Il popolo XINGU è un gruppo di 16 tribù amerinde che parlano quattro diversi gruppi linguistici, che vivono nella parte superiore del Rio Xingu, un affluente del Rio delle Amazzoni, nello stato federale del Mato Grosso.
Tuttavia, la sopravvivenza degli Xingus è continuamente minacciata dalla deforestazione e dall’impatto sul fiume Xingu, considerato da diverse tribù indigene la loro casa e quella di specie uniche. Vivono in armonia con la terra lungo il fiume, facendo il bagno nelle lagune e guadagnandosi da vivere con la pesca.
Gli Xingus che vivono in questa regione hanno costumi e sistemi sociali completamente simili, nonostante abbiano lingue diverse. Feste e cerimonie comuni li uniscono, come il Kuarup e il tradizionale evento di wrestling, huka-huka.
Usi e costumi tradizionali
Il Kuarup è la più grande cerimonia intercomunitaria degli Xinguaniani. Si tiene nell’arco di un giorno e mezzo, celebra i funerali secondari e riunisce i morti della regione e i vivi quando entrano nell’età adulta. Le ragazze pubescenti vengono presentate ai villaggi. Dopo la prima mestruazione, le ragazze trascorrono un anno confinate nella loro OKA, la casa della comunità, ricevendo lezioni sul comportamento e le azioni femminili.
Dopo quest’anno, durante il Kuarup, accompagnati da suonatori di flauto e vestiti con collane di perle di roccia, una fascia di lana e altro ancora alle punte dei capelli, vengono presentati a tutto il villaggio.
Al termine della cerimonia, il rito finale di passaggio all’età adulta, la madre taglierà la frangia di capelli che è rimasta intatta per tutto questo tempo. Questa cerimonia non significa che queste giovani ragazze siano destinate a sposarsi immediatamente. Celebra la vita che queste giovani donne sono ora pronte a dare e celebra il cerchio della vita associato alla cerimonia funebre di Kuarup.
L’huka-huka è un’arte marziale tradizionale praticata dagli Xingus. Le piume, la carcassa del cassique dal culo giallo e la pelle di giaguaro sono segni di distinzione che i migliori lottatori possono indossare alla cintura.
Il wrestling richiede anni di preparazione fisica e meditazione per gli uomini a partire dai quattordici anni. I lottatori sono dipinti di rosso e nero in omaggio al giaguaro. Poco prima del combattimento, i protagonisti vengono ricoperti di olio di pequi.
Reportage fotografico che racconta la storia della nostra immersione con una delle tribù, i Mehinako.
Appuntamento martedì 19 settembre 2023 per un incontro con gli Autori della mostra fotografica “LEMKI. Ritorni senza partenze” di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele.
La Mostra:
Siamo lieti di presentarvi la straordinaria mostra fotografica “LEMKI. Ritorni senza partenze” che per la prima volta in assoluto dopo 13 anni di vita insieme vede uniti come Autori i due fotografi Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele. Questo evento affascinante e coinvolgente rappresenta un’immersione nello sconosciuto mondo dei Lemki, una comunità etnica con una storia ricca e complessa.
I Lemki sono un popolo di origine slava, strettamente legato alle terre montuose dell’Europa orientale, nei Carpazi al confine tra Polonia, Ucraina e Slovacchia. La loro storia, che affonda le radici in tempi antichi, è stata segnata da una forte connessione con la natura e da una vita basata sull’agricoltura e la pastorizia. Attraverso un insieme di straordinarie fotografie, questa mostra offre uno sguardo intimo nella vita quotidiana e nelle tradizioni dei Lemki.
Le immagini esposte catturano la bellezza dei paesaggi mozzafiato, le abitazioni tradizionali e i momenti di vita di questa comunità. Dai colori vividi delle stagioni che cambiano alle espressioni profonde dei volti dei Lemki, ogni fotografia trasmette emozioni autentiche e racconta una storia unica.
Attraverso le loro sensibili lenti fotografiche, Ottolenghi e Gabriele ci conducono in un Viaggio Fotografico emozionante attraverso i luoghi di origine dei Lemki, catturando l’anima e la bellezza di questa cultura. Le immagini sono testimonianze visive delle radici profonde che legano questa comunità alle sue terre, alle sue tradizioni e alla sua gente. In mostra le storie di vita di alcuni membri della comunità attraverso le quali comprendere le loro sfide e aspirazioni, e di riflettere sulla relazione tra l’uomo e la natura.
Il libro:
Durante l’inaugurazione della mostra, ci sarà anche la presentazione del libro di poesie “Ritorni / Powroty / Bepmaня” degli stessi autori. Silvia Bruni e Olena Duć-Fajfer hanno sapientemente tradotto e curato i testi in tre lingue. Questo libro rappresenta un’opera letteraria di grande valore, che accompagna idealmente le fotografie esposte e ci offre attraverso la poesia un’ulteriore prospettiva sulla vita dei Lemki e sul loro rapporto con la loro terra d’origine.
“Ritorni / Powroty / Bepmaня” ci invita a immergerci “nella storia e nelle storie” di questa comunità, ad approfondire la loro cultura, le loro tradizioni e la loro lotta per preservare la propria identità. Grazie alle testimonianze scritte e alle interpretazioni dei curatori, possiamo apprezzare in modo più completo e appassionato il contesto in cui sono nate queste fotografie straordinarie.
Vi invitiamo a partecipare a questa mostra unica, in cui l’arte della fotografia si intreccia con la narrativa e l’esplorazione culturale. “LEMKI. Ritorni senza partenze” ci offre una prospettiva intima e profonda su una comunità vibrante e resiliente, ricordandoci l’importanza di radici e appartenenza.
Siete pronti per un viaggio affascinante e coinvolgente nelle profonde radici di una comunità rurale? Allora non mancate l’inaugurazione, un’occasione imperdibile per scoprire per la prima volta l’opera di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele, nonché per immergervi nella ricchezza culturale dei Lemki attraverso il libro “Ritorni / Powroty / Bepmaня”. Vi aspettiamo numerosi per questa straordinaria esperienza che celebra la potenza dell’arte e della cultura.
Simona Ottolenghi:
Roma, 1972. Architetto, Fotografa, Viaggiatrice, imprenditrice. Simona Ottolenghi ha fatto della creatività il suo stile di vita, dell’innovazione e della qualità la sua bandiera. Ha iniziato a viaggiare in giovane età scoprendo fin da subito la fotografia come mezzo eccellente di comunicazione e di espressione e in oltre 20 anni non ha mai smesso di studiarla e di approfondire le sue conoscenze. Viaggiatrice professionista organizza e accompagna in tutto il mondo gruppi di Fotografi con Viaggio Fotografico di cui è ideatrice insieme a Roberto Gabriele. Ha esposto in tantissimi eventi collettivi presso Chiostro del Bramante, Officine Fotografiche, Lanificio Roma, Enoteca Cavour 313, Istituto Italiano per le Scienze Umane-Napoli.E’ la curatrice dello spazio espositivo di OTTO Gallery, una importante realtà culturale dedicata alla fotografia ricavata all’interno del B&B OTTO Rooms del quale è la proprietaria e dove si tengono workshop, eventi e mostre tutti dedicati alla fotografia.
Roberto Gabriele:
Caserta, 1968. Fotografo a 360 gradi. Si vanta di non aver mai lavorato nella sua vita e di aver solo fatto fotografie che qualcuno era disposto a pagare. Ha avuto per 25 anni uno studio fotografico a Latina nel quale faceva still life per Aziende e lavori per privati, poi dal 2013 ha chiuso tutto e si è trasferito a Roma per iniziare la grande sfida di Viaggio Fotografico insieme a Simona Ottolenghi. Viaggiatore anche lui, Tour Leader instancabile, si diverte a girare il mondo con una valigia in mano e lo zaino fotografico sulle spalle. Ha collaborato con la rivista Acqua & Sapone dal primo all’ultimo numero per la quale scriveva articoli di viaggio. Una serie infinita di libri tra cui spiccano Immaginario, Carnevale di sangue, Genna – il Natale Copto e tanti altri. Ha esposto in tantissime mostre fotografiche personali e collettive come Presenze, Sale di Posa, Agora Fitness...
CORSO POLONIA, l’EVENTO CHE CI OSPITA:
La mostra e la presentazione del libro fanno parte della serata di chiusura della XX edizione del festival della cultura polacca CORSO POLONIA, in un incontro presso la sede dell’Istituto Polacco in Palazzo Blumenstihl che unirà poesia, musica e fotografia e sarà interamente dedicata ai Lemki in un evento mai realizzato prima a Roma. Ecco i dettagli che puoi trovare anche sul sito: https://instytutpolski.pl/roma/2023/06/07/lemki-ritorni/
presentazione dell’antologia di poesia lemka: Ritorni / Powroty / Bepmaʜя con Olena Duć-Fajfer e Silvia Bruni
inaugurazione della mostra fotografica: Lemki. Ritorni senza partenze di Simona Ottolenghi e Roberto Gabriele
ingresso libero fino a esaurimento posti
DOVE E QUANDO:
INCONTRO CON GLI AUTORI: 19 settembre 2023 – ORE 19.00
Istituto Polacco di Roma Via Vittoria Colonna 1, Roma: a due passi da Piazza Cavour (Parcheggio sotterraneo) e dall’Ara Pacis. Per arrivare con i mezzi c’è la fermata proprio davanti all’Istituto e transitano i seguenti bus: 70-81-87-100-280-492-990-N70-N913 ecco il link: https://goo.gl/maps/7W31jp19gsDQdt5p7
INAUGURAZIONE: VENERDÌ 23 GIUGNO 2023 – ORE 19.00
Che ne SAHARA’ di noi
Da Travel Tales Award 2021
Questo racconto di viaggio è stato selezionato come Finalista tra i candidati di Travel Tales Award 2021. L’Autore Mario Cucchi ci parla del Popolo Saharawi che vive nel deserto del Sahara in una terra indefinita tra Marocco e Algeria. Una situazione di estrema povertà per una minoranza etnica che non viene accettata da nessuno ed è costretta a vivere lontana da tutti in territori disseminati di mine. Leggi questo articolo e infine scrivi le tue impressioni qui in fondo all’articolo.
Che ne sarà del popolo Saharawi costretto, ad un forzato esilio in una delle zone più inospitali del pianeta?
•Un muro lungo più di 2.700 chilometri nel deserto africano.
E’ la storia dell’ultima colonia africana, quella del Sahara occidentale, conosciuta come ex Sahara spagnolo e ora occupata dal Marocco.
Sarà la gioia di poter tornare nella loro terra che leggiamo nella speranza dei bambini, oppure continuerà la totale indifferenza della comunità internazionale che vediamo nella rassegnazione degli anziani? Il rischio è che la giustificata rabbia dei giovani porti al suicidio di una nuova guerra.
“La parte più a nord dell’America del sud” questo è il singolare primato che può vantare la penisola della Guajira, una terra praticamente sconosciuta al turismo di massa che è stata meta di una delle mie originali scorribande in giro per il mondo.
Riconosco che non ne avevo mai sentito parlare, me la nominò il mio amico Dario, un Colombiano che mi raccontava di questo promontorio desertico che si protende verso i Caraibi suddiviso o forse sarebbe meglio dire condiviso tra Venezuela e Colombia. Le sue storie mi incuriosirono a tal punto che decisi di andare a scoprire cosa ci fosse da quelle parti.
Andammo a fine novembre, quando il clima è più mite, il caldo non è soffocante e le piogge sono virtualmente assenti. Il fattore meteo va sicuramente tenuto presente quando si va da queste parti: ci troviamo in piena fascia equatoriale, poco al di sotto del Tropico del Cancro.
Ci troviamo in piena fascia equatoriale, poco al di sotto del Tropico del Cancro.
Il viaggio è lungo e faticoso anche se fatto in aereo: innanzitutto ci vuole almeno uno scalo a Madrid o Lisbona, poi ci vogliono una quindicina di ore di volo dall’Italia. Il ritorno è peggio perchè di ore di volo ce ne vogliono 27 dato che la TAP fa scalo a Panama, l’aereo viene svuotato e i passeggeri imbarcati di nuovo.
Finalmente a Bogotà: 2640 metri di altezza sul livello del mare. Qui vista la posizione, fa freddo e piove, tipica giornata da fine autunno. L’aria è rarefatta vista l’altitudine, salire ulteriormente fino alla montagna del Monserrate con il suo Santuario El Senor Caido a 3150 metri di altezza. Ci arriva la funivia ma i pochi metri che ancora bisogna fare fino alla vetta metteranno alla prova quelli meno allenati a livello respiratorio.
Bogotà Ha un piccolo centro storico in stile coloniale, con casette basse coloratissime che ricordano moltissimo quelle di Trinidad nell’Isola di Cuba. Qui è bello passeggiare tra gli studenti universitari che abitano nel quartiere è lo rendono un luogo stimolante e attivo. Per il resto la città non vanta altre bellezze degne di nota, se non il Museo dell’Oro che è un’esperienza mozzafiato per la ricchezza e l’abbondanza dei reperti che risalgono all’epoca precolombiana.
Dopo la doverosa visita alla Capitale, il giorno dopo ripartiamo con un volo interno alla volta, finalmente, della Guajira. Appena scesi veniamo letteralmente proiettati in un’altra realtà, lontana anni luce dal nostro mondo e anche da quello visto il giorno prima nella grande città.
Atterriamo a Riohacha, un piccolissimo aeroporto di quelli tipici dei Paesi tropicali: le palme, un camioncino dei Vigili del Fuoco arrugginito e la scaletta per scendere direttamente sulla pista e proseguire a piedi fino all’aerostazione che è un grosso salone con porte e finestre aperte perchè non c’è aria condizionata.
Il volo viene operato da Avianca, la Compagnia di Bandiera colombiana che può vantarsi di essere la seconda compagnia aerea al mondo per data di fondazione preceduta solo dalla ben più nota KLM.
La Candelaria è uno dei quartieri più interessanti di Bogotà
la Compagnia di Bandiera colombiana che può vantarsi di essere la seconda compagnia aerea al mondo per data di fondazione
Siamo nel bel mezzo della Guajira, questa doveva essere la meta finale del viaggio con la motocicletta che fecero Che Guevara con il suo amico Alberto Granado, in realtà non arrivarono a destinazione: ma la mia meta aveva affascinato anche loro.
Da queste parti ancora si può provare l’ebbrezza di sentirsi “esploratori” o “viaggiatori” se preferite. Spingersi da queste parti significa essere davvero molto curiosi di sapere “cosa c’è oltre” oltre le solite mete turistiche, dove finiscono le strade asfaltate e inizia la vera avventura. E l’avventura non tarda ad arrivare: ci aspetta Emilio, il nostro autista: un omone gigantesco, un indio portato al sorriso e alla battuta con un tono di voce assordante, parla poco lo spagnolo, più che altro conosce la sua lingua, ma con le sue 20 parole riesce a farsi capire senza problemi su molti argomenti. Saliamo sul suo bel fuoristrada 4X4 a passo lungo ed eccoci ad iniziare finalmente il clou del nostro itinerario.
Nel pomeriggio ci fermiamo in un villaggio di capanne di fango e paglia, qui è la norma, sembra di stare in Africa. Le donne sono poco abituate al turismo, ci salutano con una certa timidezza e non hanno nulla da venderci, siamo noi stessi a chiedere loro se vogliano esibirsi in canti o danze tradizionali per condividere con noi una parte della loro cultura. Ben felici della nostra richiesta, le donne convocano un anziano percussionista che con il tamburo accompagna le loro danze che ricordano i movimenti che fanno i pennuti da cortile nei loro corteggiamenti. Questo è il nostro primo incontro con i Wayuu che vedremo più avanti.
Ma è proprio questo suo fascino selvaggio che ci piace trovare
Proseguiamo fino a Cabo De La Vela un villaggio sul mare in una posizione da sogno, incredibile, con un mare verde smeraldo e le coste sferzate da un vento fresco e gagliardo. Anche qui non esiste il turismo in nessuna forma. Il lungomare è solo il “giardino sul retro” delle capanne costruite sulle dune. Nel villaggio non c’è assolutamente nulla nè da vedere, nè da fare, nè da comprare. Ma è proprio questo suo fascino selvaggio che ci piace trovare in questo piccolo avamposto nel nulla sospeso tra il mare e il deserto. Non esiste corrente elettrica, non esiste segnale telefonico per i cellulari.
C’è giusto il tempo di fare un bagno nell’Oceano al tramonto che arriva la sera: siamo in fascia equatoriale, per cui qui durante tutto l’anno il sole tramonta intorno alle 18, il che vuol dire che alle 19 abbiamo già finito di cenare e alle 21 si spegne il gruppo elettrogeno e tutto il paese resta nel buio più totale… Ne approfittiamo per fare qualche foto ad una notte stellata incredibile che non dimenticheremo facilmente.
Parlavo di avventura e il momento di andare a dormire ci riserva un’altra bella sorpresa: non ci sono le camere, non ci sono muri, nè letti! Si dorme tutti insieme sotto una tettoia di paglia ciascuno sul suo chinchorro (da queste parti le amache si chiamano così), ma ci vuole l’esperienza del nostro autista Emilio che ci spiega la tecnica per dormire su questi inconsueti giacigli: basta mettersi a 45° rispetto all’asse dell’amaca: in pratica è necessario dormire con le gambe appese all’esterno del supporto in modo da farlo rimanere un pò più aperto. Solo i più fortunati riusciranno a dormire un paio di ore a notte…
Per fare uno spostamento di soli 200 km ci vogliono 10 ore di “Colombia Massage”
La Guajira è un vero deserto in mezzo al mare: qui ci sono altissime dune sabbiose che vanno a finire direttamente nell’oceano, ci si sposta solo in fuoristrada 4×4 perchè non ci sono strade: la velocità media che si può tenere sulle piste è di 20 chilometri all’ora, il che vuol dire che per fare uno spostamento di soli 200 km ci vogliono 10 ore di “Colombia Massage”, una giornata intera di sballottamenti tra rocce e sentieri, tra guadi e saline.
Da qui partivano i corrieri del mare, i trafficanti di cocaina del cartello di Medellin che attraversavano il Mar dei Caraibi per fare tappa a Cuba e poi portare la droga nel sud degli USA. Molte delle piste segnate da queste parti e ancora oggi percorribili, sono state tracciate dagli sgherri al soldo di Pablo Escobar e non meraviglia più di tanto il fatto che la penisola sia ufficialmente divisa tra Colombia e Venezuela, ma andando da quelle parti ci si rende conto che tali confini siano piuttosto labili e di fatti i Wayuu sono un Popolo apolide che si sposta più o meno liberamente a seconda delle necessità tra questi due Paesi.
Di fatto i confini tra i due Paesi non vengono controllati: sono pochi e segnati male, ne segue una gran tolleranza per le popolazioni locali che sono piuttosto libere di passare da una parte all’altra nell’indifferenza delle Autorità preposte ai controlli di frontiera.
Altra meta da non perdere in Guajira sono laghi e insenature di mare che ospitano migliaia di Fenicotteri rosa pronti a volare via appena l’uomo si avvicini nei paraggi. Per vedere questo spettacolo della natura suggerisco di utilizzare una piccola barca a vela con la quale avvicinarsi senza disturbare gli uccelli e di tenere anche montato il teleobiettivo stando pronti per riprenderli quando immancabilmente si alzeranno in volo: uno spettacolo meraviglioso contraddistinto dal particolare verso gracchiante dei fenicotteri impauriti!
Ma la meta più estrema del nostro giro nonchè il termine del nostro itinerario è Cabo Gallinas: la punta famosa per essere quella più a nord di tutta l’America del Sud! Qui c’è un faro per i naviganti, una meta imperdibile per soddisfare le vanità di ciascuno di noi con un classico SELFIE!
I Wayuu oltre ad essere pastori e allevatori, sono anche abilissimi nuotatori e quindi pescatori, qui a cena puoi mangiare 4 aragoste a persona spendendo solo 18-20 euro… Il nostro viaggio fuori strada continua fino alle ventosissime Dune di Taroa molto note in zona proprio per questo motivo: il vento praticamente costante tutti i giorni dell’anno, può essere a volte così forte da far cadere una persona con le sue raffiche.
I treni che portano il carbone dalle antiche miniere tutt’oggi funzionanti, fino ai porti
La Guajira è una zona che oltre alle sue bellezze porta i segni anche dello sfruttamento del territorio: ci sono delle saline enormi come quella di Manaure: qui ci sono ettari ed ettari di terra in cui viene lasciata evaporare l’acqua del mare per ottenere cloruro di sodio utilissimo per l’alimentazione umana.
L’altra fonte di reddito che viene da questa natura aspra e avara, sono i treni che portano il carbone dalle antiche miniere tutt’oggi funzionanti, fino ai porti o ai consumatori finali: vediamo passare tanti convogli, sono lunghissimi con la tipica motrice a gasolio si spostano lenti portando ogni tanto a bordo anche qualche clandestino che non aveva altro modo per spostarsi.
Il nostro viaggio termina con il lungo e lento rientro verso il nostro mondo occidentale, abbiamo vissuto giornate intense di scoperta di un Paese sconosciuto ai più. Ci resterà il ricordo di una esperienza di vita rude e a contatto con una natura gagliarda in grado di fare del male a chi la sfidi, e al contempo innocua con chi la teme. Ricorderemo il silenzio profondo che pervade quei territori sconfinati e disabitati divisi tra l’oceano e il deserto.
Mai come in Mongolia ho provato un senso di infinito, di vuoto, di deserto, di enormità contrapposto ad una civiltà antica e ad un popolo nomade e civile che abita gli spazi sconfinati.
In Mongolia l’estate dura da giugno ad agosto, ci sono poi due brevi stagioni intermedie e 8 mesi di inverno durissimo con temperature che scendono a 50 gradi sotto zero, Ulaan Batar arriva a 50 gradi in estate raggiungendo un’escursione termica di 100 gradi tra le massime e le minime che mediamente si registrano ogni anno. Si aggiunga poi che su 2 milioni di persone in tutto in Mongolia il 30% della Popolazione vive da nomade nella steppa nelle caratteristiche Ger, le tende mongole: intere famiglie di allevatori che condividono i pochi metri quadrati della tenda sfidando i fortissimi e gelidi venti che arrivano da nord.
Queste premesse socioclimatiche mi erano necessarie per chiarire il significato di queste mie fotografie. La cosa che più mi ha colpito viaggiando da queste parti è il senso di confine che c’è tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, tra le case (o le tende) e la natura selvaggia che è subito fuori di esse. Unico filtro fra interno ed esterno è la lastra di vetro di una finestra o una porticina di legno.
Ho iniziato quindi ad osservare l’esterno visto dall’interno, a guardare quel mondo con gli occhi di chi lo vede tutti i giorni. Ho iniziato ad immedesimarmi nel punto di vista di chi vive contrasti tanto forti che rendono difficilissima qualsiasi forma di comunicazione e socializzazione.
Nei pochi villaggi ci sono dei piccoli minimarket che vendono i generi di prima necessità senza lasciare alcuno spazio a tutto ciò che è superfluo, non indispensabile, non necessario. Le città più grandi hanno 2-3000 abitanti, un distributore di benzina, un paio di questi minimarket, un ristorantino per i pochi che passano da quelle parti, un Tempio buddista e qualche casa di muratura che si alterna alle ger.
Dalle finestre di questi locali, così come dalle porte delle ger dei nomadi, si vedono mondi desolati, città vuote o l’immensità del Deserto di Gobi.
Ho voluto fare una analisi sociale di quello che è il mondo che queste persone hanno davanti. Da quelle finestre si vede sempre la stessa piazza, da quelle porticine sempre lo stesso orizzonte. La cosa che mi sconvolge è il fatto che siano pochissime le persone che vivono quegli spazi.
Un nomade vedrà solo il deserto o la sua famiglia: una manciata di persone solitarie. Chi sta nel villaggio vedrà comunque sempre le stesse facce per tutta la vita. Da quelle parti è difficile trovare una propria identità, difficilissimo lasciare spazio alla creatività, alla socialità, allo scambio sociale e culturale tra le persone.
Nessuna speranza di cambiamento per nessuno. La loro vita è segnata dal clima, dalla natura che non lascia spazio ai sogni.
Colombia – una Terra Lontana
La pioggia scende prepotente, le prime foglie si staccano dai rami degli alberi con fare sconsolato, la gente si rifugia nelle proprie case e pensa già al cambio dei vestiti negli armadi. È così che la mia mente vola ad altre latitudini, a quella terra tanto martoriata, turbolenta e poco definita nell’immaginario comune, a quella terra sorridente e magica nei miei pensieri. La Colombia!
Parlare della Colombia non è facile, non si sa mai da che parte cominciare… Di solito la conversazione inizia col dover in qualche modo rispondere ad una battuta sulla cocaina. Facciamo che di questo vi parlo in un’altra occasione, oggi vi racconto un’altra storia. Vi parlo, ad esempio, di quello che oggi è considerato il miglior caffè del mondo. Turchi, libanesi e siriani portarono la pregiata qualitá arabica nel XVII secolo trovando condizioni climatiche perfette per la coltivazione. I paesaggi ed il contesto culturale delle verdi vallate del “Triangolo del caffè” sono riconosciuti come patrimoni dell’umanitá dall’UNESCO.
Immaginate la Colombia come un tessuto cucito nei secoli col profumo e le influenze di tante razze e culture che dando vita ad un mosaico multicolore dal fascino indigeno, europeo, africano, medio-orientale. La Colombia è un paese con una biodiversità incredibile e di rara bellezza ma la sua vera ricchezza sta in quel particolare “melting pot” che si è venuto a creare nel corso dei secoli. Lo si può scorgere nelle architetture coloniali deliziosamente conservate, nell’artigianato, nella gastronomia, nelle molteplici espressioni musicali e soprattutto nei tratti dominanti e in quelli meno evidenti dei visi della gente.
La Colombia è un paese in cui un viaggio ne contiene molti altri, un paese in cui ancora si possono vivere esperienze autentiche ed emozioni genuine essendo sempre stato fuori dalle rotte tradizionali del turismo. Un paese in cui si può camminare per le strade acciottolate del centro storico della Candelaria nella capitale Bogotà, alzare gli occhi al cielo ed ammirare le Ande, acuire l’udito e sentire i suoni dolci di una fisarmonica che richiama le storie del Mar dei Caraibi, girare l’angolo di un vicolo e sentire l’aroma di caffè.
Potrebbe essere più immediato descrivere paesaggi e luoghi, ma come fare a farvi sentire l’incanto delle emozioni, la brezza che vi accarezza la pelle, il caldo rovente della sabbia sotto i piedi del deserto della Guajira o i suoni emessi dalle balene che svezzano i cuccioli nella acque calde di Nuquí o Bahia Solano. Un paese che profuma di Realismo Magico e custodisce con gelosia i segreti della Leggenda di “El Dorado”.
Testo e foto di Dario Gonzalez
EMAIL: dario@worldtraveldesigner.it
MOBILE: +39 333 3166283
Come fare ritratti in viaggio (Parte 2)
In QUESTO ARTICOLO abbiamo parlato di come avvicinarci ai nostri Soggetti per ritrarli durante un Viaggio. Abbiamo visto le problematiche culturali e la difficoltà ad ottenere il loro consenso.
Questa volta invece vedremo gli aspetti più tecnici, quelli che vengono dopo l’approccio, quando cioè il nostro Soggetto ci ha autorizzati a scattare qualche foto, questo è il nostro momento creativo, fotografico. In pochi istanti si scarica tutta l’adrenalina, sentiamo il brivido di scattare e subliminare in un scatto fotografico l’essenza del soggetto, la sua anima, il luogo in cui vive, la sua cultura, gli abiti che indossa e il vissuto personale che porta con e dentro di sè.
Personalmente pur essendo uno smaliziato Fotografo Professionista con 25 anni di esperienza provo sempre grandi emozioni quando scatto foto a qualcuno: sento lo scambio emozionale tra me e il mio Soggetto, sento sempre un grande feeling, ho bisogno di sentire la partecipazione del mio Soggetto allo scatto, che si tratti di una modella perfetta o dell’ultimo degli straccioni che vivono in India ben oltre i limiti della dignità umana.
Il tempo per fare le cose è sempre poco, spesso i nostri incontri con i soggetti durano pochissimi istanti, secondi. Molto spesso le persone che vorremmo fotografare stanno lavorando, o vanno da qualche parte, per loro già fermarsi è una grande dimostrazione di voglia di collaborare con noi. L’errore più grande che si possa fare è fargli passare la voglia di stare a nostra disposizione. Occorre essere veloci.
Scatta con l’ottica che hai montato in quel momento, NON metterti a fare sfoggio delle tue attrezzature, non cambiare obiettivi, ricorda che per molti quelli che per te sono movimenti naturali hanno un sapore sciamanico, la Fotografia e i suoi rituali possono essere fortemente contrastanti con chi hai davanti. Mettersi a smontare le ottiche fa perdere tempo e toglie la spontaneità del momento e del Soggetto. Scatta subito, non stare lì a costruire ciò che non c’è. Hai davanti a te tutto ciò che ti serve per una foto straordinaria: una Persona. Ci vuole un minimo di istinto e voglia di rischiare di perdere una foto o accettare che non sia perfetta, ma sacrifichiamo volentieri tutto in nome di una spontaneità prioritaria su tutto. Quando ho scattato questa foto avevo un 200 mm montato: impossibile a distanza creare un rapporto con questa ragazza dal profilo bellissimo. Potevo solo sfruttare la luce nel migliore dei modi con una silhouette che esaltasse le linee e le mettesse in contrasto con lo sfondo. Un tono chiaro e il nero. Certo, avrei potuto avvicinarmi, presentarmi, chiederle se potevo scattare salvo farla fuggire a gambe levate…. Ho preferito scattare subito e poi avvicinarmi a lei per condividere con lei il risultato ottenuto.
Tele, 200 mm anche in questo caso. Diaframma 2.8 aperto al massimo, esposizione manuale e curata in anticipo per questo scatto di un’altra ragazza con la pelle nera in controluce. Situazione estrema di ripresa in cui qualunque esposimetro si sarebbe trovato in forte imbarazzo a decidere al mio posto. Quando mi trovo in questi casi preferisco sempre scattare in Manuale per avere già tutto pronto dal punto di vista tecnico e poter scattare immediatamente quando “vedo” il mio soggetto. Il magnetismo di quello sguardo mi ha colpito, lei mi fissava ed era consapevole fino in fondo delle mie intenzioni di fotografarla e io lo facevo senza nascondermi, anzi, cercando una quinta introduttiva sulla destra che mi portasse a lei lasciandola in secondo piano.
Personalmente sono assolutamente convinto che il fotografo deve entrare in un rapporto intimo con il soggetto, deve saperlo affascinare, interessare, stimolarlo. Il rapporto di collaborazione tra i due deve essere massimo e asservito alle necessità fotografiche. E’ il fotografo che comanda, che tiene in mano la fotocamera con la quale decide l’Istante Decisivo in cui eseguire lo scatto. Il fotografo è il regista e deve saper gestire la scena, comandare senza imporsi, deve saper chiedere senza pretendere.
Nella fotografia di ritratto il vero soggetto che ritraiamo è l’anima e non la persona o il suo viso. Conseguentemente a questo punto di vista a mio avviso i migliori ritratti sono quelli in cui la persona guarda in macchina, la fissa, osserva il fotografo che si nasconde attraverso i riflessi delle lenti. In quello scambio impari di sguardi il fotografo vede e decide, mentre la persona prova i moti dell’anima che il fotografo saprà raccontare.
a volte il viso di una persona, il ritratto close up sono relativamente meno importanti del contesto ambientale in cui la persona è inserita e vive, è questo il caso del Ritratto Ambientato. Per scattare foto così abbiamo bisogno di un moderato grandangolo che ci permetta di avvicinarci al Soggetto senza stargli troppo attaccati (pensa come ti sentiresti tu con una fotocamera di uno sconosciuto puntata a pochi centimetri dal viso con un obiettivo di focale troppo corta). Il Ritratto ambientato racconta quindi tutto ciò che sta intorno al Soggetto e diventa non elemento di disturbo, ma anzi riempie l’inquadratura di ulteriori dettagli che aggiungono riferimenti su ciò che la persona fa. Prova a guardare cosa è in grado di fare questo uomo con i piedi che lavorano con la stessa abilità ed eleganza delle mani. Riprendere il solo viso sorridente avrebbe eliminato tutto il fascino dello scatto.
Ecco, questo è qualcosa da evitare: rubare foto senza il consenso dell’altro. In realtà in questa foto si vede una dissonanza palese tra il gesto della sua mano che mi diceva di non scattare e il suo viso sorridente che in realtà mi concedeva di farlo giocandoci un pò su con me in un divertente gioco fatto di negazioni opposte.
In posti come gli USA mi sarei già beccato una bella denuncia, altro che un sorriso…. E negli USA me ne sarei ben guardato dal fare una foto senza il consenso SCRITTO della persona ritratta. Il poterlo fare qui perchè sappiamo che non avremo conseguenze, non ci autorizza a prevalicare gli altri con la nostra fotocamera.
Non uso quasi mai il flash se non per scattare in pieno giorno persone con la pelle nera! Lo faccio perchè la sua schiarita è importante per prendere i dettagli che altrimenti con le ombre dure del sole a picco perderei. In questa foto della donna Touareg con il bambino ho esposto per il flash lasciando lo sfondo del deserto visibilmente sottoesposto ed enfatizzando così il concetto della solitudine di questa coppia madre/figlio dal resto del mondo.
14mm per questo scatto che ha una forte connotazione data anche da un forte editing che enfatizza alcuni colori e ne rende altri irreali.
Conclusioni.
La tecnica è importante, fondamentale, direi. Ma a mio avviso la parte da sviluppare meglio è proprio quella dell’approccio con il soggetto. La tecnica si sostituisce con la tecnologia che diventa sempre più sofisticata e user friendly, ma nessun chip (spero) potrà mai sostituirsi alla relazionalità emozionale che c’è tra fotografo e soggetto.
Come fare ritratti in viaggio (Parte 1)
Il ritratto fotografico in viaggio
Il ritratto fotografico non manca mai all’interno degli scatti che riportiamo a casa. I motivi per fare fotografie durante i nostri viaggi sono tantissimi e ciascun Viaggiatore e Fotografo ha i propri soggetti preferiti, ma al ritorno da qualunque destinazione tutti noi portiamo la foto delle persone che hanno viaggiato con noi o che abbiamo incontrato lungo il nostro percorso.
Immancabili sono le foto che scattiamo alle varie etnie, ai vestiti tipici, ai tratti somatici, ai mestieri e agli accessori che ciascuno nella propria cultura, nel proprio Paese usa quotidianamente ma attrae la nostra attenzione di Viaggiatori e di Fotografi. Questo genere fotografico, il ritratto, porta a doversi misurare con varie problematiche, in questo articolo vediamo quali.
Occorre distinguere tra viaggio e viaggio, molto dipende da che tipo di persone incontriamo e quale tipo di cultura abbiano. Nei Paesi “Sviluppati” c’è (contrariamente a quanto in genere si pensa) maggiore diffidenza nei confronti di una fotografia scattata per strada le ripercussioni possono essere anche violente o legali. Chi di noi si farebbe fare una foto da un straniero di passaggio al semaforo? Nei Paesi che ancora vivono una civiltà rurale le cose diventano più facili e divertenti e abbiamo sempre tanta spontaneità che in noi Occidentali è scomparsa de decenni.
Problemi etici e morali
Il mondo è grande e le culture sono tante. Diciamocelo chiaramente: le cose più sono diverse da noi più ci piacciono e attirano la nostra attenzione e di conseguenza i nostri scatti fotografici.
Spesso partiamo apposta per andare a vedere certi Paesi e le loro etnie, per cercare quella diversità culturale da raccontare con le nostre immagini e il nostro interesse spesso si concentra sulla povertà altrui. Ora mettiamoci dalla parte di chi sta a casa sua, vive la sua vita in una casetta umile se non in una capanna o addirittura in una baracca…. Cosa penseremmo al loro posto vedendo un bel gruppone di Fotografi in vacanza che si presentano armati di fotocamera a caccia di immagini??? Beh…. Accettare il proprio stato e viverci è un conto, ben altra cosa è invece vedersi fotografati nella povertà come dei fenomeni da baraccone. Esistono sentimenti come la vergogna della propria miseria che andrebbero da parte nostra riconosciuti e rispettati. Che ci si creda o no per qualcuno la fotografia degli occhi ruba l’anima del soggetto ritratto, questo succede in ambiti religiosi animisti. In Yemen invece è tassativamente vietato per chiunque fotografare le donne anche se completamente velate sotto i loro burqa ma al contrario gli uomini accorrono spontaneamente a farsi fotografare ogni volta che vedono un turista intento a scattare tutt’altro. Bisogna anche evitare di fare foto di nascosto e tanto meno contro la volontà già espressa da qualcuno in tal senso: in Africa si rischia di passare alle mani, negli USA si rischia una bella denuncia per violazione della privacy e del diritto all’immagine…
Vedere una persona, apprezzarne la fotogenia e scattare di nascosto il ritratto del secolo è il modo migliore per un fotografo farsi odiare dai propri soggetti. Occorre un approccio più morbido, forse basterebbe spesso quella che si chiama buona educazione o il semplice rispetto dell’altro. Quante volte ci è capitato di ricevere rifiuti ad essere ripresi da parte delle persone??? Quante volte abbiamo provato a chiedere il consenso allo scatto? Un pò di psicologia pratica nella vita non fa mai male vediamo come usarla per fare in modo che le persone siano più portate a posare per noi… Chiunque sia intento nelle proprie attività di vita lavorativa o privata, di norma preferisce restarci indisturbato e continuare la propria vita liberamente nonostante la presenza di numerosi turisti intorno… Un buon modo per relazionarsi con le persone è…. SALUTARLE!!!! Certo che un “Buongiorno” in Italiano è meglio che niente, un saluto si capisce anche dal gesto, ma è comunque meglio salutare nella loro lingua, prima di partire un minimo di frasario di circostanza dovremmo impararlo…. Buongiorno e arrivederci, grazie e prego nella lingua locale sono il vocabolario di sussistenza necessario per rompere il ghiaccio con chiunque, imparare 4 parole in una nuova lingua non richiede un gran sacrificio… Salutate sempre. SORRIDETE!
Il sorriso accompagnato al saluto sono il modo migliore per entrare in empatia con chi abbiamo di fronte…. Quando scattiamo un ritratto suggerisco anche di muoversi lentamente, di non essere troppo invadenti, di non voler apparire al di sopra del nostro interlocutore nè con i toni, nè con le parole, sorridere è un conto, ridergli in faccia e prenderlo in giro con la certezza che non capisca la nostra lingua è un’altro discorso….. Anche se non capisce le parole e il loro significato, capirà senz’altro i nostri pensieri, le emozioni che gli trasmettiamo…. Non toccare mai le persone, sembra banale, scontato ma non sempre è così…. Impariamo a chiedere le cose con i gesti, e ad interagire il meno possibile con la spontaneità delle persone che ritraiamo. Se sorridono o sono serie riprendiamole così come sono e sentono di essere, senza volerne cambiare noi gli stati d’animo: ridurremmo l’efficacia della foto e porteremo con noi una foto mal costruita.
Altri elementi che senz’altro possono essere di aiuto in uno scambio di cortesie mentre scattiamo un ritratto a qualcuno possono essere il parlare del tempo (lo facciamo anche da noi) basta indicare verso il cielo e fare dei gesti che spieghino il concetto di caldo o di pioggia o freddo ecc. Se il soggetto ha dei figli con sè potete presentarvi con il vostro nome, (sempre a gesti) e chiedere il nome dell’altra persona e/o dei suoi figli: a chiunque fa piacere parlare della propria famiglia. In tutto il mondo.
NON ABBIATE FRETTA! E NON MOSTRATE all’altro che l’unica cosa che volete è scattargli una foto, mostrategli invece che siete SINCERAMENTE interessati a lui/lei. Ricordate il “Piccolo Principe”? Ecco come esprime il creare un rapporto tra due persone: Bisogna essere molto pazienti. In principio, tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino. Poi il giorno dopo ancora più vicino .. finché mi potrai toccare .. Saremo diventati amici, non avremo più paura uno dell’altro. Questo è ciò che possiamo fare per avvicinarci agli altri. Magari non mettiamoci giorni, ma qualche minuto è preferibile…
Liberatorie per il ritratto.
Servono o no??? Eh… dipende da che punto di vista intendiamo la cosa e sopratutto cosa vogliamo fare con quella foto. Siamo onesti con noi stessi: sappiamo che pubblicheremo quella foto su una Rivista Internazionale o Nazionale di ampia diffusione, un sito WEB o un Social come Facebook? Si? E allora DOBBIAMO avere una liberatoria, anche se su facebook apparentemente nessuno si lamenta, ma non è così per tutti perchè per alcuni potrebbe essere una vera violazione del proprio diritto all’immagine e potrebbero prendersela davvero a male.
Se invece sappiamo che quelle foto di ritratto le terremo solo per noi, non abbiamo bisogno di nulla perchè la liberatoria è necessaria solo per la pubblicazione, e non per lo scatto in sè. Il buon senso ci aiuterà a fare le scelte giuste. Se una persona mi ha dato il suo assenso allo scatto, me lo darà probabilmente anche per la pubblicazione. Sempre in linea teorica dovremmo avere con noi un modulo scritto nella lingua locale da far firmare a chiunque. Questo è possibile con una APP che si chiama Easy Release ed è disponibile su iPHONE, unico problema è che contempla le maggiori lingue del mondo e non tiene in alcuna considerazione le lingue minori che parlano 3 miliardi di persone, spesso analfabeti…
Ancora sul buon senso: se andate negli USA e non vi fate firmare la liberatoria state pur sicuri che qualcuno verrà a chiedervene conto in tribunale e ci rimettereste sicuramente perchè avete torto marcio. Le liberatorie fatte firmare prima, insieme al consenso di simpatia, sono decisamente più formali, ma stabiliscono dei ruoli. In Africa non sapete cosa farvene delle Liberatorie perchè spesso (senza qui voler fare discorsi razzisti, ma solo statisticamente veri) i vostri soggetti sono analfabeti o magari possono essere sospettosi, vanifichereste quella sana atmosfera di amicizia che avevate costruito fino a quel momento.
Pagare per un ritratto?
In linea generale direi di non pagare mai nessuno per fargli un ritratto fotografico. Se è vero quello che abbiamo detto fino a questo punto, allora è anche vero che il ritratto a qualcuno in un Viaggio è un puro scambio di cortesia e di simpatia reciproco, la sua forza è nella gratuità stessa del gesto reciproco. Un viso mi piace per una serie di motivi, chiedo esplicitamente di poterlo fotografare, poi all’assenso ricevuto NON può seguire una richiesta di denaro.
In questo caso il rapporto è regolato secondo altri parametri che non sono quelli visti fino a questo punto. I Gladiatori al Colosseo si fanno pagare, ma quelli non sono neanche Romani ma Romeni (è vero!) e fanno quello per mestiere: discutibile e opinabile ma sono lì apposta: se vuoi fotografarli paghi. Di certo NON HAI NULLA DI VERO in loro, non sono veri gli abiti, non sono veri i personaggi, sono dei figuranti in costume che paghi in cambio della loro bonaria prestazione (a Roma chiedono 5-10 Euro). In Etiopia vale la regola del: “1 photo-2Birr” ossia con il nostro cambio: 1 foto per 0,2 Euro.
Queste sono persone che (a differenza dei falsi Gladiatori) mantengono vive le loro tradizioni e la loro cultura che altrimenti svanirebbe in pochi anni e per farlo si mantengono facendosi pagare dai turisti. Niente soldi=niente foto. Con loro il pagamento di una foto per un ritratto è dovuto e serve proprio a far avere per loro un senso a non occidentalizzarsi, a rimanere fedeli alle loro tradizioni. L’uomo di questa foto infine era un personaggio che ho gratificato per sola simpatia, non mi aveva chiesto nulla, e dopo gli scatti, prima di andare via, gli ho dato io un piccolo aiuto. Anche in questo caso il rapporto è perfettamente etico e ben gradito come si vede dalla sua faccia gioiosa… Giusto per la cronaca: questa era la foto più bella che gli ho fatto, l’ho fatta per puro caso prima di andare via.
Promesse.
Con le nostre moderne fotocamere digitali è frequente mostrare le proprie foto al soggetto immediatamente dopo averle scattate. A quel punto viene dal Soggetto la richiesta di inviargli alcune foto su carta o via email o via facebook e la nostra risposta “CERTO!!! LO FARO’ SICURAMENTE” deve poi diventare un impegno sacramentato. L’errore più grave che possiamo fare è quello di mentire a chi si è fidato di noi. NON è etico, non è morale. Siate onesti, leali e mantenete le promesse fatte. SEMPRE.
Conclusioni.
Và dove ti porta il cuore…. Sii spontaneo e goditi quel momento dell’incontro. Sii aperto ad ascoltare, ancor prima di essere spontaneo nel chiedere. La gestione del rapporto sta nelle tue mani, sei tu che scatti, sei tu che chiedi qualcosa, sei tu a dettare i tempi e le modalità, ma devi farlo rispettando gli altri che hai di fronte.
Divertiti insomma e oltre ad una bellissima foto porterai le sensazioni bellissime che hai vissuto davanti a quella persona.
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