La Route 66: sulle tracce di Kerouac

Se esiste una strada epica è proprio la Route 66 negli Stati Uniti. Epica perché il solo nome la lega ad una serie di miti che hanno influenzato non solo il nostro modo di viaggiare ma anche quello di essere e di pensare. The mother Road”, la chiamano, ossia “la strada Madre” quella da cui tutte le strade hanno origine mentale. I cartelli lungo i locali storici la chiamano con tutti gli altri aggettivi possibili: “Legendary” oppure “Historic” o amichevolmente “Old”.

Ma andiamo per ordine e iniziamo proprio dalla fine: La Route 66 non esiste più. E forse proprio questo è servito ad aumentarne il fascino e la notorietà, a renderla immortale nonostante sia stata ufficialmente dismessa e sostituita dalla più moderna Interstate 40, una enorme autostrada a 6 corsie che segue grosso modo il vecchio tracciato e collega ora come allora Chicago a Los Angeles, anzi, a Santa Monica, per essere precisi.

Gli americani hanno spazio e soldi: preferiscono rifare una strada che ampliarla, e i criteri di costruzione della Route 66 (risalivano a circa 100 anni fa ) oggi non sono più validi: c’erano troppe salite, troppi villaggi, troppa strada fatta per aggirare una montagna. Oggi i tracciati sono diversi, si punta tutto a risparmiare tempo, soldi, benzina e quindi la strada è morta fisicamente ma il suo spirito è vivo più di prima nell’immaginario collettivo di milioni di viaggiatori in tutto il mondo.

Perchè il mito? Perchè le sue 2138 miglia (circa 3400 chilometri) sono state percorse da milioni di camionisti e automobilisti che la percorrevano in modo pionieristico nei decenni che andavano dagli anni ‘20 ai ‘70 del secolo scorso. Occorreva affrontare la strada: sedimentare dentro di sé la distanza e i tempi necessari a percorrerla e afferrare il volante per mettersi alla guida. I primi anni, ovviamente non c’era neanche l’asfalto: era un vero e proprio rally da fare, e il premio era già il solo arrivare a destinazione. Le figure più importanti legate alla strada erano proprio i meccanici e i gommisti insieme ai benzinai che avevano un ruolo più sociale che economico: senza di loro il viaggio non sarebbe arrivato a destinazione.

Dato che ci volevano giorni per percorrerla interamente, come nelle nostre moderne autostrade le altre tappe obbligate in cui fermarsi erano i motel ed i ristoranti disseminati lungo tutto il percorso. Migliaia di avamposti sparsi nel nulla, nel bel mezzo di un deserto o in cima ad un valico di montagna sul quale, una volta arrivati, occorreva far riposare i motori per abbassarne la temperatura che saliva in proporzione allo sforzo dovuto alla pendenza e alla quota. Le soste non erano tutte uguali, c’erano dei posti che vivevano di una loro notorietà dovuta a qualcosa che li distingueva da tutti gli altri e la gente era disposta ad allungare le proprie tappe per arrivarci: la più buona torta di mele della Route 66, oppure la più bella cameriera del Missouri, o la famosa bistecca di manzo del Big Texan da 72 once (circa due chili di carne) che si può mangiare gratis ma solo per chi riesca a finirla  in 60 minuti, entrando poi di diritto nell’Albo d’Oro del ristorante di Amarillo.

La Route 66 era una sorta di lungo villaggio su strada in cui ciascuno degli esercenti conosceva bene i propri vicini e aveva almeno sentito parlare di tutti gli altri; con alcuni si era in amicizia, con altri in guerra commerciale. Nessuno era mai veramente da solo lungo quella strada, anche quando intorno non c’era anima viva. Quei locali, a volte fetidi altre volte delle vere a proprie oasi di pace, erano sempre da qualche parte dietro ad una curva, in fondo al rettilineo, in cima alla salita per dare conforto o aiuto ai viaggiatori.

Route 66E tutto questo ben lo sapevano Jack Kerouac e gli altri poeti della Beat Generation che vedevano nella grande strada la realizzazione di un ideale di libertà, il mezzo per vivere il grande sogno americano. La strada come metafora della vita, non solo come percorso fisico su un nastro di asfalto, ma come un vero esercizio di stile filosofico. La strada era, ed è ancora, il mezzo con il quale spostare il pensiero dall’orizzonte in cui è rinchiuso dentro casa. Ecco quindi che il solo fatto di percorrerla è già una crescita personale, un arricchimento interiore. “On the Road”, era il titolo del libro che ha ispirato tutto questo movimento di pensiero: essere sulla strada è la condizione necessaria per avvicinarsi fisicamente e mentalmente a tutto questo.

La strada è luogo di incontro con gli altri e con se stessi, un posto di scambio di merci e di esperienze. La sosta in un locale era l’occasione per sapere le condizioni meteo, o di eventuali incidenti, frane ecc. Così come avviene nella vita di tutti i giorni quando ci si ferma a riflettere su cosa ci accade intorno, altrettanto il viaggio on the road è l’occasione per incontrare tutto questo e il modo migliore per farlo è di sicuro una scoppiettante moto  Harley Davidson che è la realizzazione meccanica di uno stile di vita basato su grandi ideali di pace e libertà.

Poi è arrivata la modernità, la Route 66 ha perso velocemente la sua utilità di collegamento ma non il suo fascino. Oggi è stata sostituita e coperta dal nuovo tracciato che in alcuni tratti la lascia ancora visibile al Viaggiatore in tutta la sua bellezza. In alcuni tratti, sì… Oggi la strada ci appare come una viuzza di campagna con una sola corsia per senso di marcia, i locali che un tempo erano brulicanti di vita, di lavoro, di persone e di servizi ora sono chiusi, decadenti, abbandonati e pieni di fascino senza tempo. Alcuni di quelli che si trovavano nelle città ancora riescono a restare aperti, sono diventati dei “musei”, vere istituzioni che ancora funzionano a pieno ritmo, alcuni sono stati rinnovati o lasciati al loro destino, altri infine sono diventati negozietti in cui si vendono souvenir turistici legati alla strada: antiche targhe di automobile originali, giubbotti da motociclisti, insegne di vecchi ristoranti o marche di benzine e pneumatici degli anni ‘50 mischiati a paccottiglia di produzione seriale cinese.

Nonostante tutto, la strada mantiene ben vivo il suo mito, di strade famose per i Viaggiatori ce ne sono tante in tutti i continenti: dalla Transandina alla Panamericana, dalla Transtibetana alla Carretera della Muerte o alla Great Ocean Road, ma la Route 66 le batte tutte per fascino e notorietà, a parte la nostra Via Appia, l’antica Regina Viarum che da 2000 anni assolve a questo ruolo per noi italiani.

Route 66
La Route 66 nel pieno centro di Amarillo, in Texas. Foto: © Roberto Gabriele

La cosa che lascia stupiti è che anche nei tratti urbani le strade sono vuote, le auto sono pochissime e non esistono file ai semafori. Le cittadine che si incontrano lungo il percorso, anche quelle abitate, hanno strade sono enormi anche in pieno centro e sempre vuote, la gente non cammina a piedi, l’America non è un posto dove si può camminare a piedi, le distanze sono troppo grandi. L’impressione che si ha è quella di vivere in un vecchio film western nel quale le case non sono più di legno ma di cemento armato e i cavalli ora hanno quattro ruote ed un motore.

Lungo “La Strada” si ha ancora quel senso di vuoto che provava James Dean in Gioventù bruciata, ed è ancora possibile sentirsi liberi come Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Questa strada è stata la la musa ispiratrice di film anche più recenti come Thelma e Louise nella loro fuga dalla vita, e persino di Cars, un film di animazione della Pixar in cui le auto prendono vita e anche questo è ambientato sulla “sixtysix”. Impossibile viaggiare senza sentire di vivere come in un film, impossibile non riconoscere un po’ di noi stessi in ciascuna di quelle storie;  guidando su quelle strade si rivivono quelle emozioni in prima persona. Come in un film.

Route 66
Negozietti di memorabilia lungo la Route 66. Foto: © Roberto Gabriele

Così come nella vita ci sono periodi in cui ci si ferma a pensare, anche le soste fanno parte del viaggio, ed è possibile scegliere il posto giusto per farlo: ci sono locali che mantengono il loro fascino inalterato, in cui è ancora possibile mangiare un hamburger ascoltando la musica nostalgica e intramontabile di Bob Dylan o le note del rock texano e incalzante dei barbuti ZZ Top. Questa strada ha ispirato artisti di ogni genere; i musicisti non potevano rimanere insensibili al suo fascino,  pensando ad essa hanno scritto gli evergreen che oggi tutti cantano a squarciagola nella radio della macchina noleggiata per viaggiare da quelle parti. Musica e cibo in viaggio sono elementi di fortissima ispirazione e mescolati insieme sono in grado di moltiplicare le emozioni, si mescolano con la nostra anima, con la nostra cultura e fanno poi parte di noi. Nessuno mai potrà dimenticare il sapore della senape sulle patatine mangiate in auto guidando e ascoltando Elvis o i Rolling Stones nel deserto del New Mexico. Una emozione forte non si dimentica, più emozioni forti vissute contemporaneamente rimangono profonde ed evidenti come una cicatrice della quale andare fieri, come un enorme tatuaggio da esibire in strada.

Oggi percorrere quello che resta della vecchia Route 66 è ancora un’impresa: la strada non è tracciata, occorre avere una buona mappa e seguire (dove ci sono) le indicazioni per la “Historic Route 66”, sono delle stradine secondarie desolate e piene di fascino, a volte si interrompono nel nulla e occorre tornare indietro perchè non si innestano con nessuna altra strada. Occorre armarsi di pazienza e di un certo spirito di avventura per “sentire” la strada; il bello è proprio scoprirla miglio dopo miglio, accorgersi di scorci mozzafiato o di noiosissimi passaggi nel vuoto assoluto del grande continente americano. Questo è il viaggio dei viaggi, quello che si fa per esserci, per sentire di far parte di qualcosa, di un luogo, di una storia che non finirà mai. La Route 66 è l’essenza stessa del viaggio, è il viaggio fatto per viaggiare, per scoprire se stessi sulla strada della vita.

Si impiegano circa 2 settimane a percorrere tutta la strada che separa il lago Michigan dall’Oceano Pacifico. Per fermarsi a vedere qualcosa come per un selfie vicino ad un motel storico,  si impiega del tempo che va aggiunto ai tempi di guida e questo va sommato ai tempi di un riposino o di una visita ad una delle “Ghost Town”, le tante cittadine rimaste abbandonate intorno ad un distributore di carburanti in disuso. Camminando in questi luoghi si sente un silenzio che va oltre il non sentire rumori, questo è qualcosa di più profondo, quasi il rispetto che si deve ai luoghi sacri o ai cimiteri. La sensazione che spesso si prova è quella di una grande  anima che aleggia ancora in quei posti che prima erano così pieni di vita, di gente, di lavoro.

Questo viaggio deve essere preparato non sul web e sulle migliaia di libri che ne parlano dal punto di vista turistico, questo è un viaggio dell’anima, occorre prepararsi spiritualmente ad una esperienza che sarà forte e travolgente, nulla sarà più come prima. Partire per la Route 66 significa documentarsi su chi l’ha percorsa prima di noi, ascoltare musica, guardare foto e film, leggere romanzi. Significa guidare con il finestrino abbassato, senza l’aria condizionata, solo così la strada potrà essere un’esperienza di vita e non “solo” un grande viaggio.

Motel Buckaroo

Siate felici: lo vuole il Re del Bhutan

Andiamo per ordine: il nome corretto di questo piccolo stato himalayano è Bhutan e non Buthan, in poche persone lo conoscono, molti non lo hanno neanche mai sentito nominare, eppure esiste sulle mappe di Google, sugli Atlanti moderni ed è uno dei Paesi al mondo con la miglior qualità della vita…

Il Bhutan è l’unico Paese al mondo ad avere il Ministero della Felicità! Lo ha voluto il Re per i suoi Sudditi e funziona benissimo: la gente sta davvero bene e si vede… Il nome Bhutan è incerto, c’è chi dice derivi dal sanscrito Bhota-ant, ossia “la fine del Bhot” cioè del Tibet, oppure dal sanscrito Bhu-uttan che significa “alte terre” poichè siamo alle pendici dell’Himalaya.

La bandiera è rettangolare ed è divisa in due triangoli con il giallo che rappresenta la monarchia, e l’arancione che rappresenta la religione buddhista; sulla bandiera campeggia un drago simbolo di benessere.

In cammino verso il Tiger’s Nest, il Monastero della Tigre, una delle più ambite mete turistiche in Bhutan.

Il Ministero della Felicità:

Ho chiesto alla mia guida se fosse vera la voce che ci era giunta che in Bhutan esiste il ministero della felicità o fosse solo una fake news che corre tra noi Viaggiatori occidentali alla ricerca di esotiche stranezze. Ebbene si, il Ministero della Felicità esiste ed è un ministero unico che si occupa a livello centralizzato di tre cose ritenute fondamentali per il benessere dei Sudditi del giovane Re: Pubblica Istruzione, Sanità e Lavoro

L’Istruzione viene garantita gratuita ed è obbligatoria per tutti fino alla scuola superiore, poi chi vuole frequentare l’Università deve andare all’estero grazie a progetti finanziati dalla Cooperazione Internazionale. Il Ministero si occupa poi della salute, e anche questa viene ad essere gratuita per tutti. In Bhutan ci sono pochi piccoli ospedali e vanno bene solo per il pronto soccorso e per i reparti di Ostetricia, per tutto il resto il Paese paga le cure all’estero  per i suoi cittadini (mandandoli a curare soprattutto in India). Infine il Ministero della Felicità provvede al Lavoro di tutti: chi non ha come sostentarsi può fare richiesta di un terreno demaniale da coltivare: una concessione gratuita cui hanno diritto coloro i quali non hanno altri modi per sostentarsi.

Risaie nei pressi di Khamsum Yuelley Namgel Chorten, cun tempio che è stato costruito per rimuovere le forze negative e promuovere la pace, la stabilità e l’armonia nel mondo che cambia.

Il sovrano illuminato sostiene che quando i suoi Sudditi hanno istruzione, sanità e lavoro hanno tutto il necessario per essere felici. E in effetti non sbaglia perchè camminando per le vie della Capitale Thimpu si percepisce un clima di serenità sui visi delle persone.

Ma per essere un Re amato e rispettato davvero dal suo Popolo ci vuole coerenza ed empatia con il Popolo. Qui in Bhutan il sovrano gira in città a piedi senza scorta e guida personalmente la sua auto (un normalissimo SUV), e ha l’Autista solo nei momenti Ufficiali come ad esempio le visite di altri Capi di Stato… Il padre dell’attuale sovrano, ha abdicato il Regno a favore del figlio Jigme Khesar Namgyel Wangchuck perchè a soli 53 anni sentiva che un giovane di 18 anni, meglio di lui, avrebbe saputo condurre il Paese.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Senza pagare le tasse: 

Quando viaggio, mi piace guardare i numeri che mi danno la dimensione delle cose,  un’idea, dei riferimenti, per capire cosa accade intorno a me. Un Regno con soli 800.000 abitanti: uno Stato intero che è popoloso come un quartiere di Roma… 

Viene da chiedersi come gestire un territorio che comunque non è piccolo, con così poche risorse…. Ne esce un problema di Finanza anche perchè, qui non si pagano le tasse! Come fa lo stato a finanziarsi? Fortunatamente il Bhutan si trova ai piedi dell’Himalaya e grazie allo scioglimento delle nevi, i suoi fiumi sono sempre in piena e hanno una portata di acqua enorme: le potenti dighe quindi producono energia elettrica che viene venduta alla Cina e all’India e gli incassi che ne derivano sono sufficienti e sostentare la macchina statale senza che le persone siano obbligate a pagare le tasse.

Le tasse le pagano solo le grosse Compagnie straniere e la gente vive con uno stipendio comunque dignitoso che gli permette di vivere ed essere realmente felici.

Nelle case, con la gente. Vengono tostati i cereali.

Tradizione e Religione:

In Bhutan c’è l’obbligo, per tutti i dipendenti pubblici, di vestire con gli abiti tradizionali, e nei giorni di festa l’obbligo è esteso a tutti i Cittadini, e siccome ci sono decine di giorni di festa ogni anno in tutto il Paese, da queste parti è più facile vedere le persone vestite con abiti tradizionali che con abiti moderni! Tutto questo è previsto dal “codice delle buone maniere” che qui chiamano Driglam namzha.

Il vestito tradizionale maschile si chiama Gho, è una sorta di lunga vestaglia e lascia le gambe coperte dai lunghi calzettoni neri, la parte alta, con il bavero abbondante, viene usata come se fosse un grosso tascone, una sorta di marsupio nel quale ciascuno può tenere oggetti, documenti, cibo, attrezzi e tutto ciò che in essa può essere trasportato. La cintura nera che li cinge in vita è la Kera ed è fondamentale proprio perchè fa da “fondo” al tascone. Per le donne c’è invece la Kira, un vestito lungo fino alle caviglie fatto con tessuti colorati e decorato con disegni geometrici tradizionali.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Ma in Bhutan la tradizione non è solo negli abiti, qui viene mantenuta viva anche nelle case che devono avere un particolare tipo di finestra in legno sagomato e colorato secondo lo stile locale. E non è tutto: anche i colori ammessi in qualunque tipo di utilizzo pubblico o privato sono stati previsti in una speciale “mazzetta cromatica” che ne ammette solo alcuni escludendo tutti gli altri.

Il buddismo è la Religione di Stato in Bhutan ma c’è anche una certa apertura verso altre religioni come l’induismo e per le minoranze cristiane che possono professare però il loro credo solo in casa. I suoi festival di origine religiosa si svolgono all’interno degli Dzong che sono i tipici edifici del Bhutan con una curiosa funzione mista di centro militare, e allo stesso tempo anche religioso, tutto all’interno di uno stesso edificio. Gli dzong, vengono costruiti rispettando le regole di stile imposte per legge e naturalmente il lavoro di progettazione viene stabilito in accordo tra le autorità religiose e quelle civili.

Punakha Dzong (Palazzo della Grande Felicità o Palazzo d’Estate)

Ogni dzong ospita un festival religioso annuale chiamato tshechu durante il quale si svolgono le danze con costumi coloratissimi che rappresentano animali reali o mitologici chiamate cham che possono durare per ore ad un ritmo lento e incessante, angosciante e tetro. Fondamentalmente le trame dei cham celebrano la vittoria del bene sul male con la sottomissione del diavolo e la liberazione dagli spiriti maligni.

Durante i cham, tra i danzatori ufficiali che si esibiscono in faticose ed estenuanti coreografie rituali, fanno la loro comparsa assolutamente incontrollata delle figure di disturbo (anch’esse mascherate) che entrano liberamente e improvvisamente nella scena per ridurre la tensione. Hanno una ruolo fondamentale e allo stesso tempo irriverente e dissacrante e portano gli spettatori (e i bambini in particolare) a grosse risate inaspettate e nessuno si mostra disturbato dalla loro presenza che ha esattamente la funzione del clown nel nostro circo durante l’esibizione del domatori di leoni.

Il Paese che non ha semafori:

Un vero Viaggiatore prima di partire sa darsi un obiettivo, ha uno scopo per decidere di fare quel viaggio. Ciò che ci spinge a metterci in viaggio non è mai la meta finale, la destinazione non è un punto di arrivo, ma il concretizzarsi di un “percorso” che a volte dura anni e che nulla ha a che fare con la “strada” necessaria per arrivare. Ciascun Viaggiatore si chiede quindi prima il perchè sceglie una meta piuttosto che un’altra, e ciascuno avrà una risposta diversa da tutti gli altri.

Mi sono chiesto anche io perchè il Bhutan, perchè raggiungere una destinazione tanto insolita, un Paese quasi del tutto sconosciuto al Turismo nel quale arrivano ogni anno solo 20.000 Turisti da tutto il mondo, metà dei quali sono Indiani. Il Visto “all inclusive” che costa circa 250 dollari al giorno comprende anche il pernottamento, i pasti e la guida locale obbligatoria più i trasporti interni con autista privato e le tasse di soggiorno.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Sono andato in Bhutan perchè mi piacciono i viaggi etnici, e scoprire culture lontane, mi piace il rapporto tra la gente e la religione, documentare la spiritualità delle persone che vivono in Paesi in cui la religione è un valore costituzionale e fa parte della struttura sociale.

Sono andato fino in Bhutan appositamente per fotografare i Festival di Punakha e di Thimphu che si svolgono in ottobre a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Tutto il viaggio è durato 8 giorni di cui quattro li ho passati nei festival vivendo le danze in mezzo alla gente: qui gli spazi sono aperti e la libertà di muoversi è assoluta: ci si può sedere anche accanto al Re, se si trova un posto libero nella Tribuna d’Onore.

Le armi giocattolo sono il gioco preferito da tutti i bambini

Il popolo è accogliente e sorridente: questa gente ti apre le porte di casa per farti entrare e offrirti un tè anche se non ti ha mai visto prima. Molti di loro vivono in campagna coltivando riso sui campi terrazzati a gradoni e sono molto ospitali con i pochi stranieri che si spingono fino in Bhutan a scoprirne la cultura. In Bhutan tutto è a misura d’uomo: basti pensare che in tutto il Paese non esiste un semaforo e che gli incroci principali sono controllati da vigili urbani che dirigono il traffico in guanti bianchi, grazie al Ministero della Felicità qui non esiste la disoccupazione.

In tutto il Bhutan c’è un solo aeroporto, a Paro, incastrato in una valle e il suo atterraggio è così complicato che ci sono solo 6 piloti al mondo abilitati a farlo. Tutti questi mi sono sembrati motivi più che sufficienti per scoprire che il Paese in cui tutti vorremmo vivere per essere felici esiste davvero e si chiama Bhutan.

Ah… Ricordate un’ultima cosa: in tutto il Bhutan è severamente vietato fumare!

Il Tiger’s Nest arroccato sulla montagna. Per arrivarci bisogna salire (è possibile arrivarci solo a piedi) per oltre 900 metri di dislivello
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