro stessi con le loro storie, aprono le loro case ed il loro cuore offrendosi a noi sconosciuti con spontaneità e senza riserve o pregiudizi. Le loro case, così variopinte, con le porte e le finestre perennemente aperte sulla strada, consentono ai passanti di condividere la quotidianità di coloro che le abitano.
Le città sono magnetiche, piene di contraddizioni delle quali ti innamori in modo viscerale e irrazionale. Ne percepisci tutto lo splendore che devono avere avuto in passato e che, in modo fatiscente, ancora emanano attraverso i loro gioielli architettonici che si mescolano qua e là a edifici di una decadenza scenografica, scoloriti dagli anni, dalla salsedine, dal sole e dalle intemperie.
Le strade a L’Havana. Foto : Maria Bonetto
Le coloratissime auto americane degli Anni ’50 Chevrolet, Cadillac, Pontiac e simili sfrecciano ogni giorno per le strade appestandole con i loro gas di scarico. Restano tuttavia dei cimeli che si fanno perdonare l’inquinamento che producono poiché creano un contesto da cartolina che è davvero unico!
Nonostante tanti anni di trascuratezza quasi totale, come riesca questo paese ad essere così straordinariamente bello è un fatto che sfugge a ogni logica, ma basta lasciare andare il cuore e farselo catturare!
Siamo arrivati a L’Avana la sera del 30 novembre. Tre giorni prima era morto Fidel Castro, controverso ed indiscusso protagonista della storia contemporanea del Paese.
Quando ho appreso della sua morte ho subito pensato che avremmo avuto una grande opportunità: essere a Cuba in un momento storico, di passaggio verso un futuro di forti cambiamenti ancora incerti ma spero non devastanti.
Non ero ancora mai stata a Cuba. Ero curiosa di parlare con la gente e respirare l’atmosfera di quei giorni di lutto in cui tutto il paese si sarebbe fermato.
Il pomeriggio del 30 novembre è partito da L’Avana il corteo con le ceneri di Fidel verso Santiago, quando siamo arrivati noi era già tutto lontano.
Il giorno dopo, L’Avana era una città fantasma, un caldo umido pesantissimo, e la pioggia che ha reso l’atmosfera ancora più grigia e triste. Così ci accolti il paese della musica e del sole.
Ovunque c’erano bandiere a mezz’asta, immagini commemorative di Fidel e del suo 90° anniversario di vita, scritte rievocative del 26 luglio 1953, in ricordo dell’attacco alla caserma Moncada a Santiago di Cuba, uno degli episodi più importanti della Rivoluzione cubana, a cui è stato ispirato il Movimiento 26 de Julio.
In quei giorni precedenti il funerale del 4 dicembre, e quindi la fine del lutto, c’era uno strano silenzio interrotto solo dal rumore delle poche bellissime e decadenti macchine d’epoca, che sono ancora le protagoniste indiscusse delle strade cubane.
Il sole era tornato, ma rimanevano le bandiere abbassate a mezz’asta, e soprattutto il divieto assoluto di bere e servire alcolici e di ascoltare qualsiasi tipo di musica.
Era stata vietata l’anima di Cuba a Cuba.
Solo in alcuni ristoranti turistici, con le cameriere vestite da Babbo Natale, servivano qualche cocktail a base di rhum, ma mai birra, perché, dicevano, la birra si vede da lontano.
Abbiamo approfittato per parlare con la gente, capire cosa pensano di quel che è stato Fidel per il loro popolo, quanto quel silenzio obbligato fosse vissuto come una costrizione o come un lutto vero e sentito.
A L’Avana alcuni proprietari delle case che ci ospitavano erano poco interessati alla storia e al passato di Cuba… pensavano di più al loro futuro in un turismo che ormai sta diventando di massa.
Ma usciti dalla città, tra i coltivatori di tabacco e canna da zucchero, spesso plurilaureati, il sentimento condiviso è di grande rispetto e devozione nel Lidèr Maximo che ha dato ai cubani istruzione e sanità gratuita per tutti e li ha liberati dalla dittatura fascista e corrotta di Batista.
Sono queste quindi le due anime di Cuba in questo momento di passaggio e cambiamento: quella ancora nostalgica, e certa che Raùl Castro continui sulla linea politica del fratello, e quella che si sta già affacciando al nuovo mondo del turismo, in modo spesso troppo disorganizzato ed approssimativo.
Le casas particulares sono ora autorizzate dal governo, e chi ha modo, non perde l’occasione di trasformare la sua casa in un alloggio per turisti, il porto di L’Avana si è trasformato in un parcheggio per navi da crociera e i pullman turistici da 50 posti sono ormai ovunque…
Rimane però la doppia moneta, il pesos cubano che vale pochissimo (il CUP, 1/24 di €) con cui possono comprare prodotti di prima necessità in botteghe apposite con scaffali prevalentemente vuoti, tutto razionato e controllato, ed il Pesos Convertibile (il CUC, con cambio 1/1 con l’euro), utilizzato dai turisti, che al nero entra nelle mani degli operatori turistici a qualsiasi livello e che crea grosse disparità nella popolazione.
Questa è la Cuba che io ho vissuto io oggi, in un momento importante per il suo futuro, sperando non venga trasformata in una macchina per investimenti ma che riesca a mantenere la sua forza ed unicità.
Cosa succederà non lo sappiamo, ma già si vedono tante bandiere americane nelle strade e dentro le case, e tanti sono i cubani che con i colori della bandiera USA hanno trasformato il loro abbigliamento…
Che sia un bene o un male sarà solo la storia a dirlo…
La pioggia scende prepotente, le prime foglie si staccano dai rami degli alberi con fare sconsolato, la gente si rifugia nelle proprie case e pensa già al cambio dei vestiti negli armadi. È così che la mia mente vola ad altre latitudini, a quella terra tanto martoriata, turbolenta e poco definita nell’immaginario comune, a quella terra sorridente e magica nei miei pensieri. La Colombia!
Parlare della Colombia non è facile, non si sa mai da che parte cominciare… Di solito la conversazione inizia col dover in qualche modo rispondere ad una battuta sulla cocaina. Facciamo che di questo vi parlo in un’altra occasione, oggi vi racconto un’altra storia. Vi parlo, ad esempio, di quello che oggi è considerato il miglior caffè del mondo. Turchi, libanesi e siriani portarono la pregiata qualitá arabica nel XVII secolo trovando condizioni climatiche perfette per la coltivazione. I paesaggi ed il contesto culturale delle verdi vallate del “Triangolo del caffè” sono riconosciuti come patrimoni dell’umanitá dall’UNESCO.
Immaginate la Colombia come un tessuto cucito nei secoli col profumo e le influenze di tante razze e culture che dando vita ad un mosaico multicolore dal fascino indigeno, europeo, africano, medio-orientale. La Colombia è un paese con una biodiversità incredibile e di rara bellezza ma la sua vera ricchezza sta in quel particolare “melting pot” che si è venuto a creare nel corso dei secoli. Lo si può scorgere nelle architetture coloniali deliziosamente conservate, nell’artigianato, nella gastronomia, nelle molteplici espressioni musicali e soprattutto nei tratti dominanti e in quelli meno evidenti dei visi della gente.
La Colombia è un paese in cui un viaggio ne contiene molti altri, un paese in cui ancora si possono vivere esperienze autentiche ed emozioni genuine essendo sempre stato fuori dalle rotte tradizionali del turismo. Un paese in cui si può camminare per le strade acciottolate del centro storico della Candelaria nella capitale Bogotà, alzare gli occhi al cielo ed ammirare le Ande, acuire l’udito e sentire i suoni dolci di una fisarmonica che richiama le storie del Mar dei Caraibi, girare l’angolo di un vicolo e sentire l’aroma di caffè.
Potrebbe essere più immediato descrivere paesaggi e luoghi, ma come fare a farvi sentire l’incanto delle emozioni, la brezza che vi accarezza la pelle, il caldo rovente della sabbia sotto i piedi del deserto della Guajira o i suoni emessi dalle balene che svezzano i cuccioli nella acque calde di Nuquí o Bahia Solano. Un paese che profuma di Realismo Magico e custodisce con gelosia i segreti della Leggenda di “El Dorado”.
Testo e foto di Dario Gonzalez
EMAIL: dario@worldtraveldesigner.it
MOBILE: +39 333 3166283
Cuba
Cuba: attimi di vita
Descrivere cuba in poche parole è molto difficile. Conosciuta spesso per le meravigliose spiagge bianche, il mare cristallino, i sigari ed il rum… Cuba è molto di più! Atterrati all’havana, Trinidad o qualsiasi altra città cubana, sembra quasi di aver viaggiato su una macchina del tempo che ci ha riportato in un’altra epoca, completamente lontana dalla nostra realtà: gli anni 50. Una città vecchia, con edifici molto vecchi, decadenti. Una città vecchia, eppure così viva, così movimentata sin dalle prime ore del mattino. Persone semplici che conducono una vita perfettamente normale in una città senza tempo. Ma è proprio questo che mi ha affascinato. Spesso, noi appassionati di fotografia, siamo attratti da eventi straordinari e insoliti e non ci accorgiamo di quanta bellezza abbiamo intorno a noi, anche semplicemente nei piccoli gesti delle persone, nei loro occhi, nei loro sorrisi. E’ stato questo l’obiettivo del mio viaggio fotografico, ritrarre la vita quotidiana di quest’isola, così diversa, piena di contraddizioni e probabilmente destinata via via a cambiare nel tempo con le nuove generazioni.
E così, guardandoti intorno, vedi donne che con un secchio lavano i pavimenti e ti ricordi quando tua nonna ti raccontava che si faceva così ai suoi tempi, porte delle case sempre aperte, fino a tarda sera, così da intravedere la vita all’interno di esse, con bimbi che giocano scalzi e mamme che li chiamano per la cena.
Noti un padre che, di buon mattino, saluta il figlioletto, e gli raccomanda di comportarsi bene, anziani signori che si apprestano a lavorare, sotto l’ombra del loro cappello, mentre le nuove generazioni si costruiscono un futuro andando a scuola, con le loro ordinate divise; nel frattempo degli strani personaggi, in un angolo, attendono di essere fotografati, per un soldo in più.
Arriva il pomeriggio e l’atmosfera è ancor più rilassata: i bimbi festeggiano la fine della scuola, mentre chi ha lavorato la mattina, si riposa un po’; due anziane signore, sorridono mentre osservano il tempo che passa, mentre una mamma e una figlia si tengono il broncio per una piccola incomprensione.
La musica fa da contorno a tutto ciò. Gruppi di suonatori, spesso anziani, seduti sui marciapiedi che rievocano grandissimi successi cubani, che raccontano semplici momenti di vita, storie d’amore o di rivoluzione, sempre sorridenti e fieri di quella musica che, seppur antica, è intramontabile.
Gente che cammina, gente che lavora, gente che aspetta, magari una mancia da un turista, o che semplicemente sta seduta sul marciapiede a guardare la vita che scorre inesorabile intorno a loro.
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