Kumbh Mela 2019

Quando nel 2019 ho intrapreso il viaggio in India per partecipare al Kumbh Mela, non sapevo neanche cosa volesse dire questa parola, sapevo che era un pellegrinaggio religioso molto sentito dal popolo indiano, invece adesso, a distanza di 4 anni, Kumbh Mela per me vuol dire: “avventura”.

Ero già stata in India, quindi ero preparata alla folla, alla devozione, ai suoni e agli odori di un campo indiano, ma non avevo idea di quello che sarebbe successo appena attraversato uno dei ponti di collegamento con il campo di Allahabad.

Kumbh Mela 2019

Una voce da un altoparlante annuncia pochi minuti dopo il nostro arrivo che a causa dell’imprevisto numero di persone, per motivi di sicurezza, i ponti sarebbero immediatamente stati chiusi sia in entrata che in uscita. In pochi istanti mi ritrovo prigioniera del Kumb!

L’euforia data dall’atmosfera, magica già ad una prima occhiata, supera il pensiero di qualsiasi problema pratico.

Gli Aghori:

L’esplorazione del luogo è l’assoluta priorità, con il passare delle ore però la nostra salvezza sarà l’incomparabile ospitalità indiana, troveremo asilo nel campo tendato dei Naga Aghori, una setta di asceti induisti che avrebbero sfilato durante la notte fino al fiume per immergersi nelle acque e trovare così la purificazione dai mali del mondo.

La prima sorpresa sarà che per poter essere ospitati nel loro campo dobbiamo diventare loro seguaci, ed è così che dal febbraio 2019 sono a tutti gli effetti una seguace dei Naga Aghori con tanto di tessera plastificata a testimoniarlo.

Kumbh Mela 2019

Scoprirò un’ospitalità incondizionata, ricorderò per sempre la sveglia per partecipare alla processione alle tre del mattino da parte di un Aghori completamente nudo e coperto di cenere con in mano un vassoio da tè. Non ho documenti fotografici di quel momento se non la mia memoria, quell’apparizione allo stesso tempo inquietante e tenera prima dell’alba è ancora oggi la sveglia più sorprendente della mia vita.

I bagni rituali:

Alle tre del mattino il campo già pullula di persone, il rumore è assordante, i tamburi scandiscono il tempo che ci separa dall’inizio della processione verso il fiume. Gli Aghori si stanno cospargendo il corpo di cenere come segno di devozione.

Quando un Sadhu a cavallo darà il via alla festa mi ritrovo stretta tra la folla che si muove verso il fiume. Sono in un vortice di pensieri, suoni, odori, persone, stringo la macchina fotografica più forte che posso e mi lascio trasportare, mi fermerò solo quando sarò arrivata in fondo.

Kumbh Mela 2019

L’arrivo al fiume è emozionante, l’alba si alza a poco poco, uomini donne e bambini si immergono semi vestiti nell’acqua ancora nera della notte e pregano. Intorno a me sento una grande energia spirituale, anche se non condivido con questa gente la stessa religione condivido uno stesso momento di intensa spiritualità.

Anche la strada del ritorno sarà un’avventura fatta di incontri di ogni tipo.

Sarò di nuovo al campo degli Aghori a giorno inoltrato e non so se sia stata la fame, ma il pranzo offertomi (completamente vegano) è ancora oggi il più buono mai mangiato in India.

La stanchezza a questo punto è tanta, ma mi sento parte integrante di un evento più grande di me, e attraversando il ponte che mi porterà definitivamente fuori dal campo e lontano dal Kumbh Mela, ho già in fondo al cuore un sentimento di nostalgia per un’esperienza che so già irripetibile.

Il Festival del Navruz in Uzbekistan

Samarcanda:

Se ami viaggiare, ma viaggiare veramente, Samarcanda non può mancare tra i viaggi che devi fare, o che hai già fatto. E anche se non ci sei mai stato, sai già che Samarcanda si trova lungo l’antica Via della Seta, la strada carovaniera che univa l’Oriente e l’Occidente, Pechino a Roma passando per tutta l’Asia Centrale, la Turchia, i Balcani per arrivare in Italia. La via percorsa da Marco Polo.

 

Samarcanda quindi non è solo il titolo di una famosa canzone nè di una città mitica e ormai scomparsa, anzi… Samarcanda oggi è una città frizzante, piena di vita e di turismo, che mantiene integra la sua bellezza antica insieme ad uno stile di vita occidentale ma allo stesso tempo molto legato alle tradizioni.

 

Siamo in Uzbekistan, molti di noi non lo hanno neanche studiato a scuola, semplicemente perchè all’epoca non esisteva neanche sulle carte geografiche, era ancora una delle tante, sconosciute, Repubbliche Sovietiche.

 

Vedere questa città per molti viaggiatori è vivere un sogno che magari attende da 10 o 20 anni di essere realizzato. Arrivare qui ed entrare nella Piazza Registan illuminata al tramonto è un’esperienza che ti lascerà senza fiato, sentirai un senso di appartenenza a qualcosa che già faceva parte del tuo DNA.

 

A Samarcanda la cosa più famosa sono le tre enormi madrasse, ossia le scuole coraniche che con i loro minareti costituiscono i tre lati di una piazza di rara bellezza. Le madrasse sono aperte al pubblico dei visitatori anche non musulmani: qui l’Islam è una religione molto sentita perchè moderata, pacifica e accogliente. Gli Uzbechi sono un popolo sorridente, e sorridendo mostrano con orgoglio i denti d’oro che nella loro cultura vengono apprezzati come un vezzo estetico e come status symbol del livello sociale.

La Via della Seta:

Il periodo d’oro di questo Paese fu quello di Tamerlano, un conquistatore che creò un regno enorme ed efficientissimo, la Via della Seta qui mostra ancora i suoi antichi splendori con edifici decorati con maioliche coloratissime e disegni geometrici che a ben guardare sono versetti del corano stilizzati. Sono stato già 3 volte in Uzbekistan a fare foto: la lunga strada che attraversa il Paese, i suoi caravanserragli, le stazioni di sosta degli animali, i mercati straordinari di scambio delle merci ancora oggi si distinguono per la varietà dei prodotti che si possono trovare. Dai tappeti alle sete più raffinate, dall’artigianato al pane che si presenta in ogni forma e viene cucinato con le tecniche più diverse che merita un’attenzione particolare.

I commerci nei secoli hanno unito culture lontane, hanno fatto incontrare viaggiatori lungo le loro strade, hanno portato benessere a chi li ha praticati e a chi di essi si è giovato per migliorare la propria vita. In effetti qui la gente sta bene, c’è una cultura molto pacifica e accogliente nei confronti di chi passa in viaggio da queste parti e si ferma anche solo per un thè prima di riprendere il suo cammino.

Viaggiare lungo la Via della Seta ti fa sentire molto forte proprio questa “presenza” di altri viaggiatori che prima di te hanno percorso quella strada, trovandola nei secoli sempre uguale a sè stessa, con le sue moschee e minareti, le stazioni di posta, le botteghe degli artigiani che ancora oggi si affacciano su di essa. La Via della Seta va vissuta dai viaggiatori di oggi come quelli del passato nel ricordo e nella percezione della sua importanza storica e culturale.

Il Navruz:

In tutto l’Uzbekistan, il 21 marzo si celebra il Navruz: la festa più importante dell’anno che in tutto il Paese da il benvenuto alla Primavera. In ogni quartiere, in ogni città, in ogni villaggio del Paese ci si riunisce per festeggiare con riti che richiamano alla tradizione uzbeka.

 

I festeggiamenti possono essere celebrati in vari modi a seconda delle usanze del luogo. Mi è capitato di vedere due volte questa festa, in un villaggio piuttosto isolato nei pressi di Samarcanda. Occorre arrivarci, sapere dove si trovano certi eventi perchè assistervi non è così semplice, spesso si rischia di arrivare solo ad una tavolata comune a cielo aperto, una sorta di pranzo di quartiere… Io invece con la mia guida sono riuscito ad arrivare in questo posto nel quale più che una vera piazza come la intendiamo noi c’era uno slargo sterrato tra le casette dell’agglomerato urbano e lì si svolgeva la festa.

 

Gli uomini, riuniti in quadrato intorno ad un grande tappeto da gara imbottito come una sorta di tatami artigianale, si esibiscono rigorosamente tra loro in un torneo di Kurash, la lotta libera locale nella quale sono fortissimi. Gli incontri durano pochi minuti, il giudice di gara non è una persona ma è tutto il pubblico che testimonia la regolarità dell’incontro. Gli atleti si presentano scalzi sul campo di gara indossando i vestiti di tutti i giorni, quelli con i quali vanno al lavoro nei campi, niente divise, nessun abbigliamento da gara, niente rituali di preparazione: la lotta non è violenta e non prevede colpi, ma solo leve di forza per mettere l’avversario con le spalle a terra. Il vincitore dell’incontro porta a casa premi in natura come ad esempio una gallina viva, o un sacco di 25 chili di riso.

 

Mentre gli uomini lottano,  sul lato opposto della piazza, le donne sono invece tutte vestite a festa con abiti coloratissimi dai tipici disegni uzbechi che ricordano molto da vicino le matrioske con i loro fazzoletti annodati sulla testa e un tipo di trucco che unisce le sopracciglia rendendo sul viso l’effetto di una specie di onda molto caratteristico. I loro vestiti sono pieni di merletti, di ricchi copricapo decorati, a vestire con grande eleganza e femminilità. Si esibiscono in danze e improvvisate, sfilate di moda che servono alle ragazze anche per trovare marito mostrandosi nel migliore dei modi a quelle che sono le loro potenziali future suocere che potrebbero intercedere a loro favore nei confronti dei figli maschi. Non pensare a matrimoni combinati, a obblighi di sposarsi con persone stabilite dalla famiglia, vedila piuttosto come una presentazione informale tra le famiglie che esprimono in partenza il loro gradimento per il formarsi della coppia che poi è completamente libera di piacersi o no.

 

Le donne danzano con grazia e con gioia mentre i loro uomini combattono. Questo è il Navruz, ma non finisce qui. In altri villaggi la disputa si fa con uno sport chiamato Buzkashi. Si tratta di una gara piuttosto cruenta nella quale la palla è sostituita da una pecora decapitata che ha le modalità di contesa tipiche del rugby fatto però a cavallo e la pallacanestro poichè per segnare punti il malcapitato animale viene gettato in una buca o in un pneumatico di camion. Si tratta di feste davvero isolate, momenti di grande tradizione e storia ai quali è difficile assistere sia perchè lontani dai normali percorsi turistici, sia perchè occorre avere una buona guida che sappia trovarli e anche questo non è assolutamente facile, nè è sicuro che si riesca ad assistervi.

 

Per tutti , poi, il Navruz termina con una enorme tavolata in strada a cui prende parte tutto il villaggio e i fortunati ospiti che sono riusciti ad arrivare fino a lì come è stato nel mio caso. Anche questa va vista con un occhio attento alla cultura, la tavolata infatti si fa nelle case, non in strada, ed è rituale: ha una apparecchiatura estetica e molto curata con cibi che hanno un valore simbolico, come ad esempio i dolci che sono l’augurio ad un anno dolce, un piatto con germogli di grano fioriti che rappresentano la fertilità della terra, i frutti della campagna che sono arance e mele che per il loro odore rappresentano il piacere e la frutta secca, tipico cibo dei viandanti. Il tutto accompagnato rigorosamente da una tazza di thè caldo. Nelle tavolate in piazza invece mangerai grigliate di pecora, maiale, manzo e salsicce tipiche, il tutto condito con buonissime salse di ceci o di sesamo.

 

In alcuni casi, infine, potrà ancora capitarti di vedere i salti rituali del fuoco a fine serata. Sono dei riti di passaggio e prove di ardimento, viene celebrato l’alternarsi delle stagioni saltando dei falò che vengono arsi in strada. Oggi questo tipo di rito è più raro da vedersi perchè ci sono normative di sicurezza che in città impediscono di appiccare incendi nelle strade, può capitare di vederli ancora ma sempre più raramente nelle campagne.

 

E se vuoi seguire le mie tracce alla ricerca delle particolarità più belle dell’Uzbekistan, devi proprio uscire dagli itinerari tradizionale turistici, lasciare la Via della Seta alle tue spalle e proseguire verso nord, seguendo la strada diretta in Kazakistan, e arrivare sulle sponde di quello che fu il Lago Aral, lì ci sarai solo tu. Ci vuole un intero giorno di auto da Khiva per arrivare fino qui. Un angolo di mondo completamente sconosciuto al turismo che è il teatro di uno dei più grandiosi scempi ecologici della storia: un intero lago di 300 chilometri di diametro è stato completamente prosciugato per irrigare i campi di cotone che si trovano a monte del fiume immissario.

 

Oggi il lago Aral è un deserto arido e salato sulle cui sabbie giacciono centinaia di barche arrugginite ormai definitivamente arenate su quello che un tempo era il fondo. Dal punto di vista fotografico è una situazione bellissima in cui scattare, ma dal punto di vista sociale ed economico questa è una piaga della quale dopo più di 30 anni ancora non si riesce a riprendersi, ormai il lago è definitivamente morto. La gente che viveva di pesca sulle sue sponde, di commercio e trasformazione del pesce è rimasta senza lavoro e la vecchia enorme fabbrica in cui veniva inscatolato, è ormai un luogo decadente e abbandonato, nella città semideserta restano ormai solo pochissime persone. Per arrivare fin qui occorre un intero giorno di auto da Khiva, poi occorre cambiare i mezzi e prendere i fuoristrada per poter entrare in sicurezza sul fondo ormai desertico del lago e spostarsi alla ricerca dei vecchi relitti navali. 

 

Dopo il lago Aral, inizia il rientro verso casa, in aereo si ritorna alla capitale Tashkent per poi tornare con un volo via Mosca. La Via della Seta è ormai lontana, ma sento ancora la grande influenza che ha avuto nella mia vita e nella mia voglia di conoscere, scoprire e fotografare il mondo.

 

Eagle’s Festival

Festival delle Aquile: due giorni ad alta intensità emotiva

Testo e foto di Maurizio Trifilidis

Sui Monti dell’Altaj della Mongolia vivono i pastori dell’etnia kazaca; per motivi tradizionali e culturali profondamente radicati, praticano la caccia con l’aquila, le cui tecniche e conoscenze vengono tramandate con orgoglio tra le diverse generazioni.

Foto: © Maurizio Trifilidis – La piana

La caccia si svolge principalmente nel periodo più freddo, quando la terra è coperta di neve e le greggi richiedono meno attenzione. Un periodo in cui la rigidità del clima impedisce la mobilità dei pastori e le poche occasioni di incontro con altre famiglie possono anche essere a ore di viaggio. Le volpi sono la principale preda dei rapaci; il cacciatore trattiene la pelliccia della preda, che usa per il suo vestiario, e ne lascia la carne al rapace.

Foto: © Maurizio Trifilidis L’arrivo in parata

Alla fine di settembre i pastori si radunano per sfidarsi in una serie di gare di abilità e destrezza in un evento per tutti noto con il Festival delle Aquile.

Il campo di gara si trova in un altopiano a 2.000 metri, in una area priva di qualsivoglia abitazione, lontana dal più vicino centro abitato. I cacciatori arrivano a cavallo anche da zone molto distanti, sfoggiando abbigliamento e accessori tradizionali.

L’aquila, con la testa protetta da un cappuccio di cuoio, è posata sul braccio o su un bastone legato alla sella. Il rapporto tra il cacciatore e il suo rapace è esclusivo e dura molti anni.

Foto: © Maurizio Trifilidis – Il cacciatore e l’aquila

Il Festival è una importante, e quasi unica, occasione d’incontro collettivo, l’ultima prima dell’inverno. Alle gare partecipano cacciatori di diverse età. Parenti e amici assistono con passione e forte coinvolgimento.  Tra i spettatori, gli stranieri sono ben accetti. Vicino al campo di gara, si montano le tende pronte a fornire cibo e ospitalità, facilitando la socializzazione tra i presenti.

Foto: © Maurizio Trifilidis – Preparazione del cibo

Le gare principali consistono proprio in una simulazione dell’azione di caccia: in una il cacciatore lascia la sua aquila su una collina, le toglie il cappuccio e poi, raggiunto un punto distante un centinaio o più di metri, la richiama, la invita a raggiungerlo e a posarsi sul suo braccio.

Foro: © Maurizio Trifilidis – iI lancio della preda

In una altra l’aquila deve catturare una preda, generalmente un pellicciotto di volpe trascinato dal cavallo del suo cacciatore, e posarsi su di essa.

Il cacciatore richiama l’aquila lanciandole una preda e urlando l’ordine con suoni gutturali. Velocità, obbedienza e precisione dell’aquila sono gli elementi di giudizio per vincere.

Foto: © Maurizio Trifilidis – La cattura della preda

I pastori mongoli sono tutti eccellenti cavallerizzi e tra le gare più spettacolari, vi è quella della raccolta da terra di piccoli oggetti da parte di cavalieri lanciati al galoppo: velocità e numero degli oggetti raccolti sono gli elementi di vittoria.

Foto: © Maurizio-Trifilidis – Cavaliere

Alla fine della seconda giornata, i cacciatori, sempre a cavallo, tornano a casa; per loro inizia un lungo periodo di solitudine. Anche io devo tornare: ho l’impressione di esser entrato in un altro secolo, per poi uscirne malvolentieri ma certo più ricco di emozioni e suggestioni.

Maurizio Trifilidis

Maurizio Trifilidis – Il ritorno a casa

Siate felici: lo vuole il Re del Bhutan

Andiamo per ordine: il nome corretto di questo piccolo stato himalayano è Bhutan e non Buthan, in poche persone lo conoscono, molti non lo hanno neanche mai sentito nominare, eppure esiste sulle mappe di Google, sugli Atlanti moderni ed è uno dei Paesi al mondo con la miglior qualità della vita…

Il Bhutan è l’unico Paese al mondo ad avere il Ministero della Felicità! Lo ha voluto il Re per i suoi Sudditi e funziona benissimo: la gente sta davvero bene e si vede… Il nome Bhutan è incerto, c’è chi dice derivi dal sanscrito Bhota-ant, ossia “la fine del Bhot” cioè del Tibet, oppure dal sanscrito Bhu-uttan che significa “alte terre” poichè siamo alle pendici dell’Himalaya.

La bandiera è rettangolare ed è divisa in due triangoli con il giallo che rappresenta la monarchia, e l’arancione che rappresenta la religione buddhista; sulla bandiera campeggia un drago simbolo di benessere.

In cammino verso il Tiger’s Nest, il Monastero della Tigre, una delle più ambite mete turistiche in Bhutan.

Il Ministero della Felicità:

Ho chiesto alla mia guida se fosse vera la voce che ci era giunta che in Bhutan esiste il ministero della felicità o fosse solo una fake news che corre tra noi Viaggiatori occidentali alla ricerca di esotiche stranezze. Ebbene si, il Ministero della Felicità esiste ed è un ministero unico che si occupa a livello centralizzato di tre cose ritenute fondamentali per il benessere dei Sudditi del giovane Re: Pubblica Istruzione, Sanità e Lavoro

L’Istruzione viene garantita gratuita ed è obbligatoria per tutti fino alla scuola superiore, poi chi vuole frequentare l’Università deve andare all’estero grazie a progetti finanziati dalla Cooperazione Internazionale. Il Ministero si occupa poi della salute, e anche questa viene ad essere gratuita per tutti. In Bhutan ci sono pochi piccoli ospedali e vanno bene solo per il pronto soccorso e per i reparti di Ostetricia, per tutto il resto il Paese paga le cure all’estero  per i suoi cittadini (mandandoli a curare soprattutto in India). Infine il Ministero della Felicità provvede al Lavoro di tutti: chi non ha come sostentarsi può fare richiesta di un terreno demaniale da coltivare: una concessione gratuita cui hanno diritto coloro i quali non hanno altri modi per sostentarsi.

Risaie nei pressi di Khamsum Yuelley Namgel Chorten, cun tempio che è stato costruito per rimuovere le forze negative e promuovere la pace, la stabilità e l’armonia nel mondo che cambia.

Il sovrano illuminato sostiene che quando i suoi Sudditi hanno istruzione, sanità e lavoro hanno tutto il necessario per essere felici. E in effetti non sbaglia perchè camminando per le vie della Capitale Thimpu si percepisce un clima di serenità sui visi delle persone.

Ma per essere un Re amato e rispettato davvero dal suo Popolo ci vuole coerenza ed empatia con il Popolo. Qui in Bhutan il sovrano gira in città a piedi senza scorta e guida personalmente la sua auto (un normalissimo SUV), e ha l’Autista solo nei momenti Ufficiali come ad esempio le visite di altri Capi di Stato… Il padre dell’attuale sovrano, ha abdicato il Regno a favore del figlio Jigme Khesar Namgyel Wangchuck perchè a soli 53 anni sentiva che un giovane di 18 anni, meglio di lui, avrebbe saputo condurre il Paese.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Senza pagare le tasse: 

Quando viaggio, mi piace guardare i numeri che mi danno la dimensione delle cose,  un’idea, dei riferimenti, per capire cosa accade intorno a me. Un Regno con soli 800.000 abitanti: uno Stato intero che è popoloso come un quartiere di Roma… 

Viene da chiedersi come gestire un territorio che comunque non è piccolo, con così poche risorse…. Ne esce un problema di Finanza anche perchè, qui non si pagano le tasse! Come fa lo stato a finanziarsi? Fortunatamente il Bhutan si trova ai piedi dell’Himalaya e grazie allo scioglimento delle nevi, i suoi fiumi sono sempre in piena e hanno una portata di acqua enorme: le potenti dighe quindi producono energia elettrica che viene venduta alla Cina e all’India e gli incassi che ne derivano sono sufficienti e sostentare la macchina statale senza che le persone siano obbligate a pagare le tasse.

Le tasse le pagano solo le grosse Compagnie straniere e la gente vive con uno stipendio comunque dignitoso che gli permette di vivere ed essere realmente felici.

Nelle case, con la gente. Vengono tostati i cereali.

Tradizione e Religione:

In Bhutan c’è l’obbligo, per tutti i dipendenti pubblici, di vestire con gli abiti tradizionali, e nei giorni di festa l’obbligo è esteso a tutti i Cittadini, e siccome ci sono decine di giorni di festa ogni anno in tutto il Paese, da queste parti è più facile vedere le persone vestite con abiti tradizionali che con abiti moderni! Tutto questo è previsto dal “codice delle buone maniere” che qui chiamano Driglam namzha.

Il vestito tradizionale maschile si chiama Gho, è una sorta di lunga vestaglia e lascia le gambe coperte dai lunghi calzettoni neri, la parte alta, con il bavero abbondante, viene usata come se fosse un grosso tascone, una sorta di marsupio nel quale ciascuno può tenere oggetti, documenti, cibo, attrezzi e tutto ciò che in essa può essere trasportato. La cintura nera che li cinge in vita è la Kera ed è fondamentale proprio perchè fa da “fondo” al tascone. Per le donne c’è invece la Kira, un vestito lungo fino alle caviglie fatto con tessuti colorati e decorato con disegni geometrici tradizionali.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Ma in Bhutan la tradizione non è solo negli abiti, qui viene mantenuta viva anche nelle case che devono avere un particolare tipo di finestra in legno sagomato e colorato secondo lo stile locale. E non è tutto: anche i colori ammessi in qualunque tipo di utilizzo pubblico o privato sono stati previsti in una speciale “mazzetta cromatica” che ne ammette solo alcuni escludendo tutti gli altri.

Il buddismo è la Religione di Stato in Bhutan ma c’è anche una certa apertura verso altre religioni come l’induismo e per le minoranze cristiane che possono professare però il loro credo solo in casa. I suoi festival di origine religiosa si svolgono all’interno degli Dzong che sono i tipici edifici del Bhutan con una curiosa funzione mista di centro militare, e allo stesso tempo anche religioso, tutto all’interno di uno stesso edificio. Gli dzong, vengono costruiti rispettando le regole di stile imposte per legge e naturalmente il lavoro di progettazione viene stabilito in accordo tra le autorità religiose e quelle civili.

Punakha Dzong (Palazzo della Grande Felicità o Palazzo d’Estate)

Ogni dzong ospita un festival religioso annuale chiamato tshechu durante il quale si svolgono le danze con costumi coloratissimi che rappresentano animali reali o mitologici chiamate cham che possono durare per ore ad un ritmo lento e incessante, angosciante e tetro. Fondamentalmente le trame dei cham celebrano la vittoria del bene sul male con la sottomissione del diavolo e la liberazione dagli spiriti maligni.

Durante i cham, tra i danzatori ufficiali che si esibiscono in faticose ed estenuanti coreografie rituali, fanno la loro comparsa assolutamente incontrollata delle figure di disturbo (anch’esse mascherate) che entrano liberamente e improvvisamente nella scena per ridurre la tensione. Hanno una ruolo fondamentale e allo stesso tempo irriverente e dissacrante e portano gli spettatori (e i bambini in particolare) a grosse risate inaspettate e nessuno si mostra disturbato dalla loro presenza che ha esattamente la funzione del clown nel nostro circo durante l’esibizione del domatori di leoni.

Il Paese che non ha semafori:

Un vero Viaggiatore prima di partire sa darsi un obiettivo, ha uno scopo per decidere di fare quel viaggio. Ciò che ci spinge a metterci in viaggio non è mai la meta finale, la destinazione non è un punto di arrivo, ma il concretizzarsi di un “percorso” che a volte dura anni e che nulla ha a che fare con la “strada” necessaria per arrivare. Ciascun Viaggiatore si chiede quindi prima il perchè sceglie una meta piuttosto che un’altra, e ciascuno avrà una risposta diversa da tutti gli altri.

Mi sono chiesto anche io perchè il Bhutan, perchè raggiungere una destinazione tanto insolita, un Paese quasi del tutto sconosciuto al Turismo nel quale arrivano ogni anno solo 20.000 Turisti da tutto il mondo, metà dei quali sono Indiani. Il Visto “all inclusive” che costa circa 250 dollari al giorno comprende anche il pernottamento, i pasti e la guida locale obbligatoria più i trasporti interni con autista privato e le tasse di soggiorno.

Gli Spettatori al Festival di Thimphu

Sono andato in Bhutan perchè mi piacciono i viaggi etnici, e scoprire culture lontane, mi piace il rapporto tra la gente e la religione, documentare la spiritualità delle persone che vivono in Paesi in cui la religione è un valore costituzionale e fa parte della struttura sociale.

Sono andato fino in Bhutan appositamente per fotografare i Festival di Punakha e di Thimphu che si svolgono in ottobre a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Tutto il viaggio è durato 8 giorni di cui quattro li ho passati nei festival vivendo le danze in mezzo alla gente: qui gli spazi sono aperti e la libertà di muoversi è assoluta: ci si può sedere anche accanto al Re, se si trova un posto libero nella Tribuna d’Onore.

Le armi giocattolo sono il gioco preferito da tutti i bambini

Il popolo è accogliente e sorridente: questa gente ti apre le porte di casa per farti entrare e offrirti un tè anche se non ti ha mai visto prima. Molti di loro vivono in campagna coltivando riso sui campi terrazzati a gradoni e sono molto ospitali con i pochi stranieri che si spingono fino in Bhutan a scoprirne la cultura. In Bhutan tutto è a misura d’uomo: basti pensare che in tutto il Paese non esiste un semaforo e che gli incroci principali sono controllati da vigili urbani che dirigono il traffico in guanti bianchi, grazie al Ministero della Felicità qui non esiste la disoccupazione.

In tutto il Bhutan c’è un solo aeroporto, a Paro, incastrato in una valle e il suo atterraggio è così complicato che ci sono solo 6 piloti al mondo abilitati a farlo. Tutti questi mi sono sembrati motivi più che sufficienti per scoprire che il Paese in cui tutti vorremmo vivere per essere felici esiste davvero e si chiama Bhutan.

Ah… Ricordate un’ultima cosa: in tutto il Bhutan è severamente vietato fumare!

Il Tiger’s Nest arroccato sulla montagna. Per arrivarci bisogna salire (è possibile arrivarci solo a piedi) per oltre 900 metri di dislivello

Mississippi, la gente, la musica

Ultima notte in Mississippi, lo Stato americano che amo di più, dove la gente è vera, dove i neri sono più dei bianchi, dove l’accoglienza che ci viene riservata è quella tipica degli africani e non degli americani. Il Mississippi è nel sud degli USA e la gente che ci vive è calda e ospitale come lo sono nel sud di ogni posto del mondo, Italia compresa.

Foto: © Roberto Gabriele

Il Mississippi è uno di quegli stati in cui i neri sono arrivati come schiavi, portati qui dall’Africa e da sfruttare come macchine da lavoro. Da Jackson, sono partiti i primi movimenti di rivolta per l’integrazione e l’uguaglianza, contro la discriminazione. Da qui è partito Martin Luther King, così come le proteste raccontate nel film The Help.

Foto: © Roberto Gabriele

Qui si vive come in Africa, i ritmi sono lenti e c’è poca della tipica organizzazione americana. Nessuno si meraviglia se in un ristorante vuoto si viene serviti in un’ora, se le ordinazioni sono diverse da quelle fatte e se i negozi sono chiusi la domenica del giorno del Festival più importante dell’anno: la domenica e il riposo sono sacri, qui si va a messa e si fanno cori gospel di una straordinaria potenza non per fare botteghino e vendere biglietti ai turisti, ma perchè qui, semplicemente, si prega così.

Le strade sono deserte e i vecchi centri abitati sono  in decadenza da decenni, da quando la meccanizzazione dell’agricoltura e l’integrazione dei neri hanno lasciato la gente senza lavoro. In quel momento al dramma dello sfruttamento si è sostituito quello della disoccupazione. Le città sono abbandonate, la gente si trasferisce in periferia a vivere in prossimità di un supermercato o del distributore di carburanti…

Foto: © Roberto Gabriele

Ma nel DNA di questa gente c’è la musica. Il Blues e il Gospel li hanno inventati loro, il primo durante il lavoro massacrante nelle piantagioni di cotone, il secondo nelle chiese dove la gente aveva l’unico momento a disposizione per dedicarsi ai propri valori e incontrarsi con i propri simili. Musica nera, ovvio. I bianchi possono essere ottimi musicisti, inventare il Rock e il Country, ma il Blues e il Gospel restano per blacks.

E il Blues è stato proprio la parte centrale del nostro Viaggio Fotografico, la più sentita, la più lunga e importante. Lo abbiamo vissuto, non solo ascoltato. Ne abbiamo scoperto le differenti sonorità da quelle più tristi e struggenti a quelle che con le opportune deviazioni ed ispirazioni hanno dato origine al Rock’Roll. Abbiamo scoperto il Blues lento e appassionato con voce e chitarra, e quello fatto di virtuosismi musicali mozzafiato.

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Foto: © Roberto Gabriele

Questo è il Mississippi, e la mia ultima notte l’ho dedicata proprio a fotografare la gente in strada. Di notte come di giorno le strade sono vuote, ma qui la gente si raduna in fetidi locali decadenti e pieni di fascino, coloratissimi e naturalmente frequentati quasi esclusivamente da neri.

Ed è proprio in prossimità di questi locali che sono uscito a fare queste foto. Qui si viene solo per ascoltare musica e qualche volta per bere una birra, ma la consumazione non è obbligatoria, basta non portarsi da bere da casa! In alcuni rari casi di locali particolarmente frequentati (in cui c’è anche qualche bianco) si possono mangiare le strepitose costate di maiale fatte al Barbeque.

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Foto: © Roberto Gabriele

Alcuni la notte sono ubriachi ma mai molesti, la birra scorre a fiumi, la gente è allegra e ti da a parlare, vogliono sapere da dove vieni e soprattutto perchè sei venuto fin qui tre volte dal’Italia, in questo angolo sperduto di mondo e quando glielo dici capiscono che ti sei innamorato di questi luoghi e di questa gente, della loro musica e del loro modo di vivere.

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Foto: © Roberto Gabriele

Qui in questi luoghi che penseresti siano un covo di spacciatori e contrabbandieri non solo non c’è nulla che vada oltre una birra, ma sono i luoghi in cui si esibiscono i migliori bluesman del mondo e lo fanno per i loro amici, per quelli della città vicina, per se stessi e per la loro voglia di fare musica. Il Bluesman deve stupire. Non può suonare solo per il piacere di farlo, deve legarsi a capacità che gli altri bluesman non hanno come ad esempio suonare la chitarra con la lingua, cantare mentre si suona chitarra, grancassa, charleston e alternare la voce all’armonica a bocca, oppure si può stupire con una voce vellutata o per suonare il piano in piedi o esibirsi scalzi sul palco o per suonare una chitarra a forma di gallo!

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Foto: © Roberto Gabriele

Qui tutti sono amici, lo spirito di questi locali è la condivisione, l’ospitalità e il segnare pagine di storia della musica.

La fotografia mi ha permesso di sentire tutto questo addosso, dentro di me, di avvicinarmi a queste persone scorendone gli sguardi, i sorrisi, trovarle amiche senza conoscerle, di chiacchierare con uno sconosciuto e promettersi di vederci il prossimo anno. Con la fotografia si ha sempre un canale privilegiato di contatto, è un potentissimo mezzo di socializzazione. Prometto sempre di inviare le mie immagini, e le promesse vanno mantenute, in questo modo ho amici in tutto il mondo. Amici con i quali mi sono scambiato un sorriso, 4 chiacchiere e una birra in cambio di un CD con la loro musica….

Testi e foto: Roberto Gabriele

Riproduzione riservata

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Foto: © Roberto Gabriele

Holi Festival dei Colori in India

Quando si pensa all’India, immediatamente si pensa al COLORE in tutte le sue forme: gli sgargianti Sari che le donne di ogni casta e ceto sociale indossano sempre con grande grazia ed eleganza, i TEMPLI induisti tempestati di migliaia di decorazioni e divinità colorate, le SPEZIE, che caratterizzano tutti i piatti tradizionali e che sono le protagoniste degli affollatissimi mercati con tutte le gradazioni del rosso e del giallo… insomma l’India senza colori non sarebbe l’India!!!

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©Simona Ottolenghi

Ma c’è un periodo dell’anno, che corrisponde all’inizio della primavera, in cui l’esplosione di colori assume la sua massima potenza: si tratta di HOLI, il festival dei colori più famoso del Mondo, durante il quale migliaia, se non milioni di persone, scendono in strada imbrattando con polveri colorate chiunque capiti a tiro.

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©Simona Ottolenghi

E’ una delle feste più antiche della mitologia Indù, e viene celebrata il giorno successivo alla prima notte di luna piena nel mese di Phalgun, che segna anche l’inizio della primavera.

Holi significa ‘bruciare’ e trae origine dalla leggenda di Holika: durante la sera della luna piena, si accendano infatti falò per allontanare gli spiriti e celebrare la Vittoria del Bene sul Male.

Il rito ricorda anche la miracolosa fuga del giovane Prahalad, devoto di Vishnu, dalla demone Holika che voleva darlo alle fiamme: Prahalad grazie alla sua fede in Vishnu scampò illeso mentre Holika morì arsa.

Il giorno successivo all’accensione dei falò la gente si ammassa per il lancio di acqua e polveri colorate per le vie delle città e nei villaggi.

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©Simona Ottolenghi

La Leggenda di Radha-Krishna ricorda proprio il lancio di colori: il giovane Khrisna, geloso dell’amata Rada per la bellezza della sua pelle, le dipinse tutta la faccia.

Così, i Templi durante Holi sono decorati con i colori e un idolo di Radha sull’altare.

Nel nostro Viaggio Fotografico abbiamo partecipato con grande entusiasmo, divertimento e qualche piacevole sorpresa ai festeggiamenti di questa fantastica festa dalle lontane origini religiose.

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©Simona Ottolenghi

Il nostro Holi è iniziato in un piccolissimo Tempio della bellissima Bundi, nel cuore del Rajastan dove siamo stati invitati a partecipare ad una loro cerimonia. Siamo stati accolti con grande calore  e subito coinvolti a stare in mezzo alla folla ed a ballare con loro. Non c’era differenza tra loro e noi, eravamo lì, ballavamo e scattavamo foto, quando improvvisamente, senza accorgercene, eravamo completamente colorati! Mancava ancora qualche giorno ad Holi, quindi non eravamo assolutamente preparati a ciò che ci avrebbe attesi. Avevano infatti iniziato a lanciare prima fiori e poi polveri di tutti i colori trasformando il Tempio in un fantastico e gioioso arcobaleno!

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©Simona Ottolenghi

Per fortuna siamo riusciti a salvare in qualche modo le fotocamere che non avevamo avuto modo di proteggere con le migliaia di buste che avevamo portato proprio per l’occasione.

Tra i partecipanti alla festa c’era anche un fotografo indiano che ci ha scattato qualche foto con la promessa di inviarcele via mail… certo non ci aspettavamo che quelle foto erano destinate ad una delle più famose testate del Rajastan!!!!

Dopo questo primo assaggio di Holi a Bundi, siamo andati a Jaipur dove abbiamo partecipato ai falò sulle strade della città e ci siamo immersi il giorno dopo nei veri festeggiamenti trasformandoci in divertite macchiette colorate! In giro per la città sui risciò ci fermavamo non appena individuavamo situazioni interessanti anche dal punto di vista fotografico… ma non facevamo a tempo a scendere che le nostre facce ed i nostri vestiti venivano ricoperti di ulteriori strati di colori fino a renderci assolutamente irriconoscibili!

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©Simona Ottolenghi

E’ stata una bellissima esperienza che ripeteremo sicuramente il prossimo anno e che spero possa essere di augurio per un anno pieno di gioia e colori per tutti!

Articolo giornale
Pubblicazione su giornale locale

Holi Festival 2015

Foto: © Simona Ottolenghi
Foto: © Simona Ottolenghi

 

Sunflower Blues – Mississsippi

Mississippi:

Ogni anno, ad agosto la piccola cittadina di Clarksdale in Mississippi diventa la Capitale del Blues diventando la sede del più grande festival del mondo dedicato a questo genere musicale quando dai 17.000 Abitanti la cittadina esplode a oltre 100.000 durante il Sunflower Blues Festival

Ci troviamo nel sud degli Stati Uniti d’America, in quelle zone dove tra il XVI e il XIX secolo vennero portati gli schiavi dall’Africa per coltivare il cotone negli immensi campi dei bianchi che abbiamo visto in film come Via col vento…. La cosa bella è che da quelle parti vivono ancora oggi quasi esclusivamente i discendenti di quegli stessi schiavi. Gli americani che sono lì sono tutti neri e hanno i tipici caratteri somatici africani, da questa gente e dalle loro storie è nato il blues, la più “malinconica” musica americana.

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Josh “Razorblade”Stewart fotografato al Ground Zero da Roberto Gabriele

Partecipare al Sunflower diventa quindi un modo non solo per ascoltare i migliori musicisti del mondo di questo genere che è nato qui da loro e dai loro padri, ma è anche un modo per conoscerli dal vivo. I Bluesman non sono certo persone schive, nè divi del Rock che devono tenere a distanza i loro fans. Venendo al Festival Vi capiterà, di sedervi accanto a loro la mattina dopo al bancone di un saloon e di mettervi a chiacchierare con loro e magari di ricevere un Cd in omaggio in cambio del tuo indirizzo email. Ed è proprio quello che è successo a noi con Josh “Razorblade” Stewart del quale puoi ascoltare le note che abbiamo registrato dal vivo durante il suo concerto…. Clicca sul player qui sotto e inizia a sognare…

 

Arrivare a Clarksdale

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Foto: © Roberto Gabriele

Già all’entrata in città ti capiterà di accorgeryi che sei proprio all’incrocio della musica: dove si incontrano la Route 49 e 61 lì nasce il blues e lo si capisce da subito, non potrebbe che essere così. Tutto da queste parti è fatto per favorire l’industria e l’indotto della musica. Dai negozi ai locali in cui ascoltare musica dal vivo, dai servizi agli hotel in perfetto stile Mississippi. Ma qui la musica non è solo business, è un vero e proprio stile di vita, un modo di essere che si tramanda da generazioni.

Qui siamo nel sud degli Stati Uniti e come diceva Renzo Arbore (Bluesman anche lui) “Siamo sempre Meridionali di qualcuno”, qui nel Mississippi ti sembrerà di stare nel nostro meridione per la cortese ospitalità della gente di queste parti, per l’ottima cucina ben condita e per la tipica tradizione contadina che qui viene conservata dai pronipoti di quegli schiavi neri portati qui dall’Africa Orientale nelle Piantagioni di cotone, i bianchi sono ancora pochissimi e quando sarai qui ti accorgerai che la gente ti sorride quando ti incontra per strada.

Qui in città naturalmente c’è anche il Delta Blues Museum che ha una parte importantissima nel Festival in quanto partner e promotore culturale del Festival e di tutte le sue attività formative e concerti. Una visita qui servirà sicuramente a capire meglio cosa si sta per vivere durante i concerti live che durano 3 giorni. A proposito di musei, a poca distanza da Clarksdale, a Indianola c’è il Museo di BB King che forse in assoluto è il nome più famoso che ricordi questo genere musicale.

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Parrucchiere anni ’50 Foto © Roberto Gabriele

Ma a Clarksdale tutto è “Black Style”, anche, naturalmente, il parrucchiere del villaggio in cui il tempo pare si sia fermato agli anni ’50 con i suoi caschi per capelli da signora, con la sua clientela rigorosamente nera di carnagione e con le acconciature che qui si usa fare, molto più simili alla tradizione africana che non alla modernità americana. Qui per molti versi ti sembrerà di essere in Africa: per la gente, per la trascuratezza dei luoghi, per lo stile di vita… L’unica cosa che ti ricorderà l’america sarà la musica che sentirai già appartenere alla tua cultura, al tuo modo di essere, il Blues ti scorre nelle vene, mentre sei li scopri la tua vera Black Soul, una vera anima nera che forse non sapevi ti appartenesse, eppure scopri di averla dentro da sempre. Questa musica ti entra dentro al cuore e non ti abbandona. Mai. Nemmeno dopo che sarai tornato a casa.

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Staff al Ground Zero. Foto: © Simona Ottolenghi

Ground Zero

E’ il più mitico e inconfondibile locale che esiste in città, acquistato da Morgan Freeman si dice per per salvarlo dalla sua fine e ora è un pezzo vivente e cuore pulsante della Storia della musica e del Blues. Se riuscirai a sederti sui suoi lerci e schifosi divani damascati e in pelle che sono sulla terrazzetta esterna potrai godere del miglior posto possibile per capire a fondo lo stile spartano ed essenziale del Blues e di questo locale in particolare.

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i divani fradici fuori al Ground Zero. Foto © Simona Ottolenghi

Al Ground Zero puoi passarci la vita senza invecchiare. Al Ground zero il tempo viene scandito non dall’orologio ma dal ritmo della batteria, dal tempo del basso elettrico e dalle melodie della chitarra acustica dei musicisti che iniziano a suonare musica live alle 10,00 del mattino mentre gli ospiti seduti mangiano i famosissimi Pomodori Verdi Fritti cucinati secondo la più classica delle ricettte e annaffiati da fiumi di birra che vengono consumati non solo ai tavoli ma anche in piedi, fuori dal locale dove le note arrivano e si sentono a decine di metri di distanza…

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Live in Ground Zero – Foto: © Simona Ottolenghi

I Musicisti qui vengono per divertirsi, per suonare ma fondamentalmente ti accorgi che lo fanno per incontrare e allietare i loro amici che vanno a trovarli, sono i migliori del mondo e raccolgono le offerte con il piattino e mentre cantano li senti ringraziare per ogni singola mancia che qualcuno gli lascia durante il concerto. Qui la musica si sente ad alto volume ma si riesce sempre a parlare ed è impossibile non battere il tempo con la testa e con tutto te stesso mentre sei lì sorseggiando l’ennesima birra…

Lo stile del locale è il più scarno e autentico che possa esserci: pareti fatte con assi di legno inchiodate e su di esse trovi attaccata e scritta la testimonianza di chi è stato qui prima di te: locandine, fotografie, giornali, stumenti musicali e copertine di dischi sono attaccati a tratti sui muri, affinchè nulla prevalga sul resto qui vince la regola che chi scrive dopo domina su tutti gli altri. Persino le pareti dei bagni sono completamente ricoperte dalle firme praticamente di tutti i clienti che sono transitati di là e che lasciano alla storia il segno del loro passaggio…

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L’interno del Ground Zero. Foto: © Simona Ottolenghi

 

Il Sunflower river Blues Festival

A Clarksdale durante il Delta Blues Music Festival in Mississippi la musica va avanti per tre giorni e ogni luogo è buono per suonare: la mattina i concerti ufficiali si tengono nella scuola della piccola cittadina, nella palestra in cui ti immagini le ragazzine che durante il resto dell’anno si allenano lì a fare le Majorette. Qui al mattino suonano gli stessi grandi musicisti che suonano la sera in piazza, è solo un fatto di compatibilità di orari e non di qualità della musica.

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concerto serale. Foto © Simona Ottolenghi

Il grande palco ad ingresso libero è montato in un piazzale e lì si suona durante tutto il pomeriggio e la serata. La folla arriva con i caravan e si accampano dove capita per ascoltare ogni nota che esce dagli strumenti e dalle voci di questa gente fatta per fare musica.

I concerti sono tutti rigorosamente gratuiti e si susseguono l’uno dopo l’altro in un clima caldo e davvero friendly, per dirla a modo loro. due giorni qui volano, le cose da vedere, la musica da ascoltare, gli ambienti da fotografare sono così tanti che di certo non ci si annoia.

Su quel palco hanno suonato tutti i più grandi Bluesman della storia da BB King a Eddie Cusic, Denise LaSalle, Lisa Knowles & the Brown Singers…  Impossibile perdersi questi concerti destinati tutti ad entrare nel mito di questo luogo incantato.

Quando sei nel prato di Clarksdale al Sunflover Blues Festival senti un senso di appartenenza a qualcosa che non sapevi facesse parte così intensamente di te, senti che sei lì con altre migliaia di persone a costruire un pezzo di Storia della Musica.

 

 

 

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