Etiopia: il Natale arriva a gennaio

Se pensi al Natale come Babbo Natale che arriva sulla slitta il 25 dicembre e porta regali ai bambini, leggi questo articolo: ti porterò in un posto in cui tutto questo non è vero. Ad esempio, nel nord dell’Etiopia, a Lalibela, è tutto diverso, anche la data di Natale che viene celebrato il 7 gennaio!

Etiopia
Soli, in un villaggio senza nome. Etiopia 2016. Foto: ©Roberto Gabriele

Lalibela è un posto magico, denso di spiritualità, uno di quei posti in cui sentirai esplodere dentro di te il mal d’Africa. Lalibela è la classica cittadina tranquilla africana: poche case in muratura, qualche albergo e tante capanne, sono i tipici tukul con il tetto in paglia a punta. Lalibela però è un Patrimonio dell’UNESCO perchè qui c’è qualcosa che non esiste in nessun altro posto al mondo: le chiese rupestri ipogee monolitiche. Detto in altri termini queste chiese sono state letteralmente scavate svuotando la montagna e ricavando la chiesa da un unico blocco di roccia. 40 anni di lavoro fatto a mano con martelli e scalpelli.

San Giorgio
Le chiese vengono letteralmente scavate nella roccia. Foto: ©Roberto Gabriele

Qui le chiese sono di rito cristiano copto, un rito completamente diverso da quello cattolico, nei costumi, nella durata, nelle modalità di celebrazione e anche nella simbologia. La festa del Natale è la più sentita, la più bella e partecipata dell’anno. Circa 20.000 fedeli arrivano qui per celebrare la nascita di Gesù con una messa che dura 12 ore: dalle 9 di sera fino alle 9 del mattino successivo, il tutto accompagnato da circa 300 sacerdoti che indossano paramenti dai colori sgargianti e da tutti i fedeli che vestono il tipico caftano bianco. L’atmosfera che si respira qui è meravigliosa, che si sia credenti o no è impossibile rimanere impassibili davanti a tutto questo. La simbologia è talmente chiara da sembrare artefatta: sembra che ci sia dietro il lavoro di un abile regista, mentre invece tutto è dettato dalla tradizione più antica e incontaminata. Quando andai io, tra la gente c’era persino il Presidente dell’Etiopia con la sua scorta! Le misure di sicurezza erano fittissime! ;:)

Ragazza legge le Scritture – Foto: © Roberto Gabriele

La notte simboleggia la tenebra e il peccato: il rito non a caso viene celebrato con il buio. La suggestione del momento è enfatizzata dalla presenza di centinaia di candele con le quali i fedeli rischiarano di tanto in tanto la lettura dei testi sacri che portano con se per seguire le letture durante la lunga veglia. E’ incredibile osservare le espressioni e il coinvolgimento emotivo di queste persone rapite dalla preghiera. Ma la notte è fatta anche per riposare e qui nella grande chiesa di Santa Maria (dedicata alla Madonna) si dorme regolarmente durante la lunga veglia notturna del Natale! Quello che da noi in Italia sarebbe impensabile, irriverente, inaccettabile come il dormire in chiesa durante un rito sacro, in Etiopia invece viene accettato senza difficoltà: la notte è fatta per dormire, chi vuole prega, gli altri dormono!

 

I sacerdoti sono centinaia, restano svegli tutta la notte a celebrare il lungo rito. Molti di loro sono sposati e hanno figli, il celibato non è  a loro richiesto. Quasi ogni parte del rito viene cantata e danzata per rendere la partecipazione più corale e intensa. Le letture e le omelie sono ridotte al minimo. Il ritmo lento viene scandito dal Sistro: uno strumento il cui suono assomiglia a quello di un cembalo, costruito con una impugnatura con dei piattelli che vengono suonati alzando o abbassando il braccio in un gesto rituale che simboleggia la morte (braccio abbassato) e la resurrezione di Gesù (braccio alzato). Durante ogni canto, durante tutta la notte, viene ricordato tutto questo.

preghiera
La veglia di Natale dura 12 ore. Foto: ©Roberto Gabriele

E poi c’è la gente che vive in massa tutto questo. A parte chi dorme e chi legge nella chiesa, c’è poi chi rimane all’esterno e partecipa al rito guardandolo sui maxischermi che vengono allestiti per l’occasione perchè all’interno non c’è spazio per tutti. Fuori dalla chiesa, davanti ai monitor si crea un vero e proprio accampamento con tende improvvisate e tavolate di intere famiglie che ricoprono la montagna con le loro vesti bianche che si vedono bene nella notte.

Tra la gente e i sacerdoti c’è la presenza fondamentale di certi mediatori che scendono tra la gente portando a loro i simboli cerimoniali come la croce e un cuscino che viene baciato a turno dai fedeli. Questi mediatori sono quelli che vendono le candele con le quali partecipare alla messa. I loro abiti sono preziosi, dorati, coloratissimi e portano sempre un ombrello damascato coordinato con l’abbigliamento. A ben guardare i loro movimenti, nonostante l’apparenza solenne, appaiono però come abili commercianti che si aggirano durante la lunga messa tra la gente per vendere ancora candele a chi ne fosse rimasto sprovvisto.

Venditore di candele. Foto©Roberto Gabriele

Il Natale copto è il 7 gennaio, con la grande veglia che inizia il 6 sera, in corrispondenza con la nostra Epifania. Il giorno della Vigilia passa tra i pellegrinaggi che vengono fatti dai fedeli nelle chiese: si va in visita alle icone dei santi e ci si mette in fila per una veloce benedizione, si bacia la croce copta in legno o in argento e con questa si viene benedetti dal sacerdote. Migliaia di persone arrivano 1-2 giorni prima del Natale proprio per avere il tempo di fare i pellegrinaggi in tutte le chiese e in particolare in quella di San Giorgio, la più grande e bella: famiglie intere o comunità locali si spostano in gruppo arrampicandosi sui pericolosi muretti alti 10 metri senza protezioni, camminando negli stretti cunicoli in discesa scavati per accedere alle chiese. E per tutto il giorno si mangia in strada dove ci sono ristorantini ambulanti e migliaia di fedeli già vestiti a festa.

ristorantini
Ristorantini di strada in Etiopia. Foto: ©Roberto Gabriele

Alle 21 del 6 gennaio inizia la lunga messa: 12 ore per sentirsi vicini a dio. Durante la prima parte ci sono canti e danze, quando la notte diventa profonda, il ritmo rallenta e la gente si addormenta a terra. Quello è il momento preferito da noi fotografi perchè possiamo muoverci facilmente per fare le nostre foto e camminare infilando i piedi nei pochissimi spazi liberi tra la gente che dorme, anche se ogni tanto può capitare di pestare una mano o un piede nascosti nel buio… La cosa più bella da fotografare sono i contrasti tra le luci delle candele e le ombre, tra il bianco delle vesti e il nero della pelle della gente, tra i colori dei vestiti e il nero della notte. 

 

La lunga veglia prosegue abbastanza uguale a se stessa fino al momento in cui improvvisamente il rito cambia e il buio lascia lo spazio al rito della luce che simboleggia la nuova nascita e l’arrivo del Natale. La chiesa che era caduta nel torpore generale si sveglia improvvisamente tra le urla generali delle folla impazzita: la nascita di Gesù viene celebrata in quel momento con una gioia incontenibile e urla liberatorie. In pochi istanti tutti i fedeli tirano fuori le candele che avevano conservato e le accendono l’una con l’altra in un gesto di condivisione reciproca durante il quale la luce aumenta velocemente in proporzione. Il momento è emozionante: le urla festose, la luce che aumenta, la chiesa che fino a quel momento era stesa a terra a dormire si rialza in piedi e ricomincia a partecipare al rito. Poco dopo la preghiera è fortissima, le urla caotiche vengono riordinate di nuovo dalla coralità della preghiera e, girandosi intorno, tutto ciò che era buio ora è illuminato dalla luce di migliaia di candele accese, tutto ciò che era libero ora diventa ordinato e corale.

Il Natale è la festa della luce. Improvvisamente migliaia di candele illuminano a giorno tutta la chiesa. Foto: ©Roberto Gabriele

La gente ora è tutta in piedi e rivolta verso l’altare con le candele in mano intenta a pregare, questo momento dura un’oretta  di preghiera, poi di nuovo un crescendo di emozioni avvolge i presenti: di nuovo le urla della folla impazzita: alzando lo sguardo verso i bordi laterali si scorgono i sacerdoti che sono saliti sul bordo dello strapiombo intorno alla chiesa e dall’alto cingono con la loro presenza tutta la chiesa e i fedeli in un abbraccio simbolico, hanno cambiato le loro vesti, tolto i colori e sono tornati a vestire anche loro di bianco con solo una fascia colorata. Applausi, lacrime  e sorrisi: si alzano verso di loro migliaia di telefoni cellulari che fotografano la lunghissima fila di Celebranti, tutti hanno tra loro un parente o un amico che dall’alto li sta benedicendo e li ricambiano con una foto ricordo. Anche i sacerdoti, nonostante la sacralità del momento e del loro ruolo, scattano di tanto in tanto qualche foto con il cellulare alla folla sotto di loro alternano questo gesto pagano alla sacralità del suonare il sistro che da ore segna il tempo della cerimonia. La simbologia anche qui è fortissima: dopo la tenebra del peccato arriva la luce e quindi la salvezza.

La luce porta la verità, la nascita. E’ arrivato il giorno di Natale. Foto: ©Roberto Gabriele

La magia della luce continua perchè adesso il cielo inizia a tingersi di rosa: è l’alba di Natale! La messa vera e propria ha inizio alle 6 del mattino, e finirà alle 9 dopo tre ore di canti e danze accompagnati ora dal ritmo dei tamburi che sovrasta e sostituisce il suono melodioso e malinconico del sistro. E qui l’anima africana  degli etiopi fatta di ritmo e danze prende il sopravvento sul rito lento e profondo che si è vissuto per tutta la notte… L’allegria generale da il benvenuto alla festa, segna la fine dell’attesa per la nascita di Gesù nel giorno di Natale.

Mercato
Tra un mercato e l’altro inizia il nostro lungo viaggio di ritorno verso l’Italia che durerà 3 giorni. Foto: ©Roberto Gabriele

Qui siamo lontani anni luce dall’icona tipica di Babbo Natale, siamo lontani dai panettoni e dalla neve. Benvenuti in Africa.

 

La chiesa cristiana copta celebra il rito del Natale con un calendario diverso rispetto al nostro, spostato di 13 giorni in avanti. La festa del Natale è quindi il 7 gennaio con la vigilia il 6, ossia il giorno della nostra Epifania. Quindi, la loro Epifania è il 20 gennaio.

Guajira: tra Colombia e Venezuela

La Guajira:

“La parte più a nord dell’America del sud” questo è il singolare primato che può vantare la penisola della Guajira, una terra praticamente sconosciuta al turismo di massa che è stata meta di una delle mie originali scorribande in giro per il mondo.

Riconosco che non ne avevo mai sentito parlare, me la nominò il mio amico Dario, un Colombiano che mi raccontava di questo promontorio desertico che si protende verso i Caraibi suddiviso o forse sarebbe meglio dire condiviso tra Venezuela e Colombia. Le sue storie mi incuriosirono a tal punto che decisi di andare a scoprire cosa ci fosse da quelle parti.

Andammo a fine novembre, quando il clima è più mite, il caldo non è soffocante e le piogge sono virtualmente assenti. Il fattore meteo va sicuramente tenuto presente quando si va da queste parti: ci troviamo in piena fascia equatoriale, poco al di sotto del Tropico del Cancro.

Salinas De Manaure
Salinas De Manaure. Foto: ©Roberto Gabriele

Ci troviamo in piena fascia equatoriale, poco al di sotto del Tropico del Cancro.

Il viaggio è lungo e faticoso anche se fatto in aereo: innanzitutto ci vuole almeno uno scalo a Madrid o Lisbona, poi ci vogliono una quindicina di ore di volo dall’Italia. Il ritorno è peggio perchè di ore di volo ce ne vogliono 27 dato che la TAP fa scalo a Panama, l’aereo viene svuotato e i passeggeri imbarcati di nuovo.

Finalmente a Bogotà: 2640 metri di altezza sul livello del mare. Qui vista la posizione, fa freddo e piove, tipica giornata da fine autunno. L’aria è rarefatta vista l’altitudine, salire ulteriormente fino alla montagna del Monserrate con il suo Santuario El Senor Caido a 3150 metri di altezza. Ci arriva la funivia ma i pochi metri che ancora bisogna fare fino alla vetta metteranno alla prova quelli meno allenati a livello respiratorio.

Bogotà Ha un piccolo centro storico in stile coloniale, con casette basse coloratissime che ricordano moltissimo quelle di Trinidad nell’Isola di Cuba. Qui è bello passeggiare tra gli studenti universitari che abitano nel quartiere è lo rendono un luogo stimolante e attivo. Per il resto la città non vanta altre bellezze degne di nota, se non il Museo dell’Oro che è un’esperienza mozzafiato per la ricchezza e l’abbondanza dei reperti che risalgono all’epoca precolombiana.

Dopo la doverosa visita alla Capitale, il giorno dopo ripartiamo con un volo interno alla volta, finalmente, della Guajira. Appena scesi veniamo letteralmente proiettati in un’altra realtà, lontana anni luce dal nostro mondo e anche da quello visto il giorno prima nella grande città.

Atterriamo a Riohacha, un piccolissimo aeroporto di quelli tipici dei Paesi tropicali: le palme, un camioncino dei Vigili del Fuoco arrugginito e la scaletta per scendere direttamente sulla pista e proseguire a piedi fino all’aerostazione che è un grosso salone con porte e finestre aperte perchè non c’è aria condizionata.

Il volo viene operato da Avianca, la Compagnia di Bandiera colombiana che può vantarsi di essere la seconda compagnia aerea al mondo per data di fondazione preceduta solo dalla ben più nota KLM.

Candelaria

La Candelaria è uno dei quartieri più interessanti di Bogotà

la Compagnia di Bandiera colombiana che può vantarsi di essere la seconda compagnia aerea al mondo per data di fondazione

Siamo nel bel mezzo della Guajira, questa doveva essere la meta finale del viaggio con la motocicletta che fecero Che Guevara con il suo amico Alberto Granado, in realtà non arrivarono a destinazione: ma la mia meta aveva affascinato anche loro.

Da queste parti ancora si può provare l’ebbrezza di sentirsi “esploratori” o “viaggiatori” se preferite. Spingersi da queste parti significa essere davvero molto curiosi di sapere “cosa c’è oltre” oltre le solite mete turistiche, dove finiscono le strade asfaltate e inizia la vera avventura. E l’avventura non tarda ad arrivare: ci aspetta Emilio, il nostro autista: un omone gigantesco, un indio portato al sorriso e alla battuta con un tono di voce assordante, parla poco lo spagnolo, più che altro conosce la sua lingua, ma con le sue 20 parole riesce a farsi capire senza problemi su molti argomenti. Saliamo sul suo bel fuoristrada 4X4 a passo lungo ed eccoci ad iniziare finalmente il clou del nostro itinerario.

Guajira
Nelle saline della Guajira in fuoristrada. Foto: ©Roberto Gabriele

Nel pomeriggio ci fermiamo in un villaggio di capanne di fango e paglia, qui è la norma, sembra di stare in Africa. Le donne sono poco abituate al turismo, ci salutano con una certa timidezza e non hanno nulla da venderci, siamo noi stessi a chiedere loro se vogliano esibirsi in canti o danze tradizionali per condividere con noi una parte della loro cultura. Ben felici della nostra richiesta,  le donne convocano un anziano percussionista che con il tamburo accompagna le loro danze che ricordano i movimenti che fanno i pennuti da cortile nei loro corteggiamenti. Questo è il nostro primo incontro con i Wayuu che vedremo più avanti.

Wayuu
Danze Wayuu. Foto: ©Roberto Gabriele

Ma è proprio questo suo fascino selvaggio che ci piace trovare

Proseguiamo fino a Cabo De La Vela un villaggio sul mare in una posizione da sogno, incredibile, con un mare verde smeraldo e le coste sferzate da un vento fresco e gagliardo. Anche qui non esiste il turismo in nessuna forma. Il lungomare è solo il “giardino sul retro” delle capanne costruite sulle dune. Nel villaggio non c’è assolutamente nulla nè da vedere, nè da fare, nè da comprare. Ma è proprio questo suo fascino selvaggio che ci piace trovare in questo piccolo avamposto nel nulla sospeso tra il mare e il deserto. Non esiste corrente elettrica, non esiste segnale telefonico per i cellulari.

C’è giusto il tempo di fare un bagno nell’Oceano al tramonto che arriva la sera: siamo in fascia equatoriale, per cui qui durante tutto l’anno il sole tramonta intorno alle 18, il che vuol dire che alle 19 abbiamo già finito di cenare e alle 21 si spegne il gruppo elettrogeno e tutto il paese resta nel buio più totale… Ne approfittiamo per fare qualche foto ad una notte stellata incredibile che non dimenticheremo facilmente.

Parlavo di avventura e il momento di andare a dormire ci riserva un’altra bella sorpresa: non ci sono le camere, non ci sono muri, nè letti! Si dorme tutti insieme sotto una tettoia di paglia ciascuno sul suo chinchorro (da queste parti le amache si chiamano così), ma ci vuole l’esperienza del nostro autista Emilio che ci spiega la tecnica per dormire su questi inconsueti giacigli: basta mettersi a 45° rispetto all’asse dell’amaca: in pratica è necessario dormire con le gambe appese all’esterno del supporto in modo da farlo rimanere un pò più aperto. Solo i più fortunati riusciranno a dormire un paio di ore a notte…

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La notte stellata su una spiaggia in Guajira. Foto: ©Roberto Gabriele

Per fare uno spostamento di soli 200 km ci vogliono 10 ore di “Colombia Massage”

La Guajira è un vero deserto in mezzo al mare: qui ci sono altissime dune sabbiose che vanno a finire direttamente nell’oceano, ci si sposta solo in fuoristrada 4×4 perchè non ci sono strade: la velocità media che si può tenere sulle piste è di 20 chilometri all’ora, il che vuol dire che per fare uno spostamento di soli 200 km ci vogliono 10 ore di “Colombia Massage”, una giornata intera di sballottamenti tra rocce e sentieri, tra guadi e saline.

Da qui partivano i corrieri del mare, i trafficanti di cocaina del cartello di Medellin che attraversavano il Mar dei Caraibi per fare tappa a Cuba e poi portare la droga nel sud degli USA. Molte delle piste segnate da queste parti e ancora oggi percorribili, sono state tracciate dagli sgherri al soldo di Pablo Escobar e non meraviglia più di tanto il fatto che la penisola sia ufficialmente divisa tra Colombia e Venezuela, ma andando da quelle parti ci si rende conto che tali confini siano piuttosto labili e di fatti i Wayuu sono un Popolo apolide che si sposta più o meno liberamente a seconda delle necessità tra questi due Paesi.

Di fatto i confini tra i due Paesi non vengono controllati: sono pochi e segnati male, ne segue una gran tolleranza per le popolazioni locali che sono piuttosto libere di passare da una parte all’altra nell’indifferenza delle Autorità preposte ai controlli di frontiera.

Cabo de La Vela
Una scuola a Cabo de La Vela. Foto: ©Roberto Gabriele

Migliaia di Fenicotteri rosa

Altra meta da non perdere in Guajira sono laghi e insenature di mare che ospitano migliaia di Fenicotteri rosa pronti a volare via appena l’uomo si avvicini nei paraggi. Per vedere questo spettacolo della natura suggerisco di utilizzare una piccola barca a vela con la quale avvicinarsi senza disturbare gli uccelli e di tenere anche montato il teleobiettivo stando pronti per riprenderli quando immancabilmente si alzeranno in volo: uno spettacolo meraviglioso contraddistinto dal particolare verso gracchiante dei fenicotteri impauriti!

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Fenicotteri rosa. Foto: ©Roberto Gabriele

“La parte più a nord dell’America del sud”

Ma la meta più estrema del nostro giro nonchè il termine del nostro itinerario è Cabo Gallinas: la punta famosa per essere quella più a nord di tutta l’America del Sud! Qui c’è un faro per i naviganti, una meta imperdibile per soddisfare le vanità di ciascuno di noi con un classico SELFIE!

I Wayuu oltre ad essere pastori e allevatori, sono anche abilissimi nuotatori e quindi pescatori, qui a cena puoi mangiare 4 aragoste a persona spendendo solo 18-20 euro… Il nostro viaggio fuori strada continua fino alle ventosissime Dune di Taroa molto note in zona proprio per questo motivo: il vento praticamente costante tutti i giorni dell’anno, può essere a volte così forte da far cadere una persona con le sue raffiche.

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Incontri ravvicinati a Punta Gallinas. Foto: © Roberto Gabriele

I treni che portano il carbone dalle antiche miniere tutt’oggi funzionanti, fino ai porti

La Guajira è una zona che oltre alle sue bellezze porta i segni anche dello sfruttamento del territorio: ci sono delle saline enormi come quella di Manaure: qui ci sono ettari ed ettari di terra in cui viene lasciata evaporare l’acqua del mare per ottenere cloruro di sodio utilissimo per l’alimentazione umana.

L’altra fonte di reddito che viene da questa natura aspra e avara, sono i treni che portano il carbone dalle antiche miniere tutt’oggi funzionanti, fino ai porti o ai consumatori finali: vediamo passare tanti convogli, sono lunghissimi con la tipica motrice a gasolio si spostano lenti portando ogni tanto a bordo anche qualche clandestino che non aveva altro modo per spostarsi.

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I treni minerari. Foto: ©Roberto Gabriele

Il nostro viaggio termina con il lungo e lento rientro verso il nostro mondo occidentale, abbiamo vissuto giornate intense di scoperta di un Paese sconosciuto ai più. Ci resterà il ricordo di una esperienza di vita rude e a contatto con una natura gagliarda in grado di fare del male a chi la sfidi, e al contempo innocua con chi la teme. Ricorderemo il silenzio profondo che pervade quei territori sconfinati e disabitati divisi tra l’oceano e il deserto.

Leggilo su Acqua & Sapone:

Questo Articolo è stato pubblicato sulla Rivista Acqua & Sapone a luglio 2017, sfoglialo sul sito: https://www.ioacquaesapone.it/leggi/?n=asagosto2019#106

Monastero buddista in Mongolia

Ritenevo di aver preparato con cura il Viaggio in Mongolia, approfondendo sia la vita della popolazione nomade sia la straordinaria offerta naturalistica di questo meraviglioso e sconfinato Paese; colpevolmente, non avevo approcciato in maniera esaustiva il Buddismo ed il rapporto tra i Fedeli ed i Monaci Buddisti.

Chissà, forse inconsciamente , ho preferito calarmi in maniera asettica ed “epidermica” nella fantastica emozione di fotografare questo mondo di pace ed interiorità.

Varcare la soglia di un Tempio Buddista, significa utilizzare una sorta di Stargate che ti proietta in una dimensione fatta di serenità, trascendenza, compartecipazione ed assoluto amore per il prossimo e per la natura; osservare i Monaci che si preparano all”ingresso nel Tempio ed assistere al “servizio” durante il quale un Lama per un fedele recita una sutra con il tipico canto gutturale del Buddismo Tibetano, inizialmente mi ha quasi fatto dimenticare la “fotografia” provocandomi una diffusa e persistente sensazione di benessere da non interrompere.’

Buzkashi o Kupkari

Durante le tre edizioni del nostro Viaggio Fotografico in Uzbekistan i nostri Viaggiatori si sono espressi con foto e video sul Buzkashi, che da queste parti chiamano Kupkari.

Tre nostri Compagni di viaggio ci hanno dato la loro personale lettura di una giornata straordinaria:

  • Roberto Manfredi
  • Francesco Dolfi
  • Lia Dondini Taddei

E per finire in fondo alla pagina ci sono anche i video di:

  • Giorgio Sega
  • Luca Maiorano

Scopri tutto in questa pagina e guarda come hanno trattato lo stesso argomento in modi tanto diversi…

Buzkashi o Kupkari, cosa è?

Roberto Manfredi

Acchiappa la capra! Questo è il significato della parola uzbeka Kupkari e della corrispondente parola parsi Buzkashi. Si tratta di un antico sport equestre molto popolare in Uzbekistan e in molti paesi dell’Asia centrale. 

In un grande campo molte decine o, spesso, centinaia di cavalieri si contendono la carcassa di un agnello o di una capra. Vince chi riesce a far cadere la carcassa in un’area preassegnata. Il giocatore che ci riesce viene premiato, poi il corpo dell’animale viene riportato al centro del campo e si ricomincia.
Ci sono molte varianti di questo sport: può essere giocato da due squadre contrapposte o individualmente, tutti contro tutti.
In alcuni paesi, come in Kazakhstan (dove il gioco si chiama kökbörü), si svolgono addirittura dei campionati e le squadre si affrontano indossando delle vere e proprie uniformi. Nei villaggi dell’Uzbekistan si pratica quella che probabilmente è una delle versioni più antiche e genuine: si gioca individualmente e l’abbigliamento dei concorrenti è libero è assolutamente funzionale.
Molti cavalieri indossano dei caratteristici caschi di stoffa imbottita, residuati militari usati un tempo dai carristi dell’Armata Rossa sovietica.
L’Imam benedice i fantini

Buzkashi

La contesa della pecora nella mischia dei fantini
La corsa per deporre la pecora
Si lotta per contendersi il trofeo
Il fantino con la sua preda corre verso la vittoria inseguito dagli altri concorrenti
La grande fuga trascinando la pecora spesso finisce fuori dal campo di gara
Incidente fortunatamente senza conseguenze…
Sportiva amicizia tra concorrenti
Il fantino ritira il suo premio
Un uomo conta i soldi vinti con una scommessa

Le regole:

Le regole sono poche: è proibito colpire un avversario con il frustino e cercare di farlo cadere da cavallo. Per il resto è tutto permesso. Il cavaliere in temporaneo possesso della carcassa la trattiene stringendola al corpo del cavallo con una gamba, mentre i concorrenti lo inseguono e cercano di affiancarlo per strappargliela, e per farlo spesso assumono posizioni acrobatiche sul cavallo in corsa.
I cavalli vengono spronati con frustini ottenuti dalle cinghie di trasmissione dei motori a scoppio, e quando i giocatori necessitano delle mani per contendersi la carcassa, i frustini vengono tenuti tra i denti.
Il pubblico segue il gioco in posizioni sicure, dall’alto di un crinale o dietro una barriera di veicoli, facendo il tifo per i propri beniamini e scommettendo sui vincitori. I premi, nella partita che abbiamo visto, erano piuttosto ruspanti: una batteria di stoviglie, un servizio da tè o un cuscino in memory…
Il Kupkari è un gioco antico di secoli e le sue origini non sono documentate, ma quasi certamente è nato nel bacino del fiume Amo Darya, il più lungo dell’Asia centrale, che separa gli attuali Uzbekistan e Turkmenistan.
Pare che gli invasori mongoli di Gengis Khan depredassero i villaggi afferrando al volo capre e pecore mentre li attraversavano sui loro cavalli in corsa; le vittime dei saccheggi avrebbero poi cercato di recuperare il loro bestiame allo stesso modo, cavalcando attraverso gli accampamenti mongoli di corsa.
Gli ovini sarebbero stati così contesi cavalcando velocemente; queste contese sarebbero poi state riprodotte per gioco, facendo così nascere il Kupkari.
Il Kupkari si gioca in occasione di feste o matrimoni, quando inizia e finisce la stagione agricola e in molte altre occasioni. Il match raccontato da queste foto si tenne presso Samarcanda il 21 marzo, giorno del Nowruz, capodanno del calendario zoroastriano.
Infine una curiosità: in Argentina si pratica un gioco simile al kupkari, detto “pato” dove al posto della carcassa si usa una palla dotata di sei grosse maniglie.

 

Francesco Dolfi

Kupkari o Buzkashi, secondo i paesi.

E’ il nome di un antico gioco equestre che ha origine in Asia centrale dove è ancora diffuso e praticato in occasione di festività ed eventi speciali.

Con « viaggio fotografico » abbiamo potuto assistere a questa straordinaria festa, non lontano da Samarcanda, in Uzbekistan, in occasione del Navruz che celebra l’equinozio di primavera e l’inizio del nuovo anno, secondo una tradizione che risale ai tempi del zoroastrismo .

 

Niente arene, piazze o stadi, con scalinate, balconi o tribune. Il Kupkari si gioca all’interno di una spianata stepposa, delimitata da dossi di terra, dove si assiepa il pubblico, soprattutto donne e bambini, che incitano i valorosi cavalieri, rigorosamente uomini, che si trovano più in basso e si contendono la carcassa di una pecora o un montone per portarla e depositarla oltre il traguardo.

In premio ci sono somme di denaro, beni di consumo e il riconoscimento del proprio valore. Come in ogni competizione equestre che si rispetti, non mancano gli allibratori e le scommesse.

Intorno alla competizione ci sono gli stand gastronomici per ristorarsi dopo la gara
Un fantino vittorioso va a ritirare il suo premio
La tribuna d’onore è sui cassoni dei camion
Momenti della gara
La pecora contesa tra i fantini
una vera e propria mischia di uomini e cavalli: hanno appena raccolto la pecora da terra e cercano il modo di iniziare la loro fuga
La corsa
La contesa
I fantini ricevono la benedizione dell’Imam
Il pubblico

Uno sport pericoloso:

La giuria e gli ospiti privilegiati, quali eravamo noi fotografi venuti da lontano, trovano posto a bordo di autocarri che, disposti in fila, delimitano l’area di della competizione. Gli stessi offrono pure un riparo dagli impetuosi assalti dei cavalieri e dagli zoccoli dei loro cavalli.

Il gioco è piuttosto violento e le regole concedono di tutto, compreso l’uso di un improbabile frustino, che i cavalieri stringono tra i denti, usato per colpire l’avversario e per disarcionarlo.

Per proteggersi, i cavalieri indossano dei copricapo di ogni genere, tra questi un vecchio e bizzarro berretto da carrista, reliquia dell’era sovietica.

La competizione comincia con i saluti di rito e una preghiera, un trattore trasporta la carcassa al centro del campo e la competizione ha inizio.

L’energia sprigionata dai cavalli al galoppo e dai cavalieri che lottano, corpo a corpo, impennando i loro destrieri è davvero impressionante e coinvolgente.

Il Kupkari non è soltanto una competizione equestre, ma è anche e soprattutto una grande festa di paese. Non abbiamo assistito ad un evento confezionato per i turisti, bensì ad un momento di indimenticabile folklore autentico e genuino.

di Francesco Dolfi

 

Lia Taddei

Il Buzkashi in Uzbekistan

Il Buzkashi (chiamato anche Kupkari) è uno sport equestre praticato in tutta l’Asia centrale e considerato sport nazionale in Afghanistan.


In Uzbekistan è generalmente praticato in determinate occasioni come matrimoni o feste nazionali.
E’ praticato in un grande campo; l’obiettivo è quello di impadronirsi della carcassa di una capra, portarla lungo un percorso obbligato e lanciarla oltre un’area definita. I giocatori utilizzano una piccola frusta in pelle grezza che viene tenuta tra i denti quando non è usata.

 

Gli uomini gareggiano sotto gli sguardi delle loro donne
Panning
La vittoria
Scene di gara

I fumi del pranzo invadono il campo di gara
Durante la benedizione dei fantini pregano anche gli spettatori
Il campo di gara è uno spiazzo non delimitato nè segnato in alcun modo

La tradizione:

Non esistono regole scritte, sono per di più tramandate oralmente e frutto di una lunga tradizione ed è concesso di tutto, da colpire l’avversario con il frustino a farlo cadere da cavallo E’ sicuramente uno sport piuttosto violento, ma fa parte delle tradizioni locali e ha origini antiche.

Si pensa che sia stato introdotto dai Mongoli nel 12mo – 13mo secolo.
Il Buzkashi in Uzbekistan viene organizzato in modo spontaneo e non è sempre facile conoscere il luogo esatto e l’ora in cui si svolgerà ,ma grazie alla nostra preziosa guida Bek siamo riusciti a partecipare a questo evento.


L’atmosfera che si respira è festosa, la gente locale, ammassata attorno al campo, tifa, scommette, ma anche si cucina carne alla brace e i locali ti invitano a mangiare con loro e a bere (vodka!).

C’è fierezza e determinazione nel volto degli uomini che a cavallo sono pronti a tutto pur di raggiungere l’obiettivo e conquistare così il premio e dimostrare il loro coraggio.

di Lia Taddei

Giorgio Sega

Luca Maiorano

La Famadihana in Madagascar

Da qualche parte in Madagascar, nell’estate del 2008, ho assistito al rito della Famadihana.

Nel nord del Madagascar, nella piccola zona che si estende dalla Capitale Antananarivo fino ad Antsirabe, nelle campagne è ancora in vigore la Famadihana: un rituale di riesumazione dei morti dalle tombe di famiglia, le tradizioni legate al culto dei morti sono molto importanti e sentite e in ogni zona dell’isola si celebra in modo diverso la perdita dei propri cari.

Spostandosi  verso l’estremo sud, invece, questa usanza è quasi del tutto sconosciuta: da quelle parti vengono costruite tombe enormi con muretti lunghi circa 10 metri di lato e alti circa un metro e venti. Le tombe del sud vengono decorate con dipinti che ricordano la vita del defunto nelle sue passioni e nei suoi interessi. Una specie di fumetto, un fotoromanzo che raccontano il lavoro, la famiglia o le sue attività. Le tombe vengono adornate con oggetti che erano del defunto o con simbologie varie realizzate su totem piantati nel terreno.

L’uscita della salma

L’uscita della salma dalla tomba. Migliaia di persone sono arrivate da tutta la valle per festeggiare. Foto: © Roberto Gabriele

La Famadihana del nord, invece, è un rituale che viene fatto dopo sette anni dalla morte del congiunto (e solo nel periodo fra luglio e settembre), la famiglia organizza una grande festa in onore del defunto che viene riesumato dal suo sepolcro e portato in processione dalla folla gioiosa che canta e balla accompagnata da intere bande musicali.

Io andai a fotografare questo rituale nel 2008 durante uno dei miei viaggi, riuscii ad organizzarmi con un autista che mi portò in giro per tutta la giornata, partenza al mattino prestissimo e dopo 4 ore di auto arrivai nella zona il cui è possibile vedere il rito. Il problema era che non è così scontato trovare la festa, non si tratta di un evento che viene celebrato in un giorno fisso ogni anno, può essere in qualsiasi giorno e ci vuole un pò di fortuna per trovarne una quando si è in giro a cercarla.

Il momento del pranzo ricorda l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Foto: © Roberto Gabriele

La festa della Famadihana ha inizio già al primo mattino, la casa dei parenti viene trasformata in un ristorante dove decine o centinaia di persone prenderanno parte al pranzo di festeggiamento che si svolge in giardino per ovvi motivi di spazio. Tutto si svolge nella massima allegria, la gioia gli deriva dalla possibilità unica (direi dal privilegio) di poter riabbracciare, seppur per poche ore, il corpo del loro caro estinto.

Passai una giornata intera con la famiglia del defunto, mi presentai con il mio autista che mi faceva anche da interprete e che chiese ai padroni di casa se io potessi assistere e fotografare tutto il rito. Furono onorati della mia presenza, e fui ammesso senza esitazioni ad un evento così privato nonostante fossi uno sconosciuto. Non mi chiesero nulla, per partecipare e mi fu veramente difficile una volta entrato fargli accettare le due bottiglie di rum che gli avevo portato in omaggio per ricambiare l’ospitalità. Le portai come regalia per ingraziarmeli e invece loro non volevano neanche accettarla: un ospite che sia ben accetto non paga, un ospite non gradito non entra! Alla fine accettarono.

Si inizia dal pranzo

Il pranzo è abbondante, viene convocata persino la banda musicale del paese che accompagnerà con le sue note tutta la giornata della Famadihana. Più la famiglia è ricca, tanto più sarà grande la formazione dei musicisti. Il pranzo prevede maiale bollito con le patate che è rituale per questa circostanza. Si festeggia e le porzioni in questi casi sono sempre generose. Durante il pranzo c’è la banda musicale che allieta gli ospiti, i musicisti sono in numero proporzionale alla disponibilità economica della famiglia e suonano musiche allegre con gente che balla.

Dopo il pranzo vengono raccolte le offerte per pagare parte delle spese cui la famiglia va incontro in quella giornata. Più o meno succede la stessa cosa che si fa dalle nostre parti in Italia con le buste ai matrimoni.

La famiglia raccoglie le offerte degli invitati che aiutano a sostenere i costi di una festa con centinaia e a volte migliaia di invitati. Foto: © Roberto Gabriele

Dopo aver raccolto le offerte, si parte insieme per raggiungere a suon di musica la tomba di famiglia che può essere lontana anche qualche chilometro. Alla tomba arrivano altri ospiti, centinaia, anche un migliaio di persone da tutta la valle si riuniscono per festeggiare. Qualcuno porta un tavolino che verrà trasformato in un punto di ristoro in cui comprare qualche bibita o qualcosa da mangiare. E’ impressionante vedere questi fiumi di persone che si dirigono tutti insieme verso lo stesso punto: camminano a piedi, portano le bandiere del Madagascar e festeggiano sui prati. La Famadihana è una festa per tutti, non solo per la famiglia.

Il grande esodo

Gli invitati alla riesumazione arrivano da tutta la valle. Un evento che raccoglie anche mille persone. Quest’uomo con il tavolo allestitirà poi un punto di ristoro in cui vende bevande e qualcosa da mangiare. Foto: © Roberto Gabriele

Camminando tra la folla ti rendi conto di essere in Africa, di essere diverso, unico bianco in mezzo ad una moltitudine di persone. Capisci un pò cosa può significare per uno di loro venire in Italia, da solo, spaesato, senza parlare la lingua e senza conoscere le nostre tradizioni. L’unica differenza è che io in mezzo a quelle persone con la faccia nera mi sentivo accolto, ero amico di tutti, la gente mi salutava e mi faceva sentire importante proprio perchè diverso da loro, perchè ero andato lì per conoscerli e non per invaderli.

Questo non è esattamente lo stesso trattamento che noi Italiani riserviamo ad uno straniero che venga da noi: di certo non lo facciamo sentire a casa sua, non lo salutiamo, non ci importa di ascoltare la sua storia e non vogliamo neanche che si avvicini troppo a noi. Ne segue che ero solo io in mezzo a loro, e mi rendevo conto di tutto questo. Sentivo forti gli odori della gente, dell’erba, degli animali intorno a me, sentivo il caldo umido e opprimente dell’inverno malgascio e immagino cosa può essere stare lì in estate…

Il corpo di un ragazzo è stato appena riavvolto in un sudario nuovo. Il padre a braccia aperte ringrazia dio per avergli dato la possibilità di riabbracciare suo figlio. Foto: © Roberto Gabriele

Arriva poi il momento in cui il corpo viene estratto dal sepolcro e portato in processione a danzare con la folla, in particolare con la famiglia. E’ un momento molto forte, molto sentito: la gioia viene comprensibilmente rotta per la prima volta dal pianto: un pianto di commozione, di nostalgia e di gratitudine per la possibilità di riabbracciare le ossa del proprio parente.

Qui diventa tutto difficile, fotografare è quasi impossibile, non mi viene chiesto di fermarmi, ma in quel momento capisco io stesso che si impone il rispetto.

Infine, quando viene rinnovato il sudario in cui è avvolto il corpo c’è un intenso momento di emozione e di preghiera in cui le famiglie si stringono con forza e sincera solidarietà. Poi la Famadihana termina con la rideposizione del corpo all’interno della tomba dalla quale non verrà mai più estratto.

Una donna malgascia durante la Famadihana. Foto: © Roberto Gabriele

Alta moda in Burkina Faso

Oggi voglio parlare di un diverso modo di viaggiare, di fare fotografia, di vedere il mondo ma soprattutto voglio parlare di un argomento del quale si parla tantissimo: l’Immigrazione. Voglio fare tutto questo insieme mescolando cose apparentemente slegate tra loro.

Iniziamo con il dire che sono Socio della ONG Bambini nel Deserto e che quando posso “mi sporco le mani” rendendomi utile nel volontariato con le mie foto e i video che realizzo quando vado in Africa.

Burkina moda01Torniamo all’immigrazione: problema che coinvolge con opinioni differenti milioni di Italiani, chi vuole aprire le frontiere a chiunque, chi vuole chiuderle. Io credo che il modo migliore per vincere l’immigrazione sia fare in modo che gli extracomunitari abbiano modo di rimanere a casa loro impegnandosi in attività produttive senza essere costretti a rischiare la vita per viaggi terrificanti verso il nostro paese che vedono come il paradiso e si rivela per loro essere un inferno.

La cosa non è difficile da fare e costa anche molto meno che proteggere le nostre frontiere e dare assistenza a chi sopravvive alle carrette del mare che trasportano disperati fino in Sicilia.

Con Bambini nel Deserto realizza una serie di progetti finalizzati all’avviamento di “Attività generatrici di reddito“. Detto in altre parole, formiamo gli Africani al lavoro, a lavori compatibili con ciò che hanno e a farne eccellenze qualitative. Li formiamo affinchè abbiano le capacità teoriche oltre alle abilità manuali. Gli diamo un “Microcredito“, prestiti a tasso zero che servono per fargli acquistare macchinari o materie prime con le quali lavorare, cifre bassissime (fino a 5000,00 Euro) che loro possono restituire in 4-5 anni.

Burkina moda02Cosa facciamo? Ad esempio gli insegniamo a fare i meccanici di moto (Garage Italia è un Progetto realizzato a Ouagadougou), possiamo avviarli a costituire una cooperativa di allevamento di capre per ricavarne il latte o una cooperativa di agricoltori per vendere su larga scala invece che direttamente al mercato.

Burkina FasoQuello di cui invece voglio parlarvi oggi è un Progetto che abbiamo realizzato con una cooperativa di giovani sarte, coordinate da una Italiana che ha deciso di espatriare e stabilirsi lì, aprendo un B&B e con la sua esperienza maturata in anni di alta moda italiana, è andata in Burkina Faso ad insegnare alle ragazze a cucire! E non è mai più tornata in Italia.

Le ragazze che vedete in queste foto sono le stesse che hanno seguito il Corso di sartoria, i vestiti che indossano li hanno cuciti loro stesse e con orgoglio posano per le mie foto con una naturale eleganza e un portamento naturale da fare invidia a molte top model.

Fotografarle è stato per me esaltante. Conoscevo la loro storia, conoscevo le loro aspirazioni, avevo visto come lavoravano e con quanta passione cucivano i loro modelli. A Bobo Dioulasso ho seguito una di queste ragazze che dopo il Corso aveva aperto una sua Sartoria facendo lavorare 4 persone per lei: cuciono vestiti su misura, gli porti la stoffa, scegli il modello e passi a ritirarlo finito un paio di giorni dopo.

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La cosa bella è che stando in Italia sembra che un lavoro nella moda sia riservato solo a noi, oppure a fabbriche di Cinesi stipati a Prato, non è facile pensare che anche in Africa ci siano persone che tengono al loro look! Fortunatamente non tutti gli Africani muoiono di fame, ci sono milioni di persone che nella loro povertà hanno una grandissima dignità e con piccoli (o grandi) gesti curano la propria persona come lo farebbe uno di noi. L’Africa riesce sempre a meravigliarmi, ogni volta che ci ritorno…

modaQuando vado in Africa la sensazione più bella è quella di trovarmi in un posto con enormi potenzialità, in un territorio vergine pronto per crecere e dare i suoi frutti migliori. Non un posto da conquistare o da colonizzare, ma al contrario vedo un intero continente che ha voglia di crescere, di svilupparsi e dare il meglio che ancora non è riuscito a dimostrare.

E’ bello poter raccontare le storie di chi ce l’ha fatta a rimanere nel suo Paese, a realizzare la sua vita con eccellenze alla sua portata che gli hanno permesso di farsi una famiglia, di imparare un mestiere e di contribuire alla crescita del suo villaggio.

Altre storie vi potrò raccontare, nelle prossime puntate…

Testi e foto di Roberto Gabriele e Simona Ottolenghi

Leggi anche la versione pubblicata sul sito di Bambini nel Deserto.Burkina Faso


Là fuori c’è la Mongolia

Mai come in Mongolia ho provato un senso di infinito, di vuoto, di deserto, di enormità contrapposto ad una civiltà antica e ad un popolo nomade e civile che abita gli spazi sconfinati.

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In Mongolia l’estate dura da giugno ad agosto, ci sono poi due brevi stagioni intermedie e 8 mesi di inverno durissimo con temperature che scendono a 50 gradi sotto zero, Ulaan Batar arriva a 50 gradi in estate raggiungendo un’escursione termica di 100 gradi tra le massime e le minime che mediamente si registrano ogni anno. Si aggiunga poi che su 2 milioni di persone in tutto in Mongolia il 30% della Popolazione vive da nomade nella steppa nelle caratteristiche Ger, le tende mongole: intere famiglie di allevatori che condividono i pochi metri quadrati della tenda sfidando i fortissimi e gelidi venti che arrivano da nord.

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Queste premesse socioclimatiche mi erano necessarie per chiarire il significato di queste mie fotografie. La cosa che più mi ha colpito viaggiando da queste parti è il senso di confine che c’è tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, tra le case (o le tende) e la natura selvaggia che è subito fuori di esse. Unico filtro fra interno ed esterno è la lastra di vetro di una finestra o una porticina di legno.

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Ho iniziato quindi ad osservare l’esterno visto dall’interno, a guardare quel mondo con gli occhi di chi lo vede tutti i giorni. Ho iniziato ad immedesimarmi nel punto di vista di chi vive contrasti tanto forti che rendono difficilissima qualsiasi forma di comunicazione e socializzazione.

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Nei pochi villaggi ci sono dei piccoli minimarket che vendono i generi di prima necessità senza lasciare alcuno spazio a tutto ciò che è superfluo, non indispensabile, non necessario. Le città più grandi hanno 2-3000 abitanti, un distributore di benzina, un paio di questi minimarket, un ristorantino per i pochi che passano da quelle parti, un Tempio buddista e qualche casa di muratura che si alterna alle ger.

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Dalle finestre di questi locali, così come dalle porte delle ger dei nomadi, si vedono mondi desolati, città vuote o l’immensità del Deserto di Gobi.

Ho voluto fare una analisi sociale di quello che è il mondo che queste persone hanno davanti. Da quelle finestre si vede sempre la stessa piazza, da quelle porticine sempre lo stesso orizzonte. La cosa che mi sconvolge è il fatto che siano pochissime le persone che vivono quegli spazi.

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Un nomade vedrà solo il deserto o la sua famiglia: una manciata di persone solitarie. Chi sta nel villaggio vedrà comunque sempre le stesse facce per tutta la vita. Da quelle parti è difficile trovare una propria identità, difficilissimo lasciare spazio alla creatività, alla socialità, allo scambio sociale e culturale tra le persone.

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Nessuna speranza di cambiamento per nessuno. La loro vita è segnata dal clima, dalla natura che non lascia spazio ai sogni.

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