Sono Marjin Shulte e vi porto nel vivace porto di Stone Town, in Tanzania, un gruppo di ragazzi locali si riunisce ogni giorno per un’emozionante pratica che fa parte della loro cultura.
Questi ragazzi si tuffano in mare dal molo con incredibile abilità e precisione, impressionando sia i turisti che la gente del posto. Ai ragazzi locali di Stone Town Zanzibar piace mettere in mostra le loro abilità nel tuffo e nel salto per dimostrare la loro audacia e il loro coraggio.
Il molo, che si trova proprio sull’oceano, è un punto di lancio ideale per mostrare, alla folla che guarda con ammirazione, le loro acrobazie!
Man mano che si diffonde la notizia degli accattivanti salti dei ragazzi locali, un numero crescente di gli spettatori curiosi sono attratti dalla scena a Stone Town, in Tanzania.
La folla si organizza organicamente in una linea ordinata, aspettando con impazienza il loro turno per assistere allo spettacolo maestoso.
Le grida energiche dei ragazzi fungono da catalizzatore, accendendo un’energia contagiosa che si diffonde tra la folla.
La buona competizione in Tanzania
Gli applausi diventano una forza unificante, che connette tutti in una celebrazione condivisa degli incredibili salti dei ragazzi locali.
Assistere ai ragazzi locali che saltano con grazia in mare, accompagnati da vortici di foglie o fiori, è un piacere sensoriale che lascia un ricordo indelebile negli spettatori. Esso è una testimonianza della loro creatività e del patrimonio culturale unico che fiorisce in esso Stone Town, Tanzania.
Con occhio vigile, i responsabili della sicurezza ricordano gentilmente al pubblico di restare indietro e forniscono indicazioni su dove è sicuro posizionarsi. Sanno che mantenere uno spazio controllato è fondamentale per la corretta esecuzione dei propri salti, per la loro sicurezza e di tutti i soggetti coinvolti.
Uno spirito giocoso riempie l’atmosfera mentre i ragazzi, a turno, si cimentano in audaci salti, capriole o tuffi sempre più alti.
Tutto questo per impressionare, non solo gli spettatori ma anche i loro compagni sfidanti, stimolando un sano senso di benessere competizione e desiderio di miglioramento continuo.
Foto e parole di Marjin Shulte
Questo racconto di Marjin Shulte ha partecipato al Travel Tales Award 2023 ed è stato pubblicato sul libro che raccoglie il meglio della terza Edizione.
Il libro è stato presentato a Milano durante la nostra Convention di Viaggio Fotografico. Clicca QUI per partecipare anche tu alla nuova edizione 2024.
MAURITANIA
Mauritania, le sfumature del silenzio
I ricordi fanno rumore: le voci, suoni di passanti, risa dei bambini o del vento che insinua ovunque la sabbia divenuta respiro.
Un andare e venire nel mobile sguardo che tutto vuole accogliere e di cui non ha mai abbastanza: orizzonti leggermente frastagliati, cespugli di faticoso verde, vette miti accerchiate d’intenso arancio, morbide dune che dividono lo spazio con l’azzurro liquido, divorato dal verso dei gabbiani.
E il cielo, il grande cielo azzurro o disseminato di nastri di nuvole a raccogliere ombre.
La luce disegna e definisce luoghi, sguardi, intenzioni, pietre, mura policrome sbrecciate incomplete antiche e nuove, uomini e animali, donne e passi frettolosi, bambini e la curiosità del divenire, in un frammento costante pieno di vita.
Quando poi al buio, tutto diventa uno, custodito dal silenzio delle stelle.
Foto di Roberto Malagoli, parole di Lisanna Pina
“Mauritania” è il SECONDO CLASSIFICATO di Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Dancalia
Le carovane e i tagliatori di sale
Poche zone sulla Terra riuniscono una così straordinaria quantità di motivi d’interesse. È una regione di difficile accesso, dal clima estremo, dove si raggiungono le temperature più alte del pianeta. Per secoli l’unico collegamento con il resto del mondo è avvenuto attraverso le carovane di dromedari che trasportavano blocchi di sale sull’altopiano etiopico. Ancora fanno da cornice ad una regione dalle mille sfumature. Nel percorrere il tragitto delle carovane attraversando Il Fiume Saba ho voluto mettere in evidenza le sfumature e le forti emozioni che hanno lasciato in me una traccia indelebile.
Uomini che alle prime luci del mattino sono pronti ad accingere il loro cammino e nelle luci del giorno la loro tenacia, allegria e socievolezza scalpisce la loro fatica. Nel caldo riposo del sole sfrecciano come lance con le lunghe file di Dromedari al loro seguito per proteggersi dal caldo torrido del giorno.
Uomini dalla pelle dura ma con sguardi che lasciano trasparire la loro fragile timidezza, celata dalla forza che imprimono sui sassi di sale della Piana del Sale e nei passi lenti ma ritmati del loro cammino.
Uomini di etnie diverse ( Musulmani e cristiani) lavorano insieme, condividono abilità e capacità. Hanno bisogno gli uni degli altri per vivere e per conservare un’identità e una tradizione che resiste da millenni. In un paese dove niente fa pensare a un equilibrio, musulmani e cristiani riescono a convivere con un obiettivo comune: il commercio del sale, che da tempi immemorabili fa vivere migliaia di famiglie.
” Le carovane di Sale, una vita in cammino, di sudore, di sete e stanchezza. A volte la sosta in un oasi. Le carovane restano un racconto di silenzio e di luce argentata” ( cit. tratta dal libro” Gente in Cammino” di Malika Mokeddem ).
“Vanno le carovane del Tigrai…” recitava il ritornello di una canzone scritta durante l’invasione italiana dell’Etiopia, che a ritmo di foxtrot descriveva la discesa delle carovane tigrine verso la Piana del Sale, in Dancalia, il deserto Etiope al confine con l’Eritrea. La canzone dipingeva i nostri soldati non come invasori ma come soccorritori di un popolo che “… giammai conobbe libertà …” e che grazie a noi avrebbe potuto “… andare incontro alla civiltà …”. L’unica verità che traspare tra le molte inesattezze del testo, è la descrizione delle durissime condizioni di vita dei raccoglitori e dei trasportatori del sale.
Le carovane raggiungono all’alba, dopo essersi messe in movimento il giorno precedente, la Piana del Sale. E’ l’ampia area pianeggiante formatasi nella depressione dancala per effetto dell’alternanza, governata dai fenomeni di sollevamento tettonico e di variazione del livello del mare, dei periodi di invasione delle acque del Mar Rosso e delle successive fasi di essiccamento. I sedimenti di questa piana, di spessore variabile da 1 a 3 km, sono tuttora teatro dell’estrazione delle lastre di sale destinate al consumo animale.
Il sale viene cavato dalla superficie e tagliato in forma di tavolette trasportate dalle carovane di dromedari fino alle alture del Tigrai. E’ un’attività che viene svolta per un periodo limitato di tempo nell’anno, tra ottobre e marzo: prima e dopo il caldo è insopportabile anche per gli Afar, l’etnia etiope che cava e dà forma alle tavolette. Oltre al caldo i cavatori devono affrontare l’abbacinante luce riflessa dalla superficie salata, motivo per cui gradiscono particolarmente l’omaggio di occhiali da sole.
Non si sa quanto potrà ancora durare la loro attività, minacciata dall’avanzare di nuove strade realizzate da imprese cinesi che porteranno sulla piana del sale camion in grado da soli di svolgere il lavoro di più carovane, in una frazione del tempo impiegato dal trasporto animale.
Se pensi al Natale come Babbo Natale che arriva sulla slitta il 25 dicembre e porta regali ai bambini, leggi questo articolo: ti porterò in un posto in cui tutto questo non è vero. Ad esempio, nel nord dell’Etiopia, a Lalibela, è tutto diverso, anche la data di Natale che viene celebrato il 7 gennaio!
Lalibela è un posto magico, denso di spiritualità, uno di quei posti in cui sentirai esplodere dentro di te il mal d’Africa. Lalibela è la classica cittadina tranquilla africana: poche case in muratura, qualche albergo e tante capanne, sono i tipici tukul con il tetto in paglia a punta. Lalibela però è un Patrimonio dell’UNESCO perchè qui c’è qualcosa che non esiste in nessun altro posto al mondo: le chiese rupestri ipogee monolitiche. Detto in altri termini queste chiese sono state letteralmente scavate svuotando la montagna e ricavando la chiesa da un unico blocco di roccia. 40 anni di lavoro fatto a mano con martelli e scalpelli.
Qui le chiese sono di rito cristiano copto, un rito completamente diverso da quello cattolico, nei costumi, nella durata, nelle modalità di celebrazione e anche nella simbologia. La festa del Natale è la più sentita, la più bella e partecipata dell’anno. Circa 20.000 fedeli arrivano qui per celebrare la nascita di Gesù con una messa che dura 12 ore: dalle 9 di sera fino alle 9 del mattino successivo, il tutto accompagnato da circa 300 sacerdoti che indossano paramenti dai colori sgargianti e da tutti i fedeli che vestono il tipico caftano bianco. L’atmosfera che si respira qui è meravigliosa, che si sia credenti o no è impossibile rimanere impassibili davanti a tutto questo. La simbologia è talmente chiara da sembrare artefatta: sembra che ci sia dietro il lavoro di un abile regista, mentre invece tutto è dettato dalla tradizione più antica e incontaminata. Quando andai io, tra la gente c’era persino il Presidente dell’Etiopia con la sua scorta! Le misure di sicurezza erano fittissime! ;:)
La notte simboleggia la tenebra e il peccato: il rito non a caso viene celebrato con il buio. La suggestione del momento è enfatizzata dalla presenza di centinaia di candele con le quali i fedeli rischiarano di tanto in tanto la lettura dei testi sacri che portano con se per seguire le letture durante la lunga veglia. E’ incredibile osservare le espressioni e il coinvolgimento emotivo di queste persone rapite dalla preghiera. Ma la notte è fatta anche per riposare e qui nella grande chiesa di Santa Maria (dedicata alla Madonna) si dorme regolarmente durante la lunga veglia notturna del Natale! Quello che da noi in Italia sarebbe impensabile, irriverente, inaccettabile come il dormire in chiesa durante un rito sacro, in Etiopia invece viene accettato senza difficoltà: la notte è fatta per dormire, chi vuole prega, gli altri dormono!
I sacerdoti sono centinaia, restano svegli tutta la notte a celebrare il lungo rito. Molti di loro sono sposati e hanno figli, il celibato non è a loro richiesto. Quasi ogni parte del rito viene cantata e danzata per rendere la partecipazione più corale e intensa. Le letture e le omelie sono ridotte al minimo. Il ritmo lento viene scandito dal Sistro: uno strumento il cui suono assomiglia a quello di un cembalo, costruito con una impugnatura con dei piattelli che vengono suonati alzando o abbassando il braccio in un gesto rituale che simboleggia la morte (braccio abbassato) e la resurrezione di Gesù (braccio alzato). Durante ogni canto, durante tutta la notte, viene ricordato tutto questo.
E poi c’è la gente che vive in massa tutto questo. A parte chi dorme e chi legge nella chiesa, c’è poi chi rimane all’esterno e partecipa al rito guardandolo sui maxischermi che vengono allestiti per l’occasione perchè all’interno non c’è spazio per tutti. Fuori dalla chiesa, davanti ai monitor si crea un vero e proprio accampamento con tende improvvisate e tavolate di intere famiglie che ricoprono la montagna con le loro vesti bianche che si vedono bene nella notte.
Tra la gente e i sacerdoti c’è la presenza fondamentale di certi mediatori che scendono tra la gente portando a loro i simboli cerimoniali come la croce e un cuscino che viene baciato a turno dai fedeli. Questi mediatori sono quelli che vendono le candele con le quali partecipare alla messa. I loro abiti sono preziosi, dorati, coloratissimi e portano sempre un ombrello damascato coordinato con l’abbigliamento. A ben guardare i loro movimenti, nonostante l’apparenza solenne, appaiono però come abili commercianti che si aggirano durante la lunga messa tra la gente per vendere ancora candele a chi ne fosse rimasto sprovvisto.
Il Natale copto è il 7 gennaio, con la grande veglia che inizia il 6 sera, in corrispondenza con la nostra Epifania. Il giorno della Vigilia passa tra i pellegrinaggi che vengono fatti dai fedeli nelle chiese: si va in visita alle icone dei santi e ci si mette in fila per una veloce benedizione, si bacia la croce copta in legno o in argento e con questa si viene benedetti dal sacerdote. Migliaia di persone arrivano 1-2 giorni prima del Natale proprio per avere il tempo di fare i pellegrinaggi in tutte le chiese e in particolare in quella di San Giorgio, la più grande e bella: famiglie intere o comunità locali si spostano in gruppo arrampicandosi sui pericolosi muretti alti 10 metri senza protezioni, camminando negli stretti cunicoli in discesa scavati per accedere alle chiese. E per tutto il giorno si mangia in strada dove ci sono ristorantini ambulanti e migliaia di fedeli già vestiti a festa.
Alle 21 del 6 gennaio inizia la lunga messa: 12 ore per sentirsi vicini a dio. Durante la prima parte ci sono canti e danze, quando la notte diventa profonda, il ritmo rallenta e la gente si addormenta a terra. Quello è il momento preferito da noi fotografi perchè possiamo muoverci facilmente per fare le nostre foto e camminare infilando i piedi nei pochissimi spazi liberi tra la gente che dorme, anche se ogni tanto può capitare di pestare una mano o un piede nascosti nel buio… La cosa più bella da fotografare sono i contrasti tra le luci delle candele e le ombre, tra il bianco delle vesti e il nero della pelle della gente, tra i colori dei vestiti e il nero della notte.
La lunga veglia prosegue abbastanza uguale a se stessa fino al momento in cui improvvisamente il rito cambia e il buio lascia lo spazio al rito della luce che simboleggia la nuova nascita e l’arrivo del Natale. La chiesa che era caduta nel torpore generale si sveglia improvvisamente tra le urla generali delle folla impazzita: la nascita di Gesù viene celebrata in quel momento con una gioia incontenibile e urla liberatorie. In pochi istanti tutti i fedeli tirano fuori le candele che avevano conservato e le accendono l’una con l’altra in un gesto di condivisione reciproca durante il quale la luce aumenta velocemente in proporzione. Il momento è emozionante: le urla festose, la luce che aumenta, la chiesa che fino a quel momento era stesa a terra a dormire si rialza in piedi e ricomincia a partecipare al rito. Poco dopo la preghiera è fortissima, le urla caotiche vengono riordinate di nuovo dalla coralità della preghiera e, girandosi intorno, tutto ciò che era buio ora è illuminato dalla luce di migliaia di candele accese, tutto ciò che era libero ora diventa ordinato e corale.
La gente ora è tutta in piedi e rivolta verso l’altare con le candele in mano intenta a pregare, questo momento dura un’oretta di preghiera, poi di nuovo un crescendo di emozioni avvolge i presenti: di nuovo le urla della folla impazzita: alzando lo sguardo verso i bordi laterali si scorgono i sacerdoti che sono saliti sul bordo dello strapiombo intorno alla chiesa e dall’alto cingono con la loro presenza tutta la chiesa e i fedeli in un abbraccio simbolico, hanno cambiato le loro vesti, tolto i colori e sono tornati a vestire anche loro di bianco con solo una fascia colorata. Applausi, lacrime e sorrisi: si alzano verso di loro migliaia di telefoni cellulari che fotografano la lunghissima fila di Celebranti, tutti hanno tra loro un parente o un amico che dall’alto li sta benedicendo e li ricambiano con una foto ricordo. Anche i sacerdoti, nonostante la sacralità del momento e del loro ruolo, scattano di tanto in tanto qualche foto con il cellulare alla folla sotto di loro alternano questo gesto pagano alla sacralità del suonare il sistro che da ore segna il tempo della cerimonia. La simbologia anche qui è fortissima: dopo la tenebra del peccato arriva la luce e quindi la salvezza.
La magia della luce continua perchè adesso il cielo inizia a tingersi di rosa: è l’alba di Natale! La messa vera e propria ha inizio alle 6 del mattino, e finirà alle 9 dopo tre ore di canti e danze accompagnati ora dal ritmo dei tamburi che sovrasta e sostituisce il suono melodioso e malinconico del sistro. E qui l’anima africana degli etiopi fatta di ritmo e danze prende il sopravvento sul rito lento e profondo che si è vissuto per tutta la notte… L’allegria generale da il benvenuto alla festa, segna la fine dell’attesa per la nascita di Gesù nel giorno di Natale.
Qui siamo lontani anni luce dall’icona tipica di Babbo Natale, siamo lontani dai panettoni e dalla neve. Benvenuti in Africa.
La chiesa cristiana copta celebra il rito del Natale con un calendario diverso rispetto al nostro, spostato di 13 giorni in avanti. La festa del Natale è quindi il 7 gennaio con la vigilia il 6, ossia il giorno della nostra Epifania. Quindi, la loro Epifania è il 20 gennaio.
Genna, il Natale copto in Etiopia
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La Famadihana in Madagascar
Da qualche parte in Madagascar, nell’estate del 2008, ho assistito al rito della Famadihana.
Nel nord del Madagascar, nella piccola zona che si estende dalla Capitale Antananarivo fino ad Antsirabe, nelle campagne è ancora in vigore la Famadihana: un rituale di riesumazione dei morti dalle tombe di famiglia, le tradizioni legate al culto dei morti sono molto importanti e sentite e in ogni zona dell’isola si celebra in modo diverso la perdita dei propri cari.
Spostandosi verso l’estremo sud, invece, questa usanza è quasi del tutto sconosciuta: da quelle parti vengono costruite tombe enormi con muretti lunghi circa 10 metri di lato e alti circa un metro e venti. Le tombe del sud vengono decorate con dipinti che ricordano la vita del defunto nelle sue passioni e nei suoi interessi. Una specie di fumetto, un fotoromanzo che raccontano il lavoro, la famiglia o le sue attività. Le tombe vengono adornate con oggetti che erano del defunto o con simbologie varie realizzate su totem piantati nel terreno.
L’uscita della salma
La Famadihana del nord, invece, è un rituale che viene fatto dopo sette anni dalla morte del congiunto (e solo nel periodo fra luglio e settembre), la famiglia organizza una grande festa in onore del defunto che viene riesumato dal suo sepolcro e portato in processione dalla folla gioiosa che canta e balla accompagnata da intere bande musicali.
Io andai a fotografare questo rituale nel 2008 durante uno dei miei viaggi, riuscii ad organizzarmi con un autista che mi portò in giro per tutta la giornata, partenza al mattino prestissimo e dopo 4 ore di auto arrivai nella zona il cui è possibile vedere il rito. Il problema era che non è così scontato trovare la festa, non si tratta di un evento che viene celebrato in un giorno fisso ogni anno, può essere in qualsiasi giorno e ci vuole un pò di fortuna per trovarne una quando si è in giro a cercarla.
La festa della Famadihana ha inizio già al primo mattino, la casa dei parenti viene trasformata in un ristorante dove decine o centinaia di persone prenderanno parte al pranzo di festeggiamento che si svolge in giardino per ovvi motivi di spazio. Tutto si svolge nella massima allegria, la gioia gli deriva dalla possibilità unica (direi dal privilegio) di poter riabbracciare, seppur per poche ore, il corpo del loro caro estinto.
Passai una giornata intera con la famiglia del defunto, mi presentai con il mio autista che mi faceva anche da interprete e che chiese ai padroni di casa se io potessi assistere e fotografare tutto il rito. Furono onorati della mia presenza, e fui ammesso senza esitazioni ad un evento così privato nonostante fossi uno sconosciuto. Non mi chiesero nulla, per partecipare e mi fu veramente difficile una volta entrato fargli accettare le due bottiglie di rum che gli avevo portato in omaggio per ricambiare l’ospitalità. Le portai come regalia per ingraziarmeli e invece loro non volevano neanche accettarla: un ospite che sia ben accetto non paga, un ospite non gradito non entra! Alla fine accettarono.
Si inizia dal pranzo
Il pranzo è abbondante, viene convocata persino la banda musicale del paese che accompagnerà con le sue note tutta la giornata della Famadihana. Più la famiglia è ricca, tanto più sarà grande la formazione dei musicisti. Il pranzo prevede maiale bollito con le patate che è rituale per questa circostanza. Si festeggia e le porzioni in questi casi sono sempre generose. Durante il pranzo c’è la banda musicale che allieta gli ospiti, i musicisti sono in numero proporzionale alla disponibilità economica della famiglia e suonano musiche allegre con gente che balla.
Dopo il pranzo vengono raccolte le offerte per pagare parte delle spese cui la famiglia va incontro in quella giornata. Più o meno succede la stessa cosa che si fa dalle nostre parti in Italia con le buste ai matrimoni.
Dopo aver raccolto le offerte, si parte insieme per raggiungere a suon di musica la tomba di famiglia che può essere lontana anche qualche chilometro. Alla tomba arrivano altri ospiti, centinaia, anche un migliaio di persone da tutta la valle si riuniscono per festeggiare. Qualcuno porta un tavolino che verrà trasformato in un punto di ristoro in cui comprare qualche bibita o qualcosa da mangiare. E’ impressionante vedere questi fiumi di persone che si dirigono tutti insieme verso lo stesso punto: camminano a piedi, portano le bandiere del Madagascar e festeggiano sui prati. La Famadihana è una festa per tutti, non solo per la famiglia.
Il grande esodo
Camminando tra la folla ti rendi conto di essere in Africa, di essere diverso, unico bianco in mezzo ad una moltitudine di persone. Capisci un pò cosa può significare per uno di loro venire in Italia, da solo, spaesato, senza parlare la lingua e senza conoscere le nostre tradizioni. L’unica differenza è che io in mezzo a quelle persone con la faccia nera mi sentivo accolto, ero amico di tutti, la gente mi salutava e mi faceva sentire importante proprio perchè diverso da loro, perchè ero andato lì per conoscerli e non per invaderli.
Questo non è esattamente lo stesso trattamento che noi Italiani riserviamo ad uno straniero che venga da noi: di certo non lo facciamo sentire a casa sua, non lo salutiamo, non ci importa di ascoltare la sua storia e non vogliamo neanche che si avvicini troppo a noi. Ne segue che ero solo io in mezzo a loro, e mi rendevo conto di tutto questo. Sentivo forti gli odori della gente, dell’erba, degli animali intorno a me, sentivo il caldo umido e opprimente dell’inverno malgascio e immagino cosa può essere stare lì in estate…
Arriva poi il momento in cui il corpo viene estratto dal sepolcro e portato in processione a danzare con la folla, in particolare con la famiglia. E’ un momento molto forte, molto sentito: la gioia viene comprensibilmente rotta per la prima volta dal pianto: un pianto di commozione, di nostalgia e di gratitudine per la possibilità di riabbracciare le ossa del proprio parente.
Qui diventa tutto difficile, fotografare è quasi impossibile, non mi viene chiesto di fermarmi, ma in quel momento capisco io stesso che si impone il rispetto.
Infine, quando viene rinnovato il sudario in cui è avvolto il corpo c’è un intenso momento di emozione e di preghiera in cui le famiglie si stringono con forza e sincera solidarietà. Poi la Famadihana termina con la rideposizione del corpo all’interno della tomba dalla quale non verrà mai più estratto.
Oggi voglio parlare di un diverso modo di viaggiare, di fare fotografia, di vedere il mondo ma soprattutto voglio parlare di un argomento del quale si parla tantissimo: l’Immigrazione. Voglio fare tutto questo insieme mescolando cose apparentemente slegate tra loro.
Iniziamo con il dire che sono Socio della ONG Bambini nel Deserto e che quando posso “mi sporco le mani” rendendomi utile nel volontariato con le mie foto e i video che realizzo quando vado in Africa.
Torniamo all’immigrazione: problema che coinvolge con opinioni differenti milioni di Italiani, chi vuole aprire le frontiere a chiunque, chi vuole chiuderle. Io credo che il modo migliore per vincere l’immigrazione sia fare in modo che gli extracomunitari abbiano modo di rimanere a casa loro impegnandosi in attività produttive senza essere costretti a rischiare la vita per viaggi terrificanti verso il nostro paese che vedono come il paradiso e si rivela per loro essere un inferno.
La cosa non è difficile da fare e costa anche molto meno che proteggere le nostre frontiere e dare assistenza a chi sopravvive alle carrette del mare che trasportano disperati fino in Sicilia.
Con Bambini nel Deserto realizza una serie di progetti finalizzati all’avviamento di “Attività generatrici di reddito“. Detto in altre parole, formiamo gli Africani al lavoro, a lavori compatibili con ciò che hanno e a farne eccellenze qualitative. Li formiamo affinchè abbiano le capacità teoriche oltre alle abilità manuali. Gli diamo un “Microcredito“, prestiti a tasso zero che servono per fargli acquistare macchinari o materie prime con le quali lavorare, cifre bassissime (fino a 5000,00 Euro) che loro possono restituire in 4-5 anni.
Cosa facciamo? Ad esempio gli insegniamo a fare i meccanici di moto (Garage Italia è un Progetto realizzato a Ouagadougou), possiamo avviarli a costituire una cooperativa di allevamento di capre per ricavarne il latte o una cooperativa di agricoltori per vendere su larga scala invece che direttamente al mercato.
Quello di cui invece voglio parlarvi oggi è un Progetto che abbiamo realizzato con una cooperativa di giovani sarte, coordinate da una Italiana che ha deciso di espatriare e stabilirsi lì, aprendo un B&B e con la sua esperienza maturata in anni di alta moda italiana, è andata in Burkina Faso ad insegnare alle ragazze a cucire! E non è mai più tornata in Italia.
Le ragazze che vedete in queste foto sono le stesse che hanno seguito il Corso di sartoria, i vestiti che indossano li hanno cuciti loro stesse e con orgoglio posano per le mie foto con una naturale eleganza e un portamento naturale da fare invidia a molte top model.
Fotografarle è stato per me esaltante. Conoscevo la loro storia, conoscevo le loro aspirazioni, avevo visto come lavoravano e con quanta passione cucivano i loro modelli. A Bobo Dioulasso ho seguito una di queste ragazze che dopo il Corso aveva aperto una sua Sartoria facendo lavorare 4 persone per lei: cuciono vestiti su misura, gli porti la stoffa, scegli il modello e passi a ritirarlo finito un paio di giorni dopo.
La cosa bella è che stando in Italia sembra che un lavoro nella moda sia riservato solo a noi, oppure a fabbriche di Cinesi stipati a Prato, non è facile pensare che anche in Africa ci siano persone che tengono al loro look! Fortunatamente non tutti gli Africani muoiono di fame, ci sono milioni di persone che nella loro povertà hanno una grandissima dignità e con piccoli (o grandi) gesti curano la propria persona come lo farebbe uno di noi. L’Africa riesce sempre a meravigliarmi, ogni volta che ci ritorno…
Quando vado in Africa la sensazione più bella è quella di trovarmi in un posto con enormi potenzialità, in un territorio vergine pronto per crecere e dare i suoi frutti migliori. Non un posto da conquistare o da colonizzare, ma al contrario vedo un intero continente che ha voglia di crescere, di svilupparsi e dare il meglio che ancora non è riuscito a dimostrare.
E’ bello poter raccontare le storie di chi ce l’ha fatta a rimanere nel suo Paese, a realizzare la sua vita con eccellenze alla sua portata che gli hanno permesso di farsi una famiglia, di imparare un mestiere e di contribuire alla crescita del suo villaggio.
Altre storie vi potrò raccontare, nelle prossime puntate…
Voglio parlarvi di questa mostra che ho visto nel 2013 a Parigi, a due passi dal Centre George Pompidou, durante quello che fu il primo Viaggio Fotografico della nostra storia. Il Viaggio si chiamava Parigi in Bianco e Nero e questa esposizione (a sua volta in Bianco e nero) la scoprimmo per puro caso durante le nostre visite in città.
A tre anni di distanza ho conservato il materiale e i riferimenti della mostra e ora che mi ritrovo tutto tra le mani mi torna in mente quella mostra e voglio raccontarvi le mie impressioni avute all’epoca.
L’Africa:
“Nha Terra” – era il titolo della mostra di questo fotografo ossia la mia terra tradotto dal portoghese, che è la lingua parlata in Guinea Bissau.
Di mostre bellissime sull’Africa ne ho viste tante, a partire da quelle stranote di Sebastiao Salgado che contengono sempre delle sezioni incredibili sul Continente Nero, fino ad arrivare ai vari vincitori del World Press Photo che in un modo o nell’altro trattano altri temi legati alle migrazioni, a guerre, carestie, sfruttamenti e ogni altro genere di scempi fatti da noi occidentali direttamente o indirettamente ai danni degli Africani.
Invece questa mostra di Nedjima Berder (totalmente sconosciuto nel panorama dei grandi nomi della Fotografia) mi colpì veramente. Mi colpì per il suo allestimento fatto all’interno della chiesa di Saint-Merry, già questo è un elemento di nota che da noi in Italia risulterebbe alquanto bizzarro se non addirittura impensabile. Una bella chiesa che accoglie una bella mostra. Viste le tematiche della mostra, anche la scelta del luogo mi sembra appropriata: un luogo nato per accogliere, che accoglie realmente. Un luogo per tutti che parla degli Ultimi. Al dilà della ritualità sacramentale, assistiamo qui alla condivisione di storie reali che raccontano e divulgano un mondo lontano al quale non siamo estranei.
Le immagini, se vogliamo, non sono neanche particolarmente originali e usano una tecnica che andava di moda forse una quindicina di anni fa: rendere una foto in bianco e nero lasciando solo un colore. Qui assistiamo alla stessa tecnica leggermente rivisitata che invece di un solo colore evidenzia un oggetto (con tutti i suoi colori) della foto nelle mani di uno dei soggetti ritratti.
Le foto:
La cosa che mi piace è che queste foto raccontano di un’Africa che esiste e che per fortuna pur vivendo con poco, non muore di fame. Le foto sono state scattate nei pressi di un mercato in Guinea Bissau, uno dei paesi più poveri al mondo, molti non sanno neanche esattamente dove collocarlo sul mappamondo, ma ci parlano della dignità di queste persone, e del loro rapporto con la terra e con ciò che mangiano. Sono infatti i ritratti dei contadini, pescatori o allevatori che vanno a vendere i loro prodotti al mercato.
Le foto non hanno le classiche pose da “Bambino povero che sorride” e neanche quelle altrettanto viste da “Disperato e perseguitato vittima di violenze e torture”. Qui vediamo gente fiera di vivere la propria quotidianità africana. Gente che ostenta la forza della natura della propria terra mostrandoci quanto questa sia generosa verso di loro donando abbondanza a costo zero, anche senza fatica.
I prodotti vengono sempre raccolti e presentati con una cura estrema, il loro basso valore economico viene invece venduto con la sconcertante semplicità di chi conosce solo la bellezza, la semplicità e la freschezza di quel poco che ha. E così vengono presentate enormi radici o mazzi di peperoncini, o il frutto di una pesca miracolosa portata in un mercato nel quale anche parlare di “banco” è una parola grossa.
I fisici di queste persone hanno la forza e l’eleganza di chi vive in armonia con la natura, lontano dai grassi, lontano dagli additivi chimici. E’ chiaro l’intento selettivo del fotografo Nedjima Berder che sceglie con cura i suoi modelli per enfatizzarne la bellezza e la loro perfetta armonia e simbiosi con i luoghi in cui vivono. I suoi set sono fatti in luce ambiente, con uno sfondo bianco che rende asettico un angolo di mondo che sarebbe invece circondato da polvere e fango, perchè il Fotografo nel cercare l’immediatezza dei suoi scatti, riesce ad ottenere queste pose fermando i modelli per pochi secondi davanti al suo set mentre loro passano per andare a vendere le merci. Portarli in uno studio significherebbe perderne la spontaneità e l’innocenza. Fotografarli di sorpresa al volo porterebbe all’ennesimo scatto rubato che abbiamo già visto altre volte.
Nelle foto di Nedjima Berder troviamo l’intero ciclo della vita, che sfila davanti alla fotocamera. Taglio quadrato, oggettivo, simmetrico, semplice. I suoi modelli hanno qualsiasi età e vivono il lavoro e la vendita con dignità e non sono mai autocompassionevoli e autocommiserevoli. Nelle immagini di questo fotografo c’è l’inno alla fertilità intesa come riproduzione umana ma anche come frutti della terra. I frutti sono sempre enormi e generosi, colorati e allegri, sono essi stessi un inno alla vita e attraverso essi il fotografo ci trasmette tutta la sua passione per il continente nero.
Infine la scelta del fondale bianco. Anche questa è funzionale al discorso di semplicità che l’Autore si pone di trasmetterci. Un fondale diverso avrebbe portato lo sguardo dell’osservatore a distrarsi dal soggetto, a contestualizzare con altri riferimenti il senso della storia. Lo sfondo viene qui lasciato di un bianco naturale, con quelle tipiche imperfezioni e rugosità che rendono particolarmente unico e fascinoso il Continente Nero. Il bianco, poi, che si contrappone al nero della pelle, diventa anche una scelta grafica e formale di tutto rispetto. La scelta di non utilizzare Photoshop per scontornare il soggetto è, quindi tutt’altro che casuale per questo cameraman-documentarista che in questa occasione si è prestato alla Fotografia.
Ho amato particolarmente questa mostra, mi ha parlato di un’Africa che pensavo di conoscere, avendola a mia volta fotografata 15 volte, ma che in realtà non avevo mai visto così bella e raccontata in modo così originale. Mi piace questo lavoro fotografico, mi piace per la sua coerenza, per il suo stile, per la sua potenza visiva seppur ottenuta con mezzi essenziali e di basso costo. L’Africa ci insegna che la vita può scorrere anche in un altro modo, con lentezza, essenzialità, e senza sovrastrutture, questo Continente riesce sempre ad appassionare anche chi la conosce.
L’Africa sa raccontare storie senza parlare e sa far molto rumore anche senza muoversi.
Roberto Gabriele
Sei mesi sotto il cielo africano.
Sono già passati sei mesi. Ricordo ancora che in ufficio il tempo non passava mai.. qui vola! Mentre realizzi il tuo sogno, non te ne accorgi ma il tempo scorre, come adrenalina nelle vene, soprattutto se stai respirando a pieni polmoni.In questi sei mesi ho incontrato bellissime persone, in Togo una seconda famiglia, in Namibia tanti backpackers, tanti viaggiatori mordi&fuggi, tante persone che non hanno ancora trovato una loro serenità e la cercano viaggiando, persone che hanno deciso seguire le mie avventure..insomma un arcobaleno di incontri.Molte persone non capiscono perché la scelta di viaggiare sola, con una piccola casa nello zaino, ma questa per me non è SOLO la realizzazione di un SOGNO, é IL sogno della mia vita, qualcosa che avevo già impresso nel DNA. Qualcosa che ho sempre coltivato, che nessuno mi ha mai tolto. E se sono arrivata fino a qui nessuno mi fermerà ora.
Nessuno fermerà la mia scelta di essere felice da quando faccio colazione con la vita a quando chiudo gli occhi perché sono stanca di vita e ne voglio ancora di più per il giorno seguente.
É proprio vero, prima di partire avevo mille perplessità ( non paure, perplessità!) ma ora che sono in viaggio, tutto è così semplice e…terribilmente fantastico, anche semplicemente la terra su cui poggio le mie Birkenstock(Grazie Rose!). Ogni qualvolta si crea un punto interrogativo sulla mia testa c’è la soluzione, c’é sempre la via di uscita e non é nemmeno troppo complicata!
6mesi di libertà assoluta, senza regole, senza limiti, a braccia aperte ad accogliere tutto ciò capita, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Mi sento una particella di vita, viva, selvaggia, che lascia tracce di cui un giorno essere orgogliosa!
6 mesi, spero possano diventare 6 anni o 60.. Nel contempo mi vivo a pieno ogni singolo istante!
E sapete qual’é la cosa più bella che sto riscontrando? Condivido giornalmente emozioni, paesaggi, stati d’animo con voi, voi, “perfetti sconosciuti” che vorrebbero intraprendere questo viaggio ma non sanno da dove iniziare. In realtà non lo so nemmeno io da dove ho iniziato.. So che ad un certo punto ho dato la disdetta del mio contratto di affitto, ho dato le dimissioni e sono partita.
Per dove sono partita? Beh inizialmente dovevo partire per l’Irlanda.. volevo ottenere la certificazione internazionale d’Inglese (avevo ancora piccoli dubbi che questa vita da backpackers potesse non piacermi), e mi sono ritrovata in Togo , ospite di un orfanotrofio con 12 splendidi bimbi. La mia prima destinazione dopo il Togo, doveva essere la Spagna e poi il Brasile.. Beh sono in Africa, in Namibia..e domani lascerò questa terra alla volta di Cape Town in Sudafrica. Una cosa che ho imparato: lasciarmi andare al viaggio e cogliere tutti i segnali che il viaggio stesso mi manda.
Come viaggio? L’ultimo volo per la Namibia, d’ora in poi solo via terra/mare. Per passare la frontiera Sudafricana domani ad esempio ho trovato un bus con Intercape a bassissimo costo che mi porta laggiù.. certo con i tempi africani, resterò in viaggio per 22 ore, ma questo è il prezzo da pagare se si vuole viaggiare con lentezza. Ed io ne sono felice. In ogni caso, con auto locali, taxi, taximoto e capitato autostop, ma in Africa non è molto usato questo autostop.
Dormire e mangiare, come fai? In Africa è poco diffuso lo scambio di vitto e alloggio con qualche piccolo lavoretto, ma ho trovato chi ha accettato lo scambio. In caso contrario devo prendere un ostello, o una tenda.. insomma qualcosa dove poter passare la notte. Anche un divano di uno sconosciuto come ho fatto con il mio amico Dominik (ragazzo che ho conosciuto in Windhoek). Non è semplice, ma in questo ultimo anno ho imparato, credo, a chiedere e devo dire che a parte pochi casi, spesso mi va bene :), é anche vero che la faccia tosta non mi manca. Mi è capitato di lavorare in una casa per un paio di giorni, stavano facendo gli scatoloni per un trasloco o in un ostello (con delle colazioni fantastiche) e ero addetta al lavaggio piatti per tuta la durata delle colazioni..Insomma nulla di pesante e faticoso. Certo bisogna capire qual’è lo scopo del vostro viaggio, se riposare oppure realizzare un sogno.
Siccome voglio fare questa vita tutta la vita, dovro’ in ogni caso cercare lavoro se voglio continuare nella mia impresa.
Ah, sono sempre pronta a ricevere contatti di amici/parenti/amici di amici che possono ospitarmi
Francesca Naglieri è Blogger, Viaggiatrice, esperta di Viaggi e Turismo
Come fare ritratti in viaggio (Parte 2)
In QUESTO ARTICOLO abbiamo parlato di come avvicinarci ai nostri Soggetti per ritrarli durante un Viaggio. Abbiamo visto le problematiche culturali e la difficoltà ad ottenere il loro consenso.
Questa volta invece vedremo gli aspetti più tecnici, quelli che vengono dopo l’approccio, quando cioè il nostro Soggetto ci ha autorizzati a scattare qualche foto, questo è il nostro momento creativo, fotografico. In pochi istanti si scarica tutta l’adrenalina, sentiamo il brivido di scattare e subliminare in un scatto fotografico l’essenza del soggetto, la sua anima, il luogo in cui vive, la sua cultura, gli abiti che indossa e il vissuto personale che porta con e dentro di sè.
Personalmente pur essendo uno smaliziato Fotografo Professionista con 25 anni di esperienza provo sempre grandi emozioni quando scatto foto a qualcuno: sento lo scambio emozionale tra me e il mio Soggetto, sento sempre un grande feeling, ho bisogno di sentire la partecipazione del mio Soggetto allo scatto, che si tratti di una modella perfetta o dell’ultimo degli straccioni che vivono in India ben oltre i limiti della dignità umana.
Comporre l’inquadratura
Il tempo per fare le cose è sempre poco, spesso i nostri incontri con i soggetti durano pochissimi istanti, secondi. Molto spesso le persone che vorremmo fotografare stanno lavorando, o vanno da qualche parte, per loro già fermarsi è una grande dimostrazione di voglia di collaborare con noi. L’errore più grande che si possa fare è fargli passare la voglia di stare a nostra disposizione. Occorre essere veloci.
Scatta con l’ottica che hai montato in quel momento, NON metterti a fare sfoggio delle tue attrezzature, non cambiare obiettivi, ricorda che per molti quelli che per te sono movimenti naturali hanno un sapore sciamanico, la Fotografia e i suoi rituali possono essere fortemente contrastanti con chi hai davanti. Mettersi a smontare le ottiche fa perdere tempo e toglie la spontaneità del momento e del Soggetto. Scatta subito, non stare lì a costruire ciò che non c’è. Hai davanti a te tutto ciò che ti serve per una foto straordinaria: una Persona. Ci vuole un minimo di istinto e voglia di rischiare di perdere una foto o accettare che non sia perfetta, ma sacrifichiamo volentieri tutto in nome di una spontaneità prioritaria su tutto. Quando ho scattato questa foto avevo un 200 mm montato: impossibile a distanza creare un rapporto con questa ragazza dal profilo bellissimo. Potevo solo sfruttare la luce nel migliore dei modi con una silhouette che esaltasse le linee e le mettesse in contrasto con lo sfondo. Un tono chiaro e il nero. Certo, avrei potuto avvicinarmi, presentarmi, chiederle se potevo scattare salvo farla fuggire a gambe levate…. Ho preferito scattare subito e poi avvicinarmi a lei per condividere con lei il risultato ottenuto.
Rapporto con il Soggetto.
Tele, 200 mm anche in questo caso. Diaframma 2.8 aperto al massimo, esposizione manuale e curata in anticipo per questo scatto di un’altra ragazza con la pelle nera in controluce. Situazione estrema di ripresa in cui qualunque esposimetro si sarebbe trovato in forte imbarazzo a decidere al mio posto. Quando mi trovo in questi casi preferisco sempre scattare in Manuale per avere già tutto pronto dal punto di vista tecnico e poter scattare immediatamente quando “vedo” il mio soggetto. Il magnetismo di quello sguardo mi ha colpito, lei mi fissava ed era consapevole fino in fondo delle mie intenzioni di fotografarla e io lo facevo senza nascondermi, anzi, cercando una quinta introduttiva sulla destra che mi portasse a lei lasciandola in secondo piano.
Personalmente sono assolutamente convinto che il fotografo deve entrare in un rapporto intimo con il soggetto, deve saperlo affascinare, interessare, stimolarlo. Il rapporto di collaborazione tra i due deve essere massimo e asservito alle necessità fotografiche. E’ il fotografo che comanda, che tiene in mano la fotocamera con la quale decide l’Istante Decisivo in cui eseguire lo scatto. Il fotografo è il regista e deve saper gestire la scena, comandare senza imporsi, deve saper chiedere senza pretendere.
Nella fotografia di ritratto il vero soggetto che ritraiamo è l’anima e non la persona o il suo viso. Conseguentemente a questo punto di vista a mio avviso i migliori ritratti sono quelli in cui la persona guarda in macchina, la fissa, osserva il fotografo che si nasconde attraverso i riflessi delle lenti. In quello scambio impari di sguardi il fotografo vede e decide, mentre la persona prova i moti dell’anima che il fotografo saprà raccontare.
Ritratto Ambientato
a volte il viso di una persona, il ritratto close up sono relativamente meno importanti del contesto ambientale in cui la persona è inserita e vive, è questo il caso del Ritratto Ambientato. Per scattare foto così abbiamo bisogno di un moderato grandangolo che ci permetta di avvicinarci al Soggetto senza stargli troppo attaccati (pensa come ti sentiresti tu con una fotocamera di uno sconosciuto puntata a pochi centimetri dal viso con un obiettivo di focale troppo corta). Il Ritratto ambientato racconta quindi tutto ciò che sta intorno al Soggetto e diventa non elemento di disturbo, ma anzi riempie l’inquadratura di ulteriori dettagli che aggiungono riferimenti su ciò che la persona fa. Prova a guardare cosa è in grado di fare questo uomo con i piedi che lavorano con la stessa abilità ed eleganza delle mani. Riprendere il solo viso sorridente avrebbe eliminato tutto il fascino dello scatto.
Scatti rubati
Ecco, questo è qualcosa da evitare: rubare foto senza il consenso dell’altro. In realtà in questa foto si vede una dissonanza palese tra il gesto della sua mano che mi diceva di non scattare e il suo viso sorridente che in realtà mi concedeva di farlo giocandoci un pò su con me in un divertente gioco fatto di negazioni opposte.
In posti come gli USA mi sarei già beccato una bella denuncia, altro che un sorriso…. E negli USA me ne sarei ben guardato dal fare una foto senza il consenso SCRITTO della persona ritratta. Il poterlo fare qui perchè sappiamo che non avremo conseguenze, non ci autorizza a prevalicare gli altri con la nostra fotocamera.
Il Flash
Non uso quasi mai il flash se non per scattare in pieno giorno persone con la pelle nera! Lo faccio perchè la sua schiarita è importante per prendere i dettagli che altrimenti con le ombre dure del sole a picco perderei. In questa foto della donna Touareg con il bambino ho esposto per il flash lasciando lo sfondo del deserto visibilmente sottoesposto ed enfatizzando così il concetto della solitudine di questa coppia madre/figlio dal resto del mondo.
14mm per questo scatto che ha una forte connotazione data anche da un forte editing che enfatizza alcuni colori e ne rende altri irreali.
Conclusioni.
La tecnica è importante, fondamentale, direi. Ma a mio avviso la parte da sviluppare meglio è proprio quella dell’approccio con il soggetto. La tecnica si sostituisce con la tecnologia che diventa sempre più sofisticata e user friendly, ma nessun chip (spero) potrà mai sostituirsi alla relazionalità emozionale che c’è tra fotografo e soggetto.
La Città dei Morti
La città dei morti
Questo Viaggio risale al 2007, quando andai con l’amica Egittologa Stefania Sofra a documentare le meraviglie del Cairo, una città a sole 3 ore di volo dall’Italia eppure ai più sconosciuta…. Pochi pensano di poterci fare un week end, quasi nessuno va a farlo…. E invece il Cairo saprà stupirti…
In questo articolo voglio raccontarti della mia esperienza fatta alla Città dei Morti, un intero quartiere con decine di migliaia di abitanti che vivono abitualmente in un antico cimitero mamelucco.
La Storia
Negli anni ’30 del secolo scorso, circa 80 anni fa, le famiglie più povere della città in cerca di alloggio trovarono comodo andare a vivere nelle cappelle del vecchio cimitero abbandonato a pochi passi dal Centro. Un territorio enorme, una vera città attraversata da ampi Viali che si allungano lungo i muri delle enormi cappelle cimiteriali… Ogni antica famiglia mamelucca aveva una cappella con annesso un piccolo appezzamento di terreno per le sepolture in terra, anche se molti sceglievano di farsi seppellire nei cenotafi, una sorta di tomba in muratura che fuoriesce dal terreno…
Le famiglie quindi occuparono il vecchio cimitero senza che nessuna Amministrazione facesse a questo opposizione, era un luogo abbandonato e quelli disposti ad abitarci erano fondamentalmente dei disperati che conveniva relegare lì piuttosto che tenerli a bivaccare come barboni in mezzo alla città. Passarono gli anni e le case prese gratis iniziarono a diventare delle dimore che a costo zero iniziavano ad essere meglio che niente e con il passare del tempo queste prolungate occupazioni diventarono per vari motivi (usufrutto, riscatto, usocapione ecc.) a tutti gli effetti di proprietà di coloro i quali le avevano occupate.
Oggi il quartiere di certo non è diventato di lusso come i Doks di Londra abitato dalla gente bene, anzi, continua ad essere un luogo molto umile ma dignitoso e contrariamente a quanto si possa immaginare è un posto molto tranquillo da visitare. E’ piuttosto desolato: la gente qui si alza presto al mattino per andare a lavorare e durante il giorno non vedrai in giro quasi nessuno, i pochi che restano sono persone molto accoglienti che ti faranno entrare in casa loro a vedere come nelle vecchie tombe oggi ci siano stati piantati i pomodori dell’orto…. Ti mostreranno come i cenotafi oggi siano i loro piani di cottura o dei giardini pensili da innaffiare tutti i giorni…
Il Governo di oggi, come quello di 80 anni fa, continua a tollerare la situazione ma non ad accettarla, di certo nessuna guida mai ti parlerà di questo quartiere, di certo se l’Amministrazione potesse farlo sparire lo farebbe, ma ci abitano troppe persone e non è possibile raderlo al suolo nè togliere le case a chi con tanta fatica se le è riscattate. Troverete difficile anche farvi accompagnare qui da un taxi, è strano , ma agli Egiziani questo posto proprio non piace.
Di certo se capiti al Cairo una visita di un paio di ore alla città dei morti conviene farla per scoprire una vera città in cui non ci sono quasi per niente automobili, in cui durante il giorno il silenzio è assordante e il pomeriggio nelle strade si riversano a giocare i bambini dopo la scuola, nel pomeriggio vale la pena venire qui, quando gli abitanti sono in casa e ti mostreranno dove e come vivono, dove ti offriranno un thè comodamente seduto su una cassetta per frutta all’ombra di un pergolato fatto di lamiera… Qui gli unici rumori durante il giorno sono quelli del martello del fabbro che echeggia a centinaia di metri di distanza o di piccole macchine tessili quando passi davanti ad una bottega la cui porta resta sempre rigorosamente aperta…
PROSSIMI VIAGGI AL CAIRO:
Tieniti pronto: qui farai un salto in un luogo senza tempo, sospeso tra modernità e tradizione, torneremo con Viaggio Fotografico alla Città dei Morti, se vuoi essere informato di quando partiremo contattami:
Roberto Gabriele: 347 3790441 oppure via email o WEB:
Per concludere, vorrei condividere con Te che hai letto fin qui questo Articolo, una mia bella soddisfazione: le foto che stai vedendo sono state utilizzate come sigla finale del programma Mediterraneo su RAI3 nella puntata del 9 giugno 2013.
Ringrazio Adelaide Costa che ne curò la selezione e il montaggio.
Come fare ritratti in viaggio (Parte 1)
Il ritratto fotografico in viaggio
Il ritratto fotografico non manca mai all’interno degli scatti che riportiamo a casa. I motivi per fare fotografie durante i nostri viaggi sono tantissimi e ciascun Viaggiatore e Fotografo ha i propri soggetti preferiti, ma al ritorno da qualunque destinazione tutti noi portiamo la foto delle persone che hanno viaggiato con noi o che abbiamo incontrato lungo il nostro percorso.
Immancabili sono le foto che scattiamo alle varie etnie, ai vestiti tipici, ai tratti somatici, ai mestieri e agli accessori che ciascuno nella propria cultura, nel proprio Paese usa quotidianamente ma attrae la nostra attenzione di Viaggiatori e di Fotografi. Questo genere fotografico, il ritratto, porta a doversi misurare con varie problematiche, in questo articolo vediamo quali.
Occorre distinguere tra viaggio e viaggio, molto dipende da che tipo di persone incontriamo e quale tipo di cultura abbiano. Nei Paesi “Sviluppati” c’è (contrariamente a quanto in genere si pensa) maggiore diffidenza nei confronti di una fotografia scattata per strada le ripercussioni possono essere anche violente o legali. Chi di noi si farebbe fare una foto da un straniero di passaggio al semaforo? Nei Paesi che ancora vivono una civiltà rurale le cose diventano più facili e divertenti e abbiamo sempre tanta spontaneità che in noi Occidentali è scomparsa de decenni.
Problemi etici e morali
Il mondo è grande e le culture sono tante. Diciamocelo chiaramente: le cose più sono diverse da noi più ci piacciono e attirano la nostra attenzione e di conseguenza i nostri scatti fotografici.
Spesso partiamo apposta per andare a vedere certi Paesi e le loro etnie, per cercare quella diversità culturale da raccontare con le nostre immagini e il nostro interesse spesso si concentra sulla povertà altrui. Ora mettiamoci dalla parte di chi sta a casa sua, vive la sua vita in una casetta umile se non in una capanna o addirittura in una baracca…. Cosa penseremmo al loro posto vedendo un bel gruppone di Fotografi in vacanza che si presentano armati di fotocamera a caccia di immagini??? Beh…. Accettare il proprio stato e viverci è un conto, ben altra cosa è invece vedersi fotografati nella povertà come dei fenomeni da baraccone. Esistono sentimenti come la vergogna della propria miseria che andrebbero da parte nostra riconosciuti e rispettati. Che ci si creda o no per qualcuno la fotografia degli occhi ruba l’anima del soggetto ritratto, questo succede in ambiti religiosi animisti. In Yemen invece è tassativamente vietato per chiunque fotografare le donne anche se completamente velate sotto i loro burqa ma al contrario gli uomini accorrono spontaneamente a farsi fotografare ogni volta che vedono un turista intento a scattare tutt’altro. Bisogna anche evitare di fare foto di nascosto e tanto meno contro la volontà già espressa da qualcuno in tal senso: in Africa si rischia di passare alle mani, negli USA si rischia una bella denuncia per violazione della privacy e del diritto all’immagine…
Approccio con il soggetto ritratto.
Vedere una persona, apprezzarne la fotogenia e scattare di nascosto il ritratto del secolo è il modo migliore per un fotografo farsi odiare dai propri soggetti. Occorre un approccio più morbido, forse basterebbe spesso quella che si chiama buona educazione o il semplice rispetto dell’altro. Quante volte ci è capitato di ricevere rifiuti ad essere ripresi da parte delle persone??? Quante volte abbiamo provato a chiedere il consenso allo scatto? Un pò di psicologia pratica nella vita non fa mai male vediamo come usarla per fare in modo che le persone siano più portate a posare per noi… Chiunque sia intento nelle proprie attività di vita lavorativa o privata, di norma preferisce restarci indisturbato e continuare la propria vita liberamente nonostante la presenza di numerosi turisti intorno… Un buon modo per relazionarsi con le persone è…. SALUTARLE!!!! Certo che un “Buongiorno” in Italiano è meglio che niente, un saluto si capisce anche dal gesto, ma è comunque meglio salutare nella loro lingua, prima di partire un minimo di frasario di circostanza dovremmo impararlo…. Buongiorno e arrivederci, grazie e prego nella lingua locale sono il vocabolario di sussistenza necessario per rompere il ghiaccio con chiunque, imparare 4 parole in una nuova lingua non richiede un gran sacrificio… Salutate sempre. SORRIDETE!
Il sorriso accompagnato al saluto sono il modo migliore per entrare in empatia con chi abbiamo di fronte…. Quando scattiamo un ritratto suggerisco anche di muoversi lentamente, di non essere troppo invadenti, di non voler apparire al di sopra del nostro interlocutore nè con i toni, nè con le parole, sorridere è un conto, ridergli in faccia e prenderlo in giro con la certezza che non capisca la nostra lingua è un’altro discorso….. Anche se non capisce le parole e il loro significato, capirà senz’altro i nostri pensieri, le emozioni che gli trasmettiamo…. Non toccare mai le persone, sembra banale, scontato ma non sempre è così…. Impariamo a chiedere le cose con i gesti, e ad interagire il meno possibile con la spontaneità delle persone che ritraiamo. Se sorridono o sono serie riprendiamole così come sono e sentono di essere, senza volerne cambiare noi gli stati d’animo: ridurremmo l’efficacia della foto e porteremo con noi una foto mal costruita.
Altri elementi che senz’altro possono essere di aiuto in uno scambio di cortesie mentre scattiamo un ritratto a qualcuno possono essere il parlare del tempo (lo facciamo anche da noi) basta indicare verso il cielo e fare dei gesti che spieghino il concetto di caldo o di pioggia o freddo ecc. Se il soggetto ha dei figli con sè potete presentarvi con il vostro nome, (sempre a gesti) e chiedere il nome dell’altra persona e/o dei suoi figli: a chiunque fa piacere parlare della propria famiglia. In tutto il mondo.
NON ABBIATE FRETTA! E NON MOSTRATE all’altro che l’unica cosa che volete è scattargli una foto, mostrategli invece che siete SINCERAMENTE interessati a lui/lei. Ricordate il “Piccolo Principe”? Ecco come esprime il creare un rapporto tra due persone: Bisogna essere molto pazienti. In principio, tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino. Poi il giorno dopo ancora più vicino .. finché mi potrai toccare .. Saremo diventati amici, non avremo più paura uno dell’altro. Questo è ciò che possiamo fare per avvicinarci agli altri. Magari non mettiamoci giorni, ma qualche minuto è preferibile…
Liberatorie per il ritratto.
Servono o no??? Eh… dipende da che punto di vista intendiamo la cosa e sopratutto cosa vogliamo fare con quella foto. Siamo onesti con noi stessi: sappiamo che pubblicheremo quella foto su una Rivista Internazionale o Nazionale di ampia diffusione, un sito WEB o un Social come Facebook? Si? E allora DOBBIAMO avere una liberatoria, anche se su facebook apparentemente nessuno si lamenta, ma non è così per tutti perchè per alcuni potrebbe essere una vera violazione del proprio diritto all’immagine e potrebbero prendersela davvero a male.
Se invece sappiamo che quelle foto di ritratto le terremo solo per noi, non abbiamo bisogno di nulla perchè la liberatoria è necessaria solo per la pubblicazione, e non per lo scatto in sè. Il buon senso ci aiuterà a fare le scelte giuste. Se una persona mi ha dato il suo assenso allo scatto, me lo darà probabilmente anche per la pubblicazione. Sempre in linea teorica dovremmo avere con noi un modulo scritto nella lingua locale da far firmare a chiunque. Questo è possibile con una APP che si chiama Easy Release ed è disponibile su iPHONE, unico problema è che contempla le maggiori lingue del mondo e non tiene in alcuna considerazione le lingue minori che parlano 3 miliardi di persone, spesso analfabeti…
Ancora sul buon senso: se andate negli USA e non vi fate firmare la liberatoria state pur sicuri che qualcuno verrà a chiedervene conto in tribunale e ci rimettereste sicuramente perchè avete torto marcio. Le liberatorie fatte firmare prima, insieme al consenso di simpatia, sono decisamente più formali, ma stabiliscono dei ruoli. In Africa non sapete cosa farvene delle Liberatorie perchè spesso (senza qui voler fare discorsi razzisti, ma solo statisticamente veri) i vostri soggetti sono analfabeti o magari possono essere sospettosi, vanifichereste quella sana atmosfera di amicizia che avevate costruito fino a quel momento.
Pagare per un ritratto?
In linea generale direi di non pagare mai nessuno per fargli un ritratto fotografico. Se è vero quello che abbiamo detto fino a questo punto, allora è anche vero che il ritratto a qualcuno in un Viaggio è un puro scambio di cortesia e di simpatia reciproco, la sua forza è nella gratuità stessa del gesto reciproco. Un viso mi piace per una serie di motivi, chiedo esplicitamente di poterlo fotografare, poi all’assenso ricevuto NON può seguire una richiesta di denaro.
In questo caso il rapporto è regolato secondo altri parametri che non sono quelli visti fino a questo punto. I Gladiatori al Colosseo si fanno pagare, ma quelli non sono neanche Romani ma Romeni (è vero!) e fanno quello per mestiere: discutibile e opinabile ma sono lì apposta: se vuoi fotografarli paghi. Di certo NON HAI NULLA DI VERO in loro, non sono veri gli abiti, non sono veri i personaggi, sono dei figuranti in costume che paghi in cambio della loro bonaria prestazione (a Roma chiedono 5-10 Euro). In Etiopia vale la regola del: “1 photo-2Birr” ossia con il nostro cambio: 1 foto per 0,2 Euro.
Queste sono persone che (a differenza dei falsi Gladiatori) mantengono vive le loro tradizioni e la loro cultura che altrimenti svanirebbe in pochi anni e per farlo si mantengono facendosi pagare dai turisti. Niente soldi=niente foto. Con loro il pagamento di una foto per un ritratto è dovuto e serve proprio a far avere per loro un senso a non occidentalizzarsi, a rimanere fedeli alle loro tradizioni. L’uomo di questa foto infine era un personaggio che ho gratificato per sola simpatia, non mi aveva chiesto nulla, e dopo gli scatti, prima di andare via, gli ho dato io un piccolo aiuto. Anche in questo caso il rapporto è perfettamente etico e ben gradito come si vede dalla sua faccia gioiosa… Giusto per la cronaca: questa era la foto più bella che gli ho fatto, l’ho fatta per puro caso prima di andare via.
Promesse.
Con le nostre moderne fotocamere digitali è frequente mostrare le proprie foto al soggetto immediatamente dopo averle scattate. A quel punto viene dal Soggetto la richiesta di inviargli alcune foto su carta o via email o via facebook e la nostra risposta “CERTO!!! LO FARO’ SICURAMENTE” deve poi diventare un impegno sacramentato. L’errore più grave che possiamo fare è quello di mentire a chi si è fidato di noi. NON è etico, non è morale. Siate onesti, leali e mantenete le promesse fatte. SEMPRE.
Conclusioni.
Và dove ti porta il cuore…. Sii spontaneo e goditi quel momento dell’incontro. Sii aperto ad ascoltare, ancor prima di essere spontaneo nel chiedere. La gestione del rapporto sta nelle tue mani, sei tu che scatti, sei tu che chiedi qualcosa, sei tu a dettare i tempi e le modalità, ma devi farlo rispettando gli altri che hai di fronte.
Divertiti insomma e oltre ad una bellissima foto porterai le sensazioni bellissime che hai vissuto davanti a quella persona.
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