Tunisia

C’è magia nel deserto, Tunisia

tunisiaIn volo verso la Tunisia avevo un unico desiderio: spingermi oltre il già visto e smettere di scattare normali foto di bei luoghi, per iniziare a fare belle foto di luoghi normali. Ma subito mi sono scontrata con una difficoltà. Cos’era davvero normale in un mondo così lontano e così diverso dal mio, dove abitudini, tradizioni, cultura e storia apparivano ancora non contaminate dalla globalizzazione? 

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Poi mi sono semplicemente lasciata catturare dal fascino senza tempo di quel cono di terra che si snoda tra la Libia e l’Algeria.
Laggiù la luce calda e intensa trasmette un senso assoluto di solitudine e serenità che trasporta in una dimensione vibrante di energia.
E’ come una forza antica e potente: la stessa che permea le vaste distese di sabbia e aridità.

Il deserto della Tunisia

L’effetto di quella luce è in ogni piega dei volti di chi nel deserto vive e lavora, fabbricando mattoni, pascolando il bestiame, dormendo in capanne fatiscenti. Ho incontrato famiglie di nomadi e seminomadi e nei loro tratti scavati dalla fatica ho scorto il peso di una vita durissima. Su quella pelle, segnata da solchi profondi, sono impressi i segni del sole cocente, della sabbia e del vento.

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Le guance scavate e gli zigomi sporgenti riflettono la fatica e la durezza di una vita lungamente messa alla prova dalla penuria di acqua, di cibo e di riposo. Eppure quei volti raccontano storie di coraggio, saggezza e resilienza da cui traspare una bellezza autentica, plasmata dalla forza interiore di chi lotta quotidianamente per sopravvivere. Diverso, ma forse ancora più graffiante, è lo sguardo dei bambini, sulle prime un po’ smarrito davanti alla fotocamera ma, subito dopo, risoluto e penetrante. Faticavo a immaginare che quella vita all’insegna della povertà, così lontana dagli agi e dalle comodità del mondo occidentale, avrebbe continuato a fluire implacabile anche dopo il mio passaggio troppo rapido perché potessi coglierne pienamente il peso e il significato.

I berberi

berberi

Diverse, invece, sono state le sensazioni scaturite dall’incontro con le popolazioni berbere e le loro tradizioni millenarie di persone accoglienti, semplici, assai povere. Eppure non è raro scorgere i loro visi sorridenti che fanno capolino dalle abitazioni dei villaggi in cui abitano. A Matmata, Toujane e Zammour le abitazioni troglodite sono scavate nel terreno argilloso che mi ha inghiottita quando, con un po’ di riluttanza, ho dovuto dormirvi. Non nascondo di essere stata spaventata dal quel contatto diretto con la natura che, invece, mi ha offerto un riparo confortevole in cui gli iniziali timori si sono sciolti nella dolcezza inaspettata della sua protezione, così contrastante con quella forza primordiale proveniente dall’energia selvaggia che si sprigiona in quell’ambiente apparentemente ostile e misterioso, soprattutto per chi non lo conosce. Ma è proprio laggiù che può avvenire un autentico richiamo alla nostra connessione con la natura, alla nostra capacità di adattamento e alla nostra ricerca di significato in un mondo complesso: è un luogo dove, come per magia, forza e fragilità sembrano fondersi in una danza eterna. 

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Foto e parole di Roberta Vitali

Questo racconto ha partecipato al  Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.

Steel Life

India

Steel Life

Siamo nel nord dell’India. Il confine pakistano che si affaccia al Mar Arabico.

Entrare in queste fabbriche non è facile, attraverso alcune persone ben inserite nel contesto sociale, amici di amici che ci procurano un permesso per visitare questi enormi capannoni dal caldo spaventoso. Veniamo abbracciati da campi di acciaio ancora fumante, rumori assordanti e un formicaio di persone, tutto annerito dalla fuliggine del grande forno dall’aspetto vulcanico.

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I camion che incessantemente scaricano rottami di grandi dimensioni e caricano il metallo rinnovato uscito dalle ceneri come una fenice nera. All’inizio fotografare e spostarsi qui è veramente difficile, la paura di farsi male o di essere un pericolo per questi instancabili lavoratori è costante. Dopo un po’ ci si abitua e si intuisce dove mettere i piedi, quando abbassare velocemente la testa, quando non respirare e quando proteggere gli occhi.

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Queste foto raccontano del mondo delle fonderie di acciaio e della vita lavorativa di uomini che con il riciclo dell’acciaio cercano di sopravvivere. La vita qui per loro si svolge in modo circolare, la mattina gli operai si alzano presto, per andare al lavoro e c’è chi a rotazione prepara i pasti per gli altri.

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Chi sta alla fornace, chi al deposito di carbone. Quando iniziano i turni gli uomini sono impegnati a demolire vecchi relitti di navi provenienti da tutto il mondo: tagliano il metallo, lo lavorano, lo fondono e lo trasformano di nuovo.

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Solo il metallo qui cambia vita, purtroppo non accade a questi uomini, loro sono sempre qui, tutti i giorni finché il fisico regge, fino a sera, fino a quando la sirena suona l’arrivo del tramonto.

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Una catena umana fatta di fatica, sudore e duro lavoro. Molti occhi curiosi e sorrisi amichevoli ma amari.

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Foto e parole di Nicola Ducati

Racconto pubblicato sul prestigioso volume di  Travel Tales Award 2023. Presentazione del libro: Milano durante la nostra Convention di marzo 2024.

Mare Fecunditatis

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Mare Fecunditatis, ovvero il deserto esistenziale

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“Sono tornato là,

Dove non ero mai stato.

Nulla, da come non fu, è mutato.”

Giorgio Caproni

Mare

Vita e morte mi appaiono come un’unica funzione che si annulla nel proprio principiare, quasi un movimento fermo, un atto mancato nella caduta del tempo dove le forme dell’esistenza trasmutano nel silenzio, si dissolvono i contorni della vita e persistono, distratti, i residui della memoria nei lacerti della creazione umana.

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Impartire bordi alle cose, soffrirne il peso per poi arrendersi alla cieca trasformazione: fremiti del nulla nella vastità dello spirito.

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… Ed è in questa marea dell’anima che la morte mi par essere sempre più sorella della vita.

Foto e parole di Tina Salipante 

Questo racconto è stato selezionato e pubblicato sul libro di  Travel Tales Award 2023. Clicca su QUESTO LINK per partecipare anche tu alla nuova edizione.

C’era una volta il mare

C’ERA UNA VOLTA IL MARE
Il lago di Aral

Negli ultimi decenni si è consumato un enorme disastro ambientale, quasi sconosciuto, ma forse il più grave; grave perché ampiamente previsto fin dal 1964 da studi appositamente commissionati e ciò nonostante scientemente perseguito.

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L’Aral era un grande lago salato, quasi tre volte la Sicilia. Tanto grande da essere chiamato “mare”, il Mar d’atal. Ed era molto pescoso.

Moynak, in Uzbekistan,  era un tempo una ridente cittadina sulle rive del Mar d’Aral. Oggi non ride più, perché l’Aral non c’è più. Viveva grazie alla pesca e alla lavorazione del pescato, inscatolato sul posto in una fabbrica i cui prodotti rifornivano tutta l’URSS, di cui faceva parte l’Uzbekistan.

Aral

Ma nel secolo scorso l’URSS volle sviluppare l’agricoltura in zone semidesertiche, attingendo le acque d’irrigazione dagli immissari dell’Aral. Si sapeva che l’Aral sarebbe morto, ma si pensava di sfruttare anche le nuove terre emerse per questa coltivazione.

Aral

Le acque cominciarono a ritrarsi dal 1960. Nel 2007 il 90% dell’Aral era sparito; la salinità dell’acqua rimasta era decuplicata, rendendo impossibile la vita. La flotta di pescherecci fu abbandonata ad arrugginire sul fondo prosciugato del lago.

La lavorazione del pesce però continuò inscatolando il pescato del Mar Baltico, trasportato in Uzbekistan da migliaia di chilometri, e poi ridistribuito a migliaia di chilometri di distanza. Ma la dissoluzione dell’URSS rese insostenibile questo sistema e la fabbrica fu abbandonata. Lasciando gli abitanti senza risorse: anche l’agricoltura è impossibile, perché le acque dell’Aral, ritirandosi hanno lasciato sul terreno un concentrato di sale, fertilizzanti e pesticidi, con l’aggiunta delle scorie tossiche gettate in acqua da una base militare sovietica, situata in un isola in mezzo all’Aral.

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Quando il clima diventa caldo e secco, il che accade molto spesso, il terreno diviene polveroso; il vento porta questa polvere tossica sulla città e i suoi abitanti, ma arriva anche a centinaia di chilometri.

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L’unica cosa che cresce sono dei miseri sterpi, buoni solo per le capre e le pecore. Per il resto si vedono uomini e bambini tra le macerie di quella che era la fabbrica del pesce, alla ricerca di rottami ferrosi da vendere per pochi spicci. Non c’è acqua corrente, non ci sono fognature. I bambini che giocano per le strade polverose, sorridendo felici come tutti i bambini, sono l’unica nota di speranza.

lago aral

Si va in Uzbekistan per vedere la favolosa Samarcanda e le antiche città che costellavano la via della seta. Ma visitare l’Aral, significa visitare qualcosa che non c’è, un non-luogo, un non-mare, pieno di non-acqua e di non-vita. Una distesa di chilometri di conchiglie bianche nel deserto. Non sono le conchiglie fossili che si trovano anche in montagna: sono conchiglie che solo pochi anni fa ospitavano un essere vivente e ora sono li a tappezzare quello che era un fondale.

desertoIntanto le navi fantasma solcano il deserto, guidate da un faro spento che sorge dove non c’è più la costa.

Foto e parole di Roberto Manfredi

Questo racconto ha partecipato al  Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.

La mostra presso OTTO Gallery, Roma

La storia di Roberto Manfredi qui pubblicata è esposta a Roma fino al 21 febbraio 2024 presso la OTTO Gallery in Piazza Mazzini 27, scala A piano 4.

Quelle che seguono qui sono le foto dell’allestimento:

Aral

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