Buzkashi o Kupkari

Durante le tre edizioni del nostro Viaggio Fotografico in Uzbekistan i nostri Viaggiatori si sono espressi con foto e video sul Buzkashi, che da queste parti chiamano Kupkari.

Tre nostri Compagni di viaggio ci hanno dato la loro personale lettura di una giornata straordinaria:

  • Roberto Manfredi
  • Francesco Dolfi
  • Lia Dondini Taddei

E per finire in fondo alla pagina ci sono anche i video di:

  • Giorgio Sega
  • Luca Maiorano

Scopri tutto in questa pagina e guarda come hanno trattato lo stesso argomento in modi tanto diversi…

Buzkashi o Kupkari, cosa è?

Roberto Manfredi

Acchiappa la capra! Questo è il significato della parola uzbeka Kupkari e della corrispondente parola parsi Buzkashi. Si tratta di un antico sport equestre molto popolare in Uzbekistan e in molti paesi dell’Asia centrale. 

In un grande campo molte decine o, spesso, centinaia di cavalieri si contendono la carcassa di un agnello o di una capra. Vince chi riesce a far cadere la carcassa in un’area preassegnata. Il giocatore che ci riesce viene premiato, poi il corpo dell’animale viene riportato al centro del campo e si ricomincia.
Ci sono molte varianti di questo sport: può essere giocato da due squadre contrapposte o individualmente, tutti contro tutti.
In alcuni paesi, come in Kazakhstan (dove il gioco si chiama kökbörü), si svolgono addirittura dei campionati e le squadre si affrontano indossando delle vere e proprie uniformi. Nei villaggi dell’Uzbekistan si pratica quella che probabilmente è una delle versioni più antiche e genuine: si gioca individualmente e l’abbigliamento dei concorrenti è libero è assolutamente funzionale.
Molti cavalieri indossano dei caratteristici caschi di stoffa imbottita, residuati militari usati un tempo dai carristi dell’Armata Rossa sovietica.
L’Imam benedice i fantini

Buzkashi

La contesa della pecora nella mischia dei fantini
La corsa per deporre la pecora
Si lotta per contendersi il trofeo
Il fantino con la sua preda corre verso la vittoria inseguito dagli altri concorrenti
La grande fuga trascinando la pecora spesso finisce fuori dal campo di gara
Incidente fortunatamente senza conseguenze…
Sportiva amicizia tra concorrenti
Il fantino ritira il suo premio
Un uomo conta i soldi vinti con una scommessa

Le regole:

Le regole sono poche: è proibito colpire un avversario con il frustino e cercare di farlo cadere da cavallo. Per il resto è tutto permesso. Il cavaliere in temporaneo possesso della carcassa la trattiene stringendola al corpo del cavallo con una gamba, mentre i concorrenti lo inseguono e cercano di affiancarlo per strappargliela, e per farlo spesso assumono posizioni acrobatiche sul cavallo in corsa.
I cavalli vengono spronati con frustini ottenuti dalle cinghie di trasmissione dei motori a scoppio, e quando i giocatori necessitano delle mani per contendersi la carcassa, i frustini vengono tenuti tra i denti.
Il pubblico segue il gioco in posizioni sicure, dall’alto di un crinale o dietro una barriera di veicoli, facendo il tifo per i propri beniamini e scommettendo sui vincitori. I premi, nella partita che abbiamo visto, erano piuttosto ruspanti: una batteria di stoviglie, un servizio da tè o un cuscino in memory…
Il Kupkari è un gioco antico di secoli e le sue origini non sono documentate, ma quasi certamente è nato nel bacino del fiume Amo Darya, il più lungo dell’Asia centrale, che separa gli attuali Uzbekistan e Turkmenistan.
Pare che gli invasori mongoli di Gengis Khan depredassero i villaggi afferrando al volo capre e pecore mentre li attraversavano sui loro cavalli in corsa; le vittime dei saccheggi avrebbero poi cercato di recuperare il loro bestiame allo stesso modo, cavalcando attraverso gli accampamenti mongoli di corsa.
Gli ovini sarebbero stati così contesi cavalcando velocemente; queste contese sarebbero poi state riprodotte per gioco, facendo così nascere il Kupkari.
Il Kupkari si gioca in occasione di feste o matrimoni, quando inizia e finisce la stagione agricola e in molte altre occasioni. Il match raccontato da queste foto si tenne presso Samarcanda il 21 marzo, giorno del Nowruz, capodanno del calendario zoroastriano.
Infine una curiosità: in Argentina si pratica un gioco simile al kupkari, detto “pato” dove al posto della carcassa si usa una palla dotata di sei grosse maniglie.

 

Francesco Dolfi

Kupkari o Buzkashi, secondo i paesi.

E’ il nome di un antico gioco equestre che ha origine in Asia centrale dove è ancora diffuso e praticato in occasione di festività ed eventi speciali.

Con « viaggio fotografico » abbiamo potuto assistere a questa straordinaria festa, non lontano da Samarcanda, in Uzbekistan, in occasione del Navruz che celebra l’equinozio di primavera e l’inizio del nuovo anno, secondo una tradizione che risale ai tempi del zoroastrismo .

 

Niente arene, piazze o stadi, con scalinate, balconi o tribune. Il Kupkari si gioca all’interno di una spianata stepposa, delimitata da dossi di terra, dove si assiepa il pubblico, soprattutto donne e bambini, che incitano i valorosi cavalieri, rigorosamente uomini, che si trovano più in basso e si contendono la carcassa di una pecora o un montone per portarla e depositarla oltre il traguardo.

In premio ci sono somme di denaro, beni di consumo e il riconoscimento del proprio valore. Come in ogni competizione equestre che si rispetti, non mancano gli allibratori e le scommesse.

Intorno alla competizione ci sono gli stand gastronomici per ristorarsi dopo la gara
Un fantino vittorioso va a ritirare il suo premio
La tribuna d’onore è sui cassoni dei camion
Momenti della gara
La pecora contesa tra i fantini
una vera e propria mischia di uomini e cavalli: hanno appena raccolto la pecora da terra e cercano il modo di iniziare la loro fuga
La corsa
La contesa
I fantini ricevono la benedizione dell’Imam
Il pubblico

Uno sport pericoloso:

La giuria e gli ospiti privilegiati, quali eravamo noi fotografi venuti da lontano, trovano posto a bordo di autocarri che, disposti in fila, delimitano l’area di della competizione. Gli stessi offrono pure un riparo dagli impetuosi assalti dei cavalieri e dagli zoccoli dei loro cavalli.

Il gioco è piuttosto violento e le regole concedono di tutto, compreso l’uso di un improbabile frustino, che i cavalieri stringono tra i denti, usato per colpire l’avversario e per disarcionarlo.

Per proteggersi, i cavalieri indossano dei copricapo di ogni genere, tra questi un vecchio e bizzarro berretto da carrista, reliquia dell’era sovietica.

La competizione comincia con i saluti di rito e una preghiera, un trattore trasporta la carcassa al centro del campo e la competizione ha inizio.

L’energia sprigionata dai cavalli al galoppo e dai cavalieri che lottano, corpo a corpo, impennando i loro destrieri è davvero impressionante e coinvolgente.

Il Kupkari non è soltanto una competizione equestre, ma è anche e soprattutto una grande festa di paese. Non abbiamo assistito ad un evento confezionato per i turisti, bensì ad un momento di indimenticabile folklore autentico e genuino.

di Francesco Dolfi

 

Lia Taddei

Il Buzkashi in Uzbekistan

Il Buzkashi (chiamato anche Kupkari) è uno sport equestre praticato in tutta l’Asia centrale e considerato sport nazionale in Afghanistan.


In Uzbekistan è generalmente praticato in determinate occasioni come matrimoni o feste nazionali.
E’ praticato in un grande campo; l’obiettivo è quello di impadronirsi della carcassa di una capra, portarla lungo un percorso obbligato e lanciarla oltre un’area definita. I giocatori utilizzano una piccola frusta in pelle grezza che viene tenuta tra i denti quando non è usata.

 

Gli uomini gareggiano sotto gli sguardi delle loro donne
Panning
La vittoria
Scene di gara

I fumi del pranzo invadono il campo di gara
Durante la benedizione dei fantini pregano anche gli spettatori
Il campo di gara è uno spiazzo non delimitato nè segnato in alcun modo

La tradizione:

Non esistono regole scritte, sono per di più tramandate oralmente e frutto di una lunga tradizione ed è concesso di tutto, da colpire l’avversario con il frustino a farlo cadere da cavallo E’ sicuramente uno sport piuttosto violento, ma fa parte delle tradizioni locali e ha origini antiche.

Si pensa che sia stato introdotto dai Mongoli nel 12mo – 13mo secolo.
Il Buzkashi in Uzbekistan viene organizzato in modo spontaneo e non è sempre facile conoscere il luogo esatto e l’ora in cui si svolgerà ,ma grazie alla nostra preziosa guida Bek siamo riusciti a partecipare a questo evento.


L’atmosfera che si respira è festosa, la gente locale, ammassata attorno al campo, tifa, scommette, ma anche si cucina carne alla brace e i locali ti invitano a mangiare con loro e a bere (vodka!).

C’è fierezza e determinazione nel volto degli uomini che a cavallo sono pronti a tutto pur di raggiungere l’obiettivo e conquistare così il premio e dimostrare il loro coraggio.

di Lia Taddei

Giorgio Sega

Luca Maiorano

le Isole Derawan nel Borneo

Sono passati tanti anni, da luglio 2007 quando ho fatto questo viaggio che ormai posso definire “vintage” nelle Isole Derawan.

Andiamo per ordine… ho sempre amato i viaggi antropologici con etnie e festival particolari per fotografare le tradizioni, gli usi, i costumi e le culture lontane, diverse dalla mia. Scovai un itinerario molto particolare che si svolgeva nel Borneo e comprendeva giungla e isole completamente disabitate.

Questi sono gli abiti tipici dei giorni di festa e usati un tempo per la caccia, la gente li indossa volentieri anche su richiesta.

DOVE SIAMO:

Il Borneo è la terza isola più grande del mondo ed è divisa tra una piccola parte costiera in territorio malese e la maggior parte della superficie, tutta di giungla impenetrabile si chiama Kalimantan ed appartiene all’Indonesia, ed è proprio qui che siamo andati: in un piccolo arcipelago di isole tropicali sconosciute al turismo.

Le Isole Derawan sono 6 e solo 2 di queste sono abitate, le altre sono completamente deserte e per vederle occorre organizzarsi bene. Quando andammo, lo facemmo per puro desiderio di esplorazione, per il piacere della scoperta, di poter vedere qualcosa di esclusivo, un paradiso inesplorato. All’epoca non esistevano neanche reality come quelli che ci sono ora sulle varie isole deserte, una volta trovata la location il resto era da organizzarsi sul campo. E così facemmo.

Non era un viaggio semplice da organizzare: innanzitutto avevamo bisogno di una guida specializzata che sapesse condurci in posti così sperduti in cui ogni imprevisto può trasformarsi in un problema o una tragedia. 11 persone che arrivano dall’Italia hanno necessità di muoversi in sicurezza, dovevo prendermi cura di tutto per fare una fantastica esperienza.

Nelle due isole abitate delle Derawan, naturalmente c’è la scuola, ne abbiamo approfittato per andare a fare qualche scatto. Foto: © Roberto Gabriele 2007

LA GRANDE AVVENTURA:

La prima cosa imprescindibile della quale occuparsi è l’acqua potabile… Eh già… Nella giungla l’acqua non manca: la prendi dal fiume ed è pulitissima, ma nelle isole deserte circondate dal mare, l’acqua da bere è un grosso problema, nessuno aveva voglia di raccogliere quella piovana che nessuno poteva assicurarmi che ci sarebbe stata, nonostante il monsone.

Ho fatto quindi due conti sul fabbisogno giornaliero e ho preso acqua in bottiglie di plastica che bastassero per tutti e fossero più che sufficienti senza sprechi. 3 litri a persona per 11 persone per 8 giorni…. fanno…. 44 casse di acqua da 6 bottiglie! Un numero decisamente impressionante, ovviamente per trovarle prima di partire è stato difficile nel porticciolo di Tarakan, l’unica abitata tra le Isole Derawan, ma questa è la parte divertente del viaggio: abbiamo preso un pulmino e ci siamo fatti portare a fare la spesa in un supermercato più grande. In questi posti, pagando pochi spicci puoi ottenere qualsiasi servizio inizialmente non previsto.

Quando cerchi di immaginare il paradiso, forse potrebbe venirti in mente un posto come questo. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Anche i viveri non sono stati una cosa semplice da gestirein un arcipelago deserto come le Isole Derawan: le verdure non si sarebbero conservate per 10 giorni fuori dal frigo, idem per le uova, formaggi non se ne trovano perchè in zona non ne producono, ho risolto il problema anche della conservazione con i famosi formaggini con la mucca disegnata sulla scatola. Poi scatolame di mais e tonno locale e fagioli e le solite patate che non mancano mai nel menu di sopravvivenza. Immancabile la pasta…. di grano tenero, quella che noi italiani amiamo tanto, quella che si incolla e si disfa impastandosi nel piatto solo per condirla… ma non avevamo alternative… Ci rimaneva il pesce che avremo pescato in navigazione.

Fatta la spesa siamo andati al porto a prendere la barca… speravamo in un cabinato spartano ma ci siamo resi conto che l’unica cabina presente a bordo era quella del timoniere, nella quale ovviamente era impossibile dormire!!!! Ok, in effetti partiamo per andare a dormire sulle isole, il cabinato non ci occorre: abbiamo le nostre tende per colonizzare le spiagge vergini di queste isole che si trovano due gradi al di sopra della linea dell’equatore. Siamo saliti su una specie di peschereccio di legno che aveva un tendalino sopra, fortuna che non puzzava di pesce marcio: sarebbe stato la nostra casa galleggiante x 8 giorni…

Tipica barca locale ormeggiata in un paradiso nautico. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Inizia la navigazione: circa 100 miglia marine (160 km) da fare sul nostro peschereccio… Impiegheremo una giornata intera per coprire la distanza. Finalmente arriviamo a destinazione: attracchiamo su una delle due isole abitate: Pulau Panjang. Qui troviamo un piccolo villaggio ma molto vivo, c’è il porticciolo e per noi un alberghetto, nulla di lusso ma le stanze sono delle palafitte in mezzo al mare e collegate con un pontile alla terraferma, sotto di noi vediamo delle grandi gabbie in mare…. servono per l’allevamento delle aragoste che mangeremo a cena: una aragosta intera a 7 euro!!!!

Prima di cena decidiamo di fare un aperitivo…. Ci accorgiamo però di quanto sia difficile da spiegare ai locali cosa sia un aperitivo!!!! 10 anni fa anche in Italia non era un modo tanto diffuso come oggi per fare una serata… ma noi avevamo tempo e voglia di spiegarlo al povero ristoratore che aveva avuto la sfortuna di riceverci nel suo locale. Ovviamente la prendemmo tutti a ridere ed era un modo per relazionarci con lui… non aveva nulla che fosse spizzicabile come siamo abituati noi… riuscimmo a farci preparare una frittura di calamari con una birra calda (non c’era il frigo) e quello fu il nostro aperitivo di tendenza. La location in riva al mare, su un’acqua trasparente e cristallina e circondati dal silenzio rotto solo dalle onde erano invece la cornice perfetta per una serata fantastica prima di iniziare il tour.

Ultimo avamposto semicivilizzato su una delle due isole abitate delle Derawan. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Al mattino successivo prendemmo il nostro peschereccio con il pieno di benzina fatto alla volta di Pulau Maratua, la prima delle isole deserte in cui sbarchiamo. Eh, già… il nostro è un vero e proprio sbarco: essendo deserta l’isola, evidentemente non c’è neanche un approdo: la nostra barca oltrepassa la barriera corallina, si avvicina a riva e ci tuffiamo nelle acque basse per procedere a piedi fino alla spiaggia. Naturalmente in questo modo scarichiamo a mano l’acqua, le tende, i viveri e… le fotocamere!!!!

derawan

Siamo, ovviamente da soli, sulla spiaggia di un’isola deserta nella quale non c’è nulla, non esiste neanche pensare alla copertura del segnale per i cellulari, nulla di nulla che ci avvicini in qualche modo alla civiltà, quando sarà buio tra le tende vedremo grazie alla luna e al fuoco che accenderemo sulla spiaggia usando i rami di palma secchi che raccoglieremo nel pomeriggio. Totalmente isolati, niente acqua se non la nostra, nessun rifugio, niente corrente elettrica e in caso di una qualsiasi emergenza sanitaria che può sempre capitare, siamo ad almeno 10 ore di navigazione dal più vicino ospedale. Mi raccomando con il gruppo di… evitare incidenti!!!!

La nostra barca all’ancora nel primo mattino. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Stare su un’isola deserta è eccitante, lo senti, lo sai che quell’angolo di paradiso in terra è reale, e per quel giorno è solo tuo! Un’isola deserta è destabilizzante, perchè sai di essere da solo e vedi realizzato un sogno che pensavi potesse esistere solo nella tua fantasia. Lontanissimo da tutto e da tutti. Sei da solo con te stesso! Il tempo si dilata, le giornate vengono cadenzate solo dal ritmo della natura, dal sorgere e calare del sole, dal caldo, dalle piogge e dalle maree. Ti accorgi che improvvisamente cambia la tua scala di valori e di priorità. Lì non ti servono soldi nè tecnologia, nè auto, nè abbigliamento, ti basta la fotocamera, l’acqua, qualcosa da mangiare e per accendere il fuoco.  Oltre alla benzina nella barca per tornare a casa… Fine. Non hai bisogno di altro.

Questo tratto di sabbia che ci divide dagli alberi che si intravedono all’orizzonte, 6 ore prima era mare aperto, adesso con la bassa marea possiamo attraversarlo a piedi. Foto© Roberto Gabriele 2007

LA SCOPERTA DEL MARE nelle Isole Derawan:

Personalmente non amo il mare, non mi piace stare in spiaggia a prendere il sole, ma qui è tutto diverso e quindi stimola la mia curiosità di fotografo e di viaggiatore. Mi sono cercato delle occasioni per fare le mie foto e ho scoperto la bassa marea, un fenomeno del tutto normale in natura a qualsiasi latitudine, tranne nel momento in cui mi accorsi che su quell’isoletta che vedevo davanti a me quella mattina, nel pomeriggio potevo andarci a piedi!

E così facemmo: raggiungemmo l’isoletta camminando su un prato di stelle marine che erano rimaste sul fondo sabbioso del mare in certe pozze di acqua lasciate dal mare quando si ritirava. Lì ci fu un incontro piuttosto particolare… sul lato opposto dell’isoletta vedemmo da lontano una barca ormeggiata e 4-5 uomini tutti armati di pugnale che camminavano sulla spiaggia. Essendo quella una zona di pirati, il primo pensiero naturalmente fu al peggio: se fossero stati lì per noi non avremmo avuto scampo, come minimo ci avrebbero rubato tutto. Ma intuii che se fossero stati lì per noi sarebbero venuti direttamente sulla nostra isola e che quella non mi sembrava una azione di attacco. Infatti li avvicinammo nonostante tenessero i pugnali in mano ed erano dei semplici cercatori di ostriche che approfittavano della bassa marea per raccogliere i preziosi mitili da vendere ai ristoranti.

Gli uomini armati di pugnale: pensavamo fossero assassini o pirati, ma erano per fortuna solo dei raccoglitori di ostriche sbarcati per lavoro sulla nostra isola deserta. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Nella fascia equatoriale fa buio presto: intorno alle 18, tutto l’anno. E così poco dopo quell’ora si cena e si resta a rimirare il cielo stellato e ad ascoltare lo sciabordio delle onde che di notte si colorano dei bagliori verdi generati dal plancton. Rimaniamo estasiati dallo spettacolo e nessuno ha il coraggio di dire banalità…. Non ci sono neanche zanzare, per cui ci possiamo addormentare sulla spiaggia, fuori dalle tende e attendere l’alba arrivare sulle Isole Derawan prima che in ogni altra parte del mondo…

Non saprei il nome di questo simpatico animaletto con gli occhi grandi che corre con le zampette fuori dall’acqua e nuota velocissimo quando vi è immerso. Foto© Roberto Gabriele 2007

Quando fa giorno abbozziamo una specie di colazione: qualche biscotto e una tazza di the, non abbiamo altro e questo sarà il nostro menù per i prossimi 10 giorni. La giornata prosegue con l’esplorazione dell’intricata foresta di mangrovie che ricopre l’isola. Scopriamo dei curiosi animaletti che assomigliano a delle velocissime lucertole anfibie con gli occhi grandi che respirano fuori dall’acqua ma che sono velocissime a tuffarcisi per difendersi se temono il pericolo…

Scopriamo il piacere dell’ozio filosofico, della noia dialettica, impossibile fare programmi, non ci sono alternative che lasciar passare le ore della giornata continuando a pensare se davvero sia bello vivere in paradiso. Tra un silenzio e l’altro, tra una palma e un varano, ogni tanto qualcuno si determina a rompere gli indugi e tuffarsi in mare armato di maschera, boccaglio e pinne per fare un pò di snorkeling nella barriera corallina.

Anche qui si aprono per me dei mondi nuovi e inesplorati: non avevo mai nuotato sulla barriera corallina, solo stando con la testa sott’acqua entri in un mondo parallelo: il grande blu. Sotto di me a pochi centimetri ci sono coralli e pesci coloratissimi, uscendo di pochi metri, la barriera corallina sprofonda fino a perdita d’occhio, molti metri più in basso vedo pesci enormi che mi inquietano quanto basta per ritornare nella mia zona di comfort: sopravvivere in un’isola deserta non mi spaventa, le profondità misteriose del mare invece ci riescono benissimo.

TARTARUGHE E ALTRI INCONTRI:

Uno dei ranger ha scavato le uova di tartaruga deposte nel nido per portarle al sicuro da predatori. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Sangalaki è poco più di uno scoglio, sarebbe disabitata se non ci fossero 4 rangers che vivono lì per fare una serie di studi sulle tartarughe marine giganti che arrivano a decine ogni notte per fare il nido e deporre migliaia di uova. Qui è impossibile dormire fuori dalla tenda: le tartarughe ti passerebbero sopra e la cosa non sarebbe bella: un animale del genere facilmente supera i 150 chili! Evitano invece le tende perchè le vedono come ostacoli. La notte in quest’isola però l’abbiamo passata in bianco a guardare lo spettacolo della natura.

Le tartarughe arrivano in spiaggia, e vanno dritte come se sapessero già dove andare a fare il loro nido, e anzi, sicuramente lo sanno benissimo, poi si fermano e iniziano a scavare una buca profonda circa 80 centimetri, appena finita la buca si mettono su di essa in posizione per deporre le uova e poi la richiudono con la sabbia.

Il respiro della tartaruga mentre lavora per deporre le uova è impressionante, è un forte sospiro, quasi un rantolo che si sente forte e deciso nel buio della notte. Tutta la nidificazione dura circa 2 ore. Avviciniamo i rangers che censiscono il fenomeno: quante tartarughe per ciascuna notte, dove depongono le uova, quante ne fanno…. Sono dei giovani ragazzi che vivono qui sull’isola e fanno anche un lavoro duplice di ripopolamento: da una parte prendono alcune uova e le mettono nelle incubatrici per farle dischiudere in modo sicuro lontane dai pericoli, e dall’altra creano delle gabbie sulla sabbia  intorno ai nidi che terranno fino a quando si schiudono le uova, poi proteggeranno alcuni piccoli dai predatori fino a quando arriveranno al mare.

Giovanissimo tartarughino, nato pochi minuti fa, si avvia rapidamente verso il mare dove sarà al sicuro da varani e uccelli predatori. Ne muoiono a migliaia ogni giorno, quelli che si riescono a salvare sono pochissimi. Foto: © Roberto Gabriele 2007

I varani e gli uccelli sono pericolosissimi sia per le uova che per i neonati mentre si avvicinano all’acqua del mare, in quel momento sono vulnerabilissimi: pochi di loro riescono ad arrivare a riva, gli altri piccoli muoiono di stenti solo per uscire dalla sabbia o vengono predati. E’ questa la dura legge della natura.

L’isola di Kakaban famosa per le sue meduse non urticanti. Foto: © Roberto Gabriele 2007

Pulau Kakaban è un’isola incredibile: anche questa è completamente disabitata, è palesemente il cratere di un vulcano spento che esce dal mare ed è pieno di acqua marina senza alcun collegamento con il mare aperto. Questo ha fatto sì che all’interno del cratere ci sia un lago di acqua marina nel quale l’unica forma di vita sono milioni di piccole meduse non urticanti tra le quali si può nuotare liberi da ogni pericolo.

Sull’isola l’unico pericolo sono invece alcuni piccoli serpenti non velenosi ma tossici, il loro morso non è letale ma occorre fare molta attenzione per non passare qualche ora con grossi problemi… Piazzammo le tende sull’unico spazio disponibile in tutta l’isola che non fosse in pendenza: un pontile di legno che faceva da attracco per le barche.

Tutto bene fino a quando nel pomeriggio iniziarono ad avvicinarsi le nuvole, non erano semplici nuvole da pioggia, lo capimmo subito. Arrivarono dal mare nere, profonde e minacciose. Il tempo passò dal sole al buio in pochi istanti, e rimase oscurato per un’oretta, aspettavo di fare il mio incontro con il monsone. Hai presente il detto della calma che precede la tempesta? Ecco… Improvvisamente dal nulla si alza un vento fortissimo, è un vento che è dato dall’improvviso cambio di temperatura, quasi che Zeus abbia aperto il portone dell’uragano, riusciamo ad entrare in tenda e un minuto dopo il cielo si apre in una secchiata di acqua che attraversa i teli delle tende come se non ci fossero.

Impossibile anche svuotare gli interni della tenda: l’acqua ci sommerge completamente, inutile anche rimanere dentro, tanto vale uscire fuori a lavarsi finalmente per la prima volta dopo una settimana con l’acqua dolce. Sfruttiamo il monsone per una doccia che ci toglie il sale accumulato sulla pelle ma non i ricordi di un Viaggio straordinario oltre i confini dell’immaginario.

Il nostro campo tendato: lo abbiamo montato nell’unico parte pianeggiante dell’isola, il molo di attracco. Foto © Roberto Gabriele 2007

Leggilo su Acqua & Sapone:

Questo Articolo è stato pubblicato sulla Rivista Acqua & Sapone a luglio 2017, sfoglialo sul sito: https://www.ioacquaesapone.it/leggi/?n=asluglio2017#115

L’articolo impaginato sulla rivista a pagina 115.
Clicca sull’immagine per leggerlo on line.

PARTI CON NOI:

Torneremo nel Borneo con Viaggio Fotografico, scopri qui le prossime date: https://viaggiofotografico.it/product/borneo-malese/

Là fuori c’è la Mongolia

Mai come in Mongolia ho provato un senso di infinito, di vuoto, di deserto, di enormità contrapposto ad una civiltà antica e ad un popolo nomade e civile che abita gli spazi sconfinati.

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In Mongolia l’estate dura da giugno ad agosto, ci sono poi due brevi stagioni intermedie e 8 mesi di inverno durissimo con temperature che scendono a 50 gradi sotto zero, Ulaan Batar arriva a 50 gradi in estate raggiungendo un’escursione termica di 100 gradi tra le massime e le minime che mediamente si registrano ogni anno. Si aggiunga poi che su 2 milioni di persone in tutto in Mongolia il 30% della Popolazione vive da nomade nella steppa nelle caratteristiche Ger, le tende mongole: intere famiglie di allevatori che condividono i pochi metri quadrati della tenda sfidando i fortissimi e gelidi venti che arrivano da nord.

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Queste premesse socioclimatiche mi erano necessarie per chiarire il significato di queste mie fotografie. La cosa che più mi ha colpito viaggiando da queste parti è il senso di confine che c’è tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, tra le case (o le tende) e la natura selvaggia che è subito fuori di esse. Unico filtro fra interno ed esterno è la lastra di vetro di una finestra o una porticina di legno.

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Ho iniziato quindi ad osservare l’esterno visto dall’interno, a guardare quel mondo con gli occhi di chi lo vede tutti i giorni. Ho iniziato ad immedesimarmi nel punto di vista di chi vive contrasti tanto forti che rendono difficilissima qualsiasi forma di comunicazione e socializzazione.

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Nei pochi villaggi ci sono dei piccoli minimarket che vendono i generi di prima necessità senza lasciare alcuno spazio a tutto ciò che è superfluo, non indispensabile, non necessario. Le città più grandi hanno 2-3000 abitanti, un distributore di benzina, un paio di questi minimarket, un ristorantino per i pochi che passano da quelle parti, un Tempio buddista e qualche casa di muratura che si alterna alle ger.

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Dalle finestre di questi locali, così come dalle porte delle ger dei nomadi, si vedono mondi desolati, città vuote o l’immensità del Deserto di Gobi.

Ho voluto fare una analisi sociale di quello che è il mondo che queste persone hanno davanti. Da quelle finestre si vede sempre la stessa piazza, da quelle porticine sempre lo stesso orizzonte. La cosa che mi sconvolge è il fatto che siano pochissime le persone che vivono quegli spazi.

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Un nomade vedrà solo il deserto o la sua famiglia: una manciata di persone solitarie. Chi sta nel villaggio vedrà comunque sempre le stesse facce per tutta la vita. Da quelle parti è difficile trovare una propria identità, difficilissimo lasciare spazio alla creatività, alla socialità, allo scambio sociale e culturale tra le persone.

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Nessuna speranza di cambiamento per nessuno. La loro vita è segnata dal clima, dalla natura che non lascia spazio ai sogni.

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