Mai come in Mongolia ho provato un senso di infinito, di vuoto, di deserto, di enormità contrapposto ad una civiltà antica e ad un popolo nomade e civile che abita gli spazi sconfinati.
In Mongolia l’estate dura da giugno ad agosto, ci sono poi due brevi stagioni intermedie e 8 mesi di inverno durissimo con temperature che scendono a 50 gradi sotto zero, Ulaan Batar arriva a 50 gradi in estate raggiungendo un’escursione termica di 100 gradi tra le massime e le minime che mediamente si registrano ogni anno. Si aggiunga poi che su 2 milioni di persone in tutto in Mongolia il 30% della Popolazione vive da nomade nella steppa nelle caratteristiche Ger, le tende mongole: intere famiglie di allevatori che condividono i pochi metri quadrati della tenda sfidando i fortissimi e gelidi venti che arrivano da nord.
Queste premesse socioclimatiche mi erano necessarie per chiarire il significato di queste mie fotografie. La cosa che più mi ha colpito viaggiando da queste parti è il senso di confine che c’è tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, tra le case (o le tende) e la natura selvaggia che è subito fuori di esse. Unico filtro fra interno ed esterno è la lastra di vetro di una finestra o una porticina di legno.
Ho iniziato quindi ad osservare l’esterno visto dall’interno, a guardare quel mondo con gli occhi di chi lo vede tutti i giorni. Ho iniziato ad immedesimarmi nel punto di vista di chi vive contrasti tanto forti che rendono difficilissima qualsiasi forma di comunicazione e socializzazione.
Nei pochi villaggi ci sono dei piccoli minimarket che vendono i generi di prima necessità senza lasciare alcuno spazio a tutto ciò che è superfluo, non indispensabile, non necessario. Le città più grandi hanno 2-3000 abitanti, un distributore di benzina, un paio di questi minimarket, un ristorantino per i pochi che passano da quelle parti, un Tempio buddista e qualche casa di muratura che si alterna alle ger.
Dalle finestre di questi locali, così come dalle porte delle ger dei nomadi, si vedono mondi desolati, città vuote o l’immensità del Deserto di Gobi.
Ho voluto fare una analisi sociale di quello che è il mondo che queste persone hanno davanti. Da quelle finestre si vede sempre la stessa piazza, da quelle porticine sempre lo stesso orizzonte. La cosa che mi sconvolge è il fatto che siano pochissime le persone che vivono quegli spazi.
Un nomade vedrà solo il deserto o la sua famiglia: una manciata di persone solitarie. Chi sta nel villaggio vedrà comunque sempre le stesse facce per tutta la vita. Da quelle parti è difficile trovare una propria identità, difficilissimo lasciare spazio alla creatività, alla socialità, allo scambio sociale e culturale tra le persone.
Nessuna speranza di cambiamento per nessuno. La loro vita è segnata dal clima, dalla natura che non lascia spazio ai sogni.