Etiopia: il Natale arriva a gennaio

Se pensi al Natale come Babbo Natale che arriva sulla slitta il 25 dicembre e porta regali ai bambini, leggi questo articolo: ti porterò in un posto in cui tutto questo non è vero. Ad esempio, nel nord dell’Etiopia, a Lalibela, è tutto diverso, anche la data di Natale che viene celebrato il 7 gennaio!

Etiopia
Soli, in un villaggio senza nome. Etiopia 2016. Foto: ©Roberto Gabriele

Lalibela è un posto magico, denso di spiritualità, uno di quei posti in cui sentirai esplodere dentro di te il mal d’Africa. Lalibela è la classica cittadina tranquilla africana: poche case in muratura, qualche albergo e tante capanne, sono i tipici tukul con il tetto in paglia a punta. Lalibela però è un Patrimonio dell’UNESCO perchè qui c’è qualcosa che non esiste in nessun altro posto al mondo: le chiese rupestri ipogee monolitiche. Detto in altri termini queste chiese sono state letteralmente scavate svuotando la montagna e ricavando la chiesa da un unico blocco di roccia. 40 anni di lavoro fatto a mano con martelli e scalpelli.

San Giorgio
Le chiese vengono letteralmente scavate nella roccia. Foto: ©Roberto Gabriele

Qui le chiese sono di rito cristiano copto, un rito completamente diverso da quello cattolico, nei costumi, nella durata, nelle modalità di celebrazione e anche nella simbologia. La festa del Natale è la più sentita, la più bella e partecipata dell’anno. Circa 20.000 fedeli arrivano qui per celebrare la nascita di Gesù con una messa che dura 12 ore: dalle 9 di sera fino alle 9 del mattino successivo, il tutto accompagnato da circa 300 sacerdoti che indossano paramenti dai colori sgargianti e da tutti i fedeli che vestono il tipico caftano bianco. L’atmosfera che si respira qui è meravigliosa, che si sia credenti o no è impossibile rimanere impassibili davanti a tutto questo. La simbologia è talmente chiara da sembrare artefatta: sembra che ci sia dietro il lavoro di un abile regista, mentre invece tutto è dettato dalla tradizione più antica e incontaminata. Quando andai io, tra la gente c’era persino il Presidente dell’Etiopia con la sua scorta! Le misure di sicurezza erano fittissime! ;:)

Ragazza legge le Scritture – Foto: © Roberto Gabriele

La notte simboleggia la tenebra e il peccato: il rito non a caso viene celebrato con il buio. La suggestione del momento è enfatizzata dalla presenza di centinaia di candele con le quali i fedeli rischiarano di tanto in tanto la lettura dei testi sacri che portano con se per seguire le letture durante la lunga veglia. E’ incredibile osservare le espressioni e il coinvolgimento emotivo di queste persone rapite dalla preghiera. Ma la notte è fatta anche per riposare e qui nella grande chiesa di Santa Maria (dedicata alla Madonna) si dorme regolarmente durante la lunga veglia notturna del Natale! Quello che da noi in Italia sarebbe impensabile, irriverente, inaccettabile come il dormire in chiesa durante un rito sacro, in Etiopia invece viene accettato senza difficoltà: la notte è fatta per dormire, chi vuole prega, gli altri dormono!

 

I sacerdoti sono centinaia, restano svegli tutta la notte a celebrare il lungo rito. Molti di loro sono sposati e hanno figli, il celibato non è  a loro richiesto. Quasi ogni parte del rito viene cantata e danzata per rendere la partecipazione più corale e intensa. Le letture e le omelie sono ridotte al minimo. Il ritmo lento viene scandito dal Sistro: uno strumento il cui suono assomiglia a quello di un cembalo, costruito con una impugnatura con dei piattelli che vengono suonati alzando o abbassando il braccio in un gesto rituale che simboleggia la morte (braccio abbassato) e la resurrezione di Gesù (braccio alzato). Durante ogni canto, durante tutta la notte, viene ricordato tutto questo.

preghiera
La veglia di Natale dura 12 ore. Foto: ©Roberto Gabriele

E poi c’è la gente che vive in massa tutto questo. A parte chi dorme e chi legge nella chiesa, c’è poi chi rimane all’esterno e partecipa al rito guardandolo sui maxischermi che vengono allestiti per l’occasione perchè all’interno non c’è spazio per tutti. Fuori dalla chiesa, davanti ai monitor si crea un vero e proprio accampamento con tende improvvisate e tavolate di intere famiglie che ricoprono la montagna con le loro vesti bianche che si vedono bene nella notte.

Tra la gente e i sacerdoti c’è la presenza fondamentale di certi mediatori che scendono tra la gente portando a loro i simboli cerimoniali come la croce e un cuscino che viene baciato a turno dai fedeli. Questi mediatori sono quelli che vendono le candele con le quali partecipare alla messa. I loro abiti sono preziosi, dorati, coloratissimi e portano sempre un ombrello damascato coordinato con l’abbigliamento. A ben guardare i loro movimenti, nonostante l’apparenza solenne, appaiono però come abili commercianti che si aggirano durante la lunga messa tra la gente per vendere ancora candele a chi ne fosse rimasto sprovvisto.

Venditore di candele. Foto©Roberto Gabriele

Il Natale copto è il 7 gennaio, con la grande veglia che inizia il 6 sera, in corrispondenza con la nostra Epifania. Il giorno della Vigilia passa tra i pellegrinaggi che vengono fatti dai fedeli nelle chiese: si va in visita alle icone dei santi e ci si mette in fila per una veloce benedizione, si bacia la croce copta in legno o in argento e con questa si viene benedetti dal sacerdote. Migliaia di persone arrivano 1-2 giorni prima del Natale proprio per avere il tempo di fare i pellegrinaggi in tutte le chiese e in particolare in quella di San Giorgio, la più grande e bella: famiglie intere o comunità locali si spostano in gruppo arrampicandosi sui pericolosi muretti alti 10 metri senza protezioni, camminando negli stretti cunicoli in discesa scavati per accedere alle chiese. E per tutto il giorno si mangia in strada dove ci sono ristorantini ambulanti e migliaia di fedeli già vestiti a festa.

ristorantini
Ristorantini di strada in Etiopia. Foto: ©Roberto Gabriele

Alle 21 del 6 gennaio inizia la lunga messa: 12 ore per sentirsi vicini a dio. Durante la prima parte ci sono canti e danze, quando la notte diventa profonda, il ritmo rallenta e la gente si addormenta a terra. Quello è il momento preferito da noi fotografi perchè possiamo muoverci facilmente per fare le nostre foto e camminare infilando i piedi nei pochissimi spazi liberi tra la gente che dorme, anche se ogni tanto può capitare di pestare una mano o un piede nascosti nel buio… La cosa più bella da fotografare sono i contrasti tra le luci delle candele e le ombre, tra il bianco delle vesti e il nero della pelle della gente, tra i colori dei vestiti e il nero della notte. 

 

La lunga veglia prosegue abbastanza uguale a se stessa fino al momento in cui improvvisamente il rito cambia e il buio lascia lo spazio al rito della luce che simboleggia la nuova nascita e l’arrivo del Natale. La chiesa che era caduta nel torpore generale si sveglia improvvisamente tra le urla generali delle folla impazzita: la nascita di Gesù viene celebrata in quel momento con una gioia incontenibile e urla liberatorie. In pochi istanti tutti i fedeli tirano fuori le candele che avevano conservato e le accendono l’una con l’altra in un gesto di condivisione reciproca durante il quale la luce aumenta velocemente in proporzione. Il momento è emozionante: le urla festose, la luce che aumenta, la chiesa che fino a quel momento era stesa a terra a dormire si rialza in piedi e ricomincia a partecipare al rito. Poco dopo la preghiera è fortissima, le urla caotiche vengono riordinate di nuovo dalla coralità della preghiera e, girandosi intorno, tutto ciò che era buio ora è illuminato dalla luce di migliaia di candele accese, tutto ciò che era libero ora diventa ordinato e corale.

Il Natale è la festa della luce. Improvvisamente migliaia di candele illuminano a giorno tutta la chiesa. Foto: ©Roberto Gabriele

La gente ora è tutta in piedi e rivolta verso l’altare con le candele in mano intenta a pregare, questo momento dura un’oretta  di preghiera, poi di nuovo un crescendo di emozioni avvolge i presenti: di nuovo le urla della folla impazzita: alzando lo sguardo verso i bordi laterali si scorgono i sacerdoti che sono saliti sul bordo dello strapiombo intorno alla chiesa e dall’alto cingono con la loro presenza tutta la chiesa e i fedeli in un abbraccio simbolico, hanno cambiato le loro vesti, tolto i colori e sono tornati a vestire anche loro di bianco con solo una fascia colorata. Applausi, lacrime  e sorrisi: si alzano verso di loro migliaia di telefoni cellulari che fotografano la lunghissima fila di Celebranti, tutti hanno tra loro un parente o un amico che dall’alto li sta benedicendo e li ricambiano con una foto ricordo. Anche i sacerdoti, nonostante la sacralità del momento e del loro ruolo, scattano di tanto in tanto qualche foto con il cellulare alla folla sotto di loro alternano questo gesto pagano alla sacralità del suonare il sistro che da ore segna il tempo della cerimonia. La simbologia anche qui è fortissima: dopo la tenebra del peccato arriva la luce e quindi la salvezza.

La luce porta la verità, la nascita. E’ arrivato il giorno di Natale. Foto: ©Roberto Gabriele

La magia della luce continua perchè adesso il cielo inizia a tingersi di rosa: è l’alba di Natale! La messa vera e propria ha inizio alle 6 del mattino, e finirà alle 9 dopo tre ore di canti e danze accompagnati ora dal ritmo dei tamburi che sovrasta e sostituisce il suono melodioso e malinconico del sistro. E qui l’anima africana  degli etiopi fatta di ritmo e danze prende il sopravvento sul rito lento e profondo che si è vissuto per tutta la notte… L’allegria generale da il benvenuto alla festa, segna la fine dell’attesa per la nascita di Gesù nel giorno di Natale.

Mercato
Tra un mercato e l’altro inizia il nostro lungo viaggio di ritorno verso l’Italia che durerà 3 giorni. Foto: ©Roberto Gabriele

Qui siamo lontani anni luce dall’icona tipica di Babbo Natale, siamo lontani dai panettoni e dalla neve. Benvenuti in Africa.

 

La chiesa cristiana copta celebra il rito del Natale con un calendario diverso rispetto al nostro, spostato di 13 giorni in avanti. La festa del Natale è quindi il 7 gennaio con la vigilia il 6, ossia il giorno della nostra Epifania. Quindi, la loro Epifania è il 20 gennaio.

Genna, il Natale copto in Etiopia

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Genna

Una lettera da Makassar

Una lettera da Makassar, nell’isola di Sulawesi.

L’oggetto più antico esistente nella nostra casa, un vero cimelio storico, era un bauletto appartenuto al mio trisavolo materno. Per tutti noi era semplicemente il forziere, un nome che testimoniava l’alta considerazione in cui era tenuto per via della vita lunga e avventurosa dell’avo, della quale ciascuno di noi era a conoscenza, almeno a grandi linee, perché nel racconto di quella umana vicenda si era esaltata la fantasia di ogni giovane generazione della nostra famiglia. Non escludo che il racconto orale, nel lungo tempo trascorso, possa essersi arricchito di molti particolari o di episodi che abbiano aumentato l’attrattiva e lo smalto favoloso di quel vissuto. Dico questo soprattutto in considerazione di quanto fatto proprio da me con l’accrescere,ogni volta che ne raccontavo, l’aspetto avventuroso di quella vita, e con la colmatura delle lacune e degli strappi nella successione cronologica,ma suppongo che molti altri abbiano dato un contributo a trasformare i vari episodi in un vero romanzo di avventure. Durante l’adolescenza sono stato un affamato lettore di libri di quel genere ma non saprei dire se a ciò fossi indotto dal ricordo dell’avo o se viceversa fosse stata la mia passione per i libri di avventura a farmi mitizzare la sua figura. Conoscevo a fondo, per averli letti e riletti, romanzi come L’isola del tesoro, come Le avventure di Arthur Gordon Pym o Robinson Crusoe, come I pirati della Malesia o Billy Budd, gabbiere di parrocchetto.

Mi piaceva soprattutto la marineria ed ero giunto al punto da studiarne propriamente ogni aspetto, come la nomenclatura completa di ogni tipo e classe di bastimento e delle varie parti che compongono una nave e i vari pezzi di costruzione, l’alberatura, l’attrezzatura – cavi, paranchi, bozzelli, ancore, vele… – e le manovre, e i nodi, le legature…, come pure i nomi degli uomini che nelle varie funzioni attendono al governo di un natante. La mia passione si alimentava specialmente con le storie ambientate nei mari del Sud, il cielo australe mi affascinava per l’aura di mistero che io vi annettevo. E certamente pensavo che le avventure possibili in quell’emisfero fossero di tutt’altra natura, non dico superiore ma affatto diversa,che quelle nei mari del Nord. Insomma in quelle della Croce del Sud, in quei caldi arcipelaghi, nel Mar della Cina, nei mari della Malesia e del Borneo era tutto un andirivieni di giunche di pirati e di traffici di dubbia legalità;nelle altre,quelle dei mari del Nord, c’era il lento procedere delle navi rompighiaccio, l’attiva vita dei pescatori di aringhe e di merluzzi ai Grandi Banchi di Terranova, l’epica caccia alla balena nei freddi mari della Corrente del Labrador: due mondi così distanti…

Tornando al mio avo, vi è da sapere che il racconto della sua vita non è stato intessuto soltanto oralmente dai suoi discendenti ma ha avuto inizio da un prezioso brogliaccio contenuto nel suo forziere giunto fino a noi. In quel bauletto, un pezzo veramente ben costruito, in legno di pero rinforzato e borchiato e ancora pressoché intatto, erano contenuti oggetti preziosi e in primo luogo un brogliaccio rilegato solidamente,con il taglio delle pagine tinto di rosso come una bibbia o un breviario da ecclesiastico:e questo sì, è il pezzo che maggiormente ci interessa ma non posso tacere del fascino che su di me esercitavano le altre reliquie (un piccolo cannocchiale di lucente ottone, due paia di guanti, un orologio da tasca, un paio di occhialoni con la mascherina, un kris malese, un cannello di penna di giada, una medaglia della British East India Company, vari libriccini di appunti delle dimensioni di un enchiridio, un calendario perpetuo e altri piccoli oggetti) la principale delle quali era un copialettere portatile ancora perfettamente funzionante. Proprio con quello strumento il mio avo aveva diligentemente ricopiato nel grande brogliaccio ogni atto scritto e ogni lettera – atti e lettere redatti in italiano, in francese e in inglese – da lui prodotti nel corso della sua lunga vita, essendo morto nonagenario, proco prima della grande guerra, nel suo buen retiro sorrentino.

Nel brogliaccio del mio trisavolo erano annotati, quali brevemente e quali più estesamente, molti fatti e circostanze della sua vita, non esclusi certi rilievi psicologici personali e certe meditazioni, tutte scritture che fanno di quel libro un vero e proprio diario. Ho detto già degli spunti di riflessione ma non sottovaluto le altre minuzie e gli appunti frammentari rilevati dagli enchiridi: tutte notizie che compongono il vivido mosaico della sua esistenza. Si va dai fugaci amori, per la verità non infrequenti anche dopo il suo matrimonio, alla nascita dei figli, dagli acquisti di oggetti importanti all’annotazione dei bagni completi fatti per l’igiene personale e finanche talvolta alle osservazioni meteorologiche  e climatiche.

Durante la mia adolescenza, nelle lunghe giornate delle vacanze estive, ho trascorso molto tempo a compulsare quel diario ed a farne un duplicato in un librone molto somigliante all’originale, riportando però tutti gli scritti in lingua italiana, avendo io stesso tradotto tutti i testi. Tra le lettere più importanti ve n’è una che contiene alcune informazioni generali sull’autore, di cui non ho ancora detto il nome perché lo dirà lui stesso nella lettera. Questo scritto è una sorta di curriculum da lui inviato all’antropologo dell’Inghilterra vittoriana Edward Burnett Tylor, l’autore del famoso libro Primitive Culture. Ho definito avventurosa la vita del mio trisavolo senza dire perché lo fosse: dalla lettera si capisce e per questo la trascriverò qui di seguito, ma intanto basti considerare il luogo di partenza di quella lettera, Makassar – una città che ai giorni nostri è la capitale della provincia indonesiana del Sulawesi Meridionale, che è una grande isola – e che già allora, alla metà del secolo diciannovesimo era un importante porto libero dell’isola di Celebes, nome con cui a quel tempo era conosciuta in tutto l’Occidente.

Dopo queste poche premesse è ormai il momento di riportare l’intero testo della lettera nella versione da me tradotta.



Mittente: P. A. Giaccarino
Care of  Missione Commerciale Genovese
MAKASSAR

Al Signor Professor
Edward Burnett Tylor
care of Reale Società di Biologia
LONDON
“Makassar, a dì 13 aprile 1848

“Illustre Signore,

mi presento a Lei a nome del Primo Nostromo della goletta Plymouth II, il Signor Bud Fitzpatrick: sono Pietro Agnello Giaccarino, un suddito di S.M. il Re delle Due Sicilie. Sono nato a Sorrento nell’anno 1823 e mi sono stabilito nell’isola di Celebes da circa quattro anni, dopo aver fatto la spola per tre anni, negli arcipelaghi delle Molucche e della Sonda, su un navilio di lungo corso, un brigantino mercantile a tre alberi. Conosco il mare dall’infanzia e navigo fin dalla giovine età dei sedici anni.

“Il mio officio consiste nell’approvvigionare di legnami pregiati, tek, ebano, sandalo e canfora, nonché di scorza di china una ditta genovese, di cui sono commissionario, la quale ne fa commercio in Italia e in Europa; legnami che in queste terre sono largamente diffusi.

Il Nostromo Fitzpatrick avrebbe in me ravvisato le qualità adatte a  corrispondere con Lei, illustre Professore, con riferimento alla materia delle usanze e tradizioni tribali nonché dei riti di queste popolazioni, per il fine di fornire a Lei mezzi di studio e di comparazione, se ho ben compreso, per un Suo lavoro intorno alla cultura delle genti primitive.

“Quantunque il mio umano sostentamento mi provenga dall’attività del tutto diversa di cui Le ho riferito e nonostante il forse troppo breve periodo di stanziamento in Makassar, mi professo adatto alla bisogna,g iacché il tipo di osservazioni che essa mi richiederebbe è consono al mio personale interesse. Le dico, a tal proposito, che io fui educato in Amalfi da un sant’uomo,un ecclesiastico barnabita, di nome Padre Bracciolino Calise, già stato missionario per lunghissimi anni in terre d’Affrica eppertanto  profondamente versato nella scienza etnografica, di cui m’insegnò i rudimenti, quegli stessi che mi hanno accompagnato in Celebes e che m’hanno dato contezza di tanto argomento che altrimenti mi sarebbe restato estraneo.

“Vorrei dunque darle un breve saggio delle informazioni che potrei trasferirle se Lei acconsentisse alla mia collaborazione, che sin d’ora Le assicuro gratuita. Per il momento mi applicherò a riferire le osservazioni già da me fatte, specialmente quelle intorno ai Toradja o Taraja, il popolo dell’altopiano. In seguito Le fornirò notizie più diffuse e più dettagliate,conforme al desiderio mio di servir al meglio Lei e la scienza.

“Inizio dai riti connessi con la lunga siccità o con l’eccesso di pioggia e dunque dalle azioni volte a provocarla,nel primo caso, ed a farla cessare, nel secondo. Nelle zone a nord di Celebes nominate Minahassa, gli sciamani prendono lunghi bagni cerimoniali con l’intenzione di provocare il cielo alla pioggia. Nella zona centrale dell’isola, allorché per l’assenza prolungata dell’acqua le piantine di riso principiano a rinseccolirsi e prima che il raccolto vada perso del tutto, gli abitatori dei villaggi si portano ai fiumiciattoli,alle pozze d’acqua e se ne aspergono con grandi strilli, specialmente quelli dei giovani, e se ne spruzzano e schizzano. E imitano il rumore della pioggia battendo le mani sulla superficie liquida o tamburellano,con la stessa intenzione, su una zucca svuotata. Sotto questi cieli è altresì necessario, talvolta, scongiurare la pioggia, farla cessare quando è troppa e questa, si sa, è una necessità anche dei contadini delle nostre parti. Ed anzi posso aggiungere che tante pratiche consimili avvengano anche nelle terre dove nacqui. Per restare a Celebes, l’eccesso d’acqua può diventare disastroso, e questo accade quando i venti Alisei si sono sovraccaricati all’eccesso di umidità durante il loro percorso sugli oceani. Può allora piovere sull’isola per mesi e mesi e mandar tutto marcio. Prima che questo avvenga, il sacerdote o mago della pioggia inizia quello che è un combattimento serrato con l’acqua, cioè si astiene totalmente dal toccarla, non si lava mai,beve soltanto il vino di palma; se deve attraversare un ruscello cerca un punto in cui gli sia possibile farlo senza toccare l’acqua, appoggia i piedi sui massi petrosi che emergono. Durante questo tempo propiziatorio egli vive in una capannuccia appartata dal villaggio ed eretta nel campo di riso. Qui accende un focherello che deve essere continuamente alimentato e vi brucia legnetti che dovrebbero avere il potere di tenere lontana la pioggia. Se all’orizzonte si profilano banchi di nubi carichi di pioggia, il mago soffia in quella stessa direzione reggendo tra le mani foglie e scorze d’albero che, per gli stessi nomi che portano suggeriscono la leggerezza e dunque si presume abbiano il potere di allontanare le nubi rendendole leggere sotto il soffio dello sciamano. In questo caso come in tante altre occasioni, questi uomini fanno un teatrino basato sulla somiglianza, sull’imitazione, credendo così di indurre gli spiriti che sono nelle cose ad imitarli. Questo mi ha insegnato il mio maestro Padre Bracciolino Calise e questo ho sempre potuto osservare:ma queste sono cose che lei sa meglio di me,modi di cui Lei conosce il nome ed io no. Ad ogni modo posso dirle che questa imitazione, questa specie di recita teatrale tanto ingenua è largamente praticata da tutti,anche da chi sciamano non è e per una serie infinita di intenzioni. Per esempio, chi volesse catturare un cinghiale, un maiale selvatico o altro animale, dovrà esporre all’esterno della casa o capanna una parte dell’animale che vuole attirare:una zampa,un corno,un lembo di pelle scuoiata… Lo stesso fanno, s’intende in altri modi ma con la stessa idea di teatro e di somiglianza, per mantenere in vita una persona,per scacciare gli spiriti del male. Queste però sono cerimonie cruente e qualche volta crudeli,almeno per noi. I riti che vogliono espellere il male sono eseguiti con il sacrificio di animali,con scannamenti che a noi potrebbero sembrare raccapriccianti se non sapessimo che un tempo,e forse ancora oggi presso i gruppi tribali più selvaggi,i sacrifizi erano fatti con l’uccisione di persone.

“Modi estremamente cruenti accompagnano anche il più complesso rito della sepoltura,un evento che può occupare giorni e giorni, durante i quali il villaggio attraversa momenti di baraonda alternati allo svolgersi della comune vita, al commercio ed alle altre umane cure. Quello che conta è l’importanza che si dà al corpo del defunto che,con un lungo cerimoniale accompagnato da canti e suoni di cimbali e tamburi, viene posto,dopo essere stato portato in processione, su un grande catafalco tutto ornato. D’intorno c’è gente che mangia (e questo, se mi è permesso dire, mi rammenta quel che avviene presso di noi, nelle nostre terre, dove si usa preparare il cuonsolo, cioè la consolazione, che è un lauto pasto da offrirsi a cura dei vicini alla famiglia del defunto), gente che attende ai propri affari approfittando dell’occasione di quel grande concentramento di gente. In queste cerimonie, quello che maggiormente mi ha impressionato è il sacrificio del bufalo, anzi di uno o più bufali, che viene fatto davanti a tutti, sulla radura dove si svolge il rito funebre. Quegli animali mastodontici vengono legati per le zampe ad un palo conficcato saldamente nel terreno, tanto profondamente per poter reggere, senza svellersi, alla forza immane dell’animale. Quando è il momento, il sacerdote si avvicina cautamente al bestione, che forse per via delle legature subite è già infuriato e come presago del suo destino di morte, e servendosi di un lungo e affilatissimo pugnale lo trafigge alla gola. L’impressionante fiotto di sangue che ne spiccia fuori inonda il terreno circostante, cioè tutto il cerchio intorno al palo a cui è vincolato e nel quale l’animale impazzito riesce ancora a muoversi scalciando in maniera furibonda. Durante questa penosa agonia la bestia riceve altre trafitture con le stesse modalità finché, totalmente dissanguato, crolla al suolo privo di vita se non per qualche fremito o spasmo residuo del suo corpo. Considerato che questo sacrifizio può ripetersi con altri animali durante la stessa cerimonia, alla fine il terreno è intriso totalmente di sangue.

Egregio Signor Professore, queste poche considerazioni valgano soltanto a illustrare la possibilità di giovarsi dei miei rapporti, che saranno tanto più accurati se Ella vorrà indicarmi uno schema da seguire, una traccia a cui attenermi. In attesa di un Suo scritto di risposta, Le mando i miei migliori saluti da Makassar. Sono il Suo servitore e mi firmo Pietro Agnello Giaccarino.”

Renato Gabriele

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