Foto e parole di Francesco Carmignoto
Questa storia ha partecipato a Travel Tales Award 2022. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Varanasi, o Benares, è una delle sette città sacre dell’India . Situata lungo il fiume Gange nello Stato indiano dell’Uttar Pradesh, è una delle città più antiche del mondo. Questo rappresenta un importante centro spirituale e culturale in India.
I famosi ghat lungo il fiume, sono luoghi di spiritualità e purificazione dove i fedeli si immergono nelle acque sacre ( e sporchissime ) del Gange , e dove sul Manikarnika Ghat, si cremano i cadaveri, in un incessante serie di roghi a cielo aperto , giorno e notte, 365 giorni l’anno.
La città vecchia, con i suoi vicoli stretti, i vari mercati ed i piccoli, se non microscopici negozietti, creano un’atmosfera ed una esperienza unica per il viaggiatore.
La città attrae fedeli induisti che cercano di ottenere la moksha, la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni ( samsara). Qui si incontrano i personaggi piu’ strani , veri o fasulli , sani di mente o distrutti dalle droghe, indiani o da ogni angolo del mondo. La vita lungo il fiume Gange è un riflesso vivente della spiritualità e della tradizione indiana. Cerimonie e rituali, detti Ganga Aarti, che si svolgono all’alba e al tramonto.
In sintesi, Varanasi incarna l’anima spirituale dell’India, con le sue antiche tradizioni, la gente devota e l’atmosfera mistica che la rendono un luogo unico al mondo.
Questo racconto di Segio Volani ha partecipato al Travel Tales Award 2024
“Calma
Tempesta
Prima e dopo
Calma
Tempo per pensare
Tempo per non pensare
Tempo sospeso
Foresta immersa nella neve
Lampada frontale
Due… quattro… sei luci… occhi!
Mi fissano dall’oscurità
Caprioli?
Cervi?
Lupi?
Tempo per contemplare.”
Questo racconto di Alessandro Servalli ha partecipato al Travel Tales Award 2024
“Grazie mille, grazie mille”. Sono le uniche parole che sa dire in italiano. Le ha imparate venendo in Italia, dove va un paio di volte all’anno a chiedere l’elemosina, quando la famiglia ha bisogno di soldi. È una famiglia rom, composta dai soliti elementi che percorrono varie generazioni, dal patriarca al ragazzino di 15 anni, il più giovane. Ci ricevono nel porticato di casa loro, ma sono ben contenti di farci vedere il salotto, arredato e decorato, dove nessuno mette mai piede. Si vive e si dorme tutti in una stanza e il grande salotto, con la tappezzeria verde e i tendaggi color porpora, viene usato per mostrarlo agli amici.
Fanno i calderai, gli uomini. Che poi è la professione ufficiale dei Rom di Transilvania. Cioè lavorano di martello piccole pentole, bricchi per il latte, ciotoline di rame. Li dispongono lungo la strada e li vendono, o cercano di venderli, agli automobilisti di passaggio. Non so con quanta fortuna perché anche in Romania, così come in Italia, i Rom non sono visti di buon occhio.
Nel corso del pomeriggio che passiamo insieme, oltre al “grazie mille” che la signora mi ripete in continuazione anche quando non c’è nulla di cui ringraziarmi, mi spiegano che il figlio del patriarca, un uomo all’apparenza molto anziano e con una lunga barba bianca, è morto da poco. Era il periodo del Covid e le regole non prevedevano che il corpo lasciasse l’ospedale.
Ma è mai possibile che in una famiglia Rom che si rispetti non venga organizzata una veglia funebre con amici e parenti, tantissimi? È bastato pagare un po’ qui e un po’ là – infermieri, dottori – ed è stato permesso portare il corpo a casa, come vuole la tradizione. Certo, tutto questo ha avuto un costo: 10.000 euro, spiega l’uomo di casa (si capisce subito chi è dal piglio sicuro, dal fatto che comanda a bacchetta tutti gli altri). Quello che non è chiaro è come si racimolino 10.000 euro vendendo pentolini di rame. Ma quella è un’altra storia.
Come è un’altra storia quella del fidanzamento del ragazzino, promesso sposo a 15 anni e lasciato dalla fidanzata. Non ha l’aria di essere abbattuto. Forse sa che un fidanzamento rotto vuol dire risarcimento in denaro, un ricco risarcimento per la famiglia.
Questo racconto di Daniela De Rosa ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Il popolo XINGU è un gruppo di 16 tribù amerinde che parlano quattro diversi gruppi linguistici, che vivono nella parte superiore del Rio Xingu, un affluente del Rio delle Amazzoni, nello stato federale del Mato Grosso.
Tuttavia, la sopravvivenza degli Xingus è continuamente minacciata dalla deforestazione e dall’impatto sul fiume Xingu, considerato da diverse tribù indigene la loro casa e quella di specie uniche. Vivono in armonia con la terra lungo il fiume, facendo il bagno nelle lagune e guadagnandosi da vivere con la pesca.
Gli Xingus che vivono in questa regione hanno costumi e sistemi sociali completamente simili, nonostante abbiano lingue diverse. Feste e cerimonie comuni li uniscono, come il Kuarup e il tradizionale evento di wrestling, huka-huka.
Il Kuarup è la più grande cerimonia intercomunitaria degli Xinguaniani. Si tiene nell’arco di un giorno e mezzo, celebra i funerali secondari e riunisce i morti della regione e i vivi quando entrano nell’età adulta. Le ragazze pubescenti vengono presentate ai villaggi. Dopo la prima mestruazione, le ragazze trascorrono un anno confinate nella loro OKA, la casa della comunità, ricevendo lezioni sul comportamento e le azioni femminili.
Dopo quest’anno, durante il Kuarup, accompagnati da suonatori di flauto e vestiti con collane di perle di roccia, una fascia di lana e altro ancora alle punte dei capelli, vengono presentati a tutto il villaggio.
Al termine della cerimonia, il rito finale di passaggio all’età adulta, la madre taglierà la frangia di capelli che è rimasta intatta per tutto questo tempo. Questa cerimonia non significa che queste giovani ragazze siano destinate a sposarsi immediatamente. Celebra la vita che queste giovani donne sono ora pronte a dare e celebra il cerchio della vita associato alla cerimonia funebre di Kuarup.
L’huka-huka è un’arte marziale tradizionale praticata dagli Xingus. Le piume, la carcassa del cassique dal culo giallo e la pelle di giaguaro sono segni di distinzione che i migliori lottatori possono indossare alla cintura.
Il wrestling richiede anni di preparazione fisica e meditazione per gli uomini a partire dai quattordici anni. I lottatori sono dipinti di rosso e nero in omaggio al giaguaro. Poco prima del combattimento, i protagonisti vengono ricoperti di olio di pequi.
Reportage fotografico che racconta la storia della nostra immersione con una delle tribù, i Mehinako.
Questo racconto di Anne Francoise Tasnier ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Il Gujarat, uno stato situato nella parte nord occidentale dell’India, al confine con il Pakistan, è una terra ricca di storia, cultura, ed una importante realtà industriale. Il mio tour nel Gujarat si è rivolto principalmente verso le realtà tribali che popolano la zona.
Rabari, Gamit, Warli, Kunbi, Bhil, Konka, Rathwa, Dhanka, Kathodi, Garasias, Jath, Bajana…. e altre, sono solo alcune delle tribù che popolano questo vasto territorio, affacciato da un lato sull’oceano indiano, dall’altro incorpora uno dei piu’ grandi deserti di sale al mondo , il Rann of Kutch , che arriva sino al confine con il Pakistan .
La popolazione incontrata è generalmente accogliente e calorosa. Superato il primo impatto di diffidenza, tutti si avvicinano per farsi fotografare o per chiedere di fare un selfie con noi.
Solo nella parte mussulmana del Kutch, dove vivono le tribù Jath, è alquanto complicato poter fotografare le donne che portano pesanti anelli al naso . Solo con il consenso ( pagamento ) del capo tribù si riesce a scattare qualche foto.
La cosa che colpisce è la povertà delle persone che vivono in queste tribù sparse per il territorio. Pur vivendo in uno stato industrializzato, quando si esce dalle città principali come Surat, Ahmedabad e Vadodara, si nota subito la totale mancanza di acqua potabile, elettricità e servizi igienici. Ma, … c’e’ sempre un ma nelle storie, tutti o quasi hanno il cellulare….
Questo racconto di Sergio Volani ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Dal 2018 al 2024 ho visitato varie volte questo il quartiere di Kumortuli, molto caratteristico e peculiare, che in ogni momento affascina ed emoziona. La mia breve serie racconta alcuni aspetti di questa zona e le atmosfere che si respirano attraversandola.
Kumortuli, (“Kumor” significa “vasaio” e “Tuli” significa “località” in lingua bengalese) si trova nella parte nord di Calcutta, vicino alle rive del fiume sacro Hooghly ed è la zona dove si producono la maggioranza degli idoli di argilla per le varie feste religiose, esportati anche in tutto il mondo.
Il luogo acquisì storicamente importanza durante il dominio britannico (Compagnia britannica delle Indie Orientali) che assegnava distretti separati alla forza lavoro. Ciò diede origine a varie zone: dei falegnami, dei venditori di vino, dei fornitori di olio, dei pastori e Coomortuli (ora Kumortuli) per i vasai.
Essendo il luogo assegnato a Kumartuli vicino al fiume Hooghly, era facile per i vasai ottenere argilla di buona qualità per il loro lavoro. Essi producevano solitamente vasi, urne e oggetti simili necessari per la vita di tutti i giorni. Realizzavano anche idoli di Dei e Dee per le puja, le feste religiose induiste. Proprio per le loro abilità e l’importanza delle feste religiose per gli induisti, gli artigiani di Kumartuli sono diventati artisti scultori delle varie divinità, non più semplici vasai.
Il quartiere è formato da un dedalo di vicoli, quasi un labirinto, costellati dalle botteghe degli artigiani. Kumartuli è ora la residenza permanente di generazioni di artigiani, circa un migliaio, che si tramandano la loro esperienza. I laboratori improvvisati si sono trasformati in studi permanenti di molti artisti rinomati.
La più importante festa bengalese, la Durga Puja, che si svolge in genere in settembre/ottobre, è la più grande manifestazione artistica di questi lavoratori. Il lavoro comincia a Kumartuli molto prima che inizino effettivamente i sacri rituali della Durga Puja.
Giorno dopo giorno gli artigiani lavorano incessantemente, scolpendo gli idoli con fieno e argilla, lasciandoli asciugare e poi dipingendoli magnificamente con sgargianti colori, in base al tema specifico richiesto.
La loro maestria è notevole ed ogni idolo ha qualcosa di unico e si distingue dagli altri per il modo in cui sono colorati o vestiti o per la forma che assumono. Molti degli artigiani che lavorano all’interno della comunità hanno sviluppato un loro stile individuale e tutti seguono anche alcuni rituali religiosi, come ad esempio dipingere gli occhi della dea Durga (rituale chiamato “Chakkhu daan” o donazione degli occhi), solo all’alba di un determinato giorno del culto. Anche gli oggetti utilizzati nella decorazione degli idoli sono diventati un commercio importante.Il percorso di lavoro termina con i committenti che, in genere di sera o notte, portano via l’idolo prima della puja (la festa).La stessa sequenza di lavoro avviene per tutte le principali feste induiste dopo la Durga Puja. Pertanto, in ogni stagione dell’anno si possono osservare le attività di questi instancabili artisti, apprezzati da tutti i bengalesi e non solo.
Questo racconto di Ignazio Sfragara ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Donne in STEM (L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche e i relativi corsi di studio).
Si deve aver bisogno di aria e acqua per sopravvivere, crescere e vivere su questo pianeta. Se consideriamo l’aria come educazione e l’acqua come l’uguaglianza della nostra società, abbiamo bisogno che entrambe funzionino contemporaneamente e senza intoppi per sopravvivere, crescere e respirare la nostra società.
Ma, in realtà, la situazione è esattamente avversa, mentre il sistema patriarcale domina interamente in termini di istruzione femminile e uguaglianza di genere.
L’uguaglianza o la non discriminazione è quello stato in cui ogni individuo della società anela alla parità di status, opportunità e diritti. Tuttavia, è un’osservazione generale che esiste molta discriminazione tra gli esseri umani.
La discriminazione esiste principalmente a causa del genere. La disuguaglianza basata sul genere è una preoccupazione diffusa in tutto il mondo. Anche nel 21° secolo, in tutto il mondo uomini e donne non godono di uguali privilegi, nemmeno dell’istruzione.
L’istruzione delle donne è fondamentale per il progresso della società. Dà potere alle donne, migliora le loro opportunità economiche e promuove l’uguaglianza di genere. Le donne istruite contribuiscono alla forza lavoro, guidano l’innovazione e prendono decisioni informate sulla loro vita, salute e famiglia.
L’istruzione fornisce loro le competenze necessarie per liberarsi dai vincoli tradizionali e partecipare attivamente alla società. L’istruzione favorisce anche la partecipazione delle donne alla sfera sociale e politica. Le donne istruite hanno maggiori probabilità di impegnarsi in attività civiche, difendere i propri diritti e partecipare a ruoli di leadership. Questo, a sua volta, porta a una governance più inclusiva ed equa.
Inoltre, l’istruzione delle donne abbatte gli stereotipi e mette in discussione i ruoli di genere tradizionali, promuovendo una società più egualitaria. Ispira le giovani generazioni di ragazze ad aspirare all’istruzione superiore e alla carriera, creando un ciclo positivo di progresso.
E’ giunto il momento per noi, non di alimentare la nostra cosiddetta visione periferica, ma di sviluppare una visione maculare verso l’educazione delle donne e l’uguaglianza di genere, in modo che la nostra società possa modellarsi in modo colorato e nitido per vivere, respirare e crescere.
Questo racconto di Soumayan Biswas ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Una volta l’anno a New York, più precisamente a Coney Island, si può far finta di essere una Sirena…con tanto di coda e squame!
Questa metamorfosi avviene in occasione della Marmaid Parade, la parata che si tiene ogni anno a fine Giugno in occasione dell’inizio dell’estate.
E’ un evento tipicamente newyorkese che richiama moltissima gente che non vede l’ora di spogliarsi dei propri abiti quotidiani per indossare quelli di qualche figura mitologica, di qualche cartone animato oppure di qualche creatura del mare.
Questa miscellanea di soggetti fa si che lungo la strada ci si può imbattere in Nettuno che parla con il pesciolino Nemo oppure con una Sirena che balla con un Tritone, o ancora puoi ritrovarti anche tu a parlare amabilmente con un granchio gigante; infatti sono tutti molto contenti e disponibili a condividere le proprie sensazioni e ovviamente anche a farsi fotografare.
La parata è una festa per tutti, non solo per chi partecipa con i carri organizzati ma per tutti coloro che per qualche ora hanno voglia di immergersi in un’atmosfera spensierata e irriverente.
E’ possibile partecipare ballando sulle note dei più grandi successi americani, passeggiando tranquillamente con il classico hot dog di Nathan fino ad arrivare al mare e naturalmente fotografando un’esplosione di colori e di gioia assolutamente inusuale.
La sensazione è quella di trovarsi dentro un set cinematografico ma in realtà nessuno recita, ognuno ha la possibilità di far uscire la parte più folle di sé e solo per questo è uno spettacolo imperdibile.
Alla fine della giornata Sirene, Tritoni, e altre strane creature prenderanno la nostra stessa metro per tornare nelle loro case e si vivrà per qualche fermata un’altra atmosfera fiabesca, quella di vedere meduse, stelle marine, marinai e pirati che aspettano in piedi di scendere alla loro fermata per tornare nel mondo reale.
Laura Pierangeli
Questa storia di immagini prende vita durante le mie molteplici visite alla città desertica di Pushkar nello stato indiano del Rajasthan durante la famosa fiera dei cammelli.
Anche se Pushkar è famosa per la fiera dei cammelli, è lo stile di vita semplice e nomade di quei pastori che vengono alla fiera dei cammelli che mi interessa di più.
La mia storia consiste in ritratti di persone di Pushkar in diversi stati d’animo, nei loro colorati abiti tradizionali e religiosi – donne che cantano e ballano allegramente per strada in uno stato d’animo festoso, pastori che si godono la chiacchierata davanti al caminetto per riscaldarsi in una fredda mattinata.
Ed ancora: un pastore che porta la sua mandria di cammelli al terreno della fiera, donne nomadi e uomini che preparano cibo per la loro famiglia e amici, l’uomo che suona il flauto su una duna di sabbia nel tempo libero, la madre premurosa che protegge il suo bambino denutrito dal freddo inverno, il pastore che decora il suo cammello, somministra medicine al suo cammello, i valorosi uomini del deserto che appaiono al meglio alla fiera con il loro turbante colorato e il bene più prezioso dei baffi.
Questo racconto di Paul Kuntal ha partecipato al Travel Tales Award 2024
In una radura, nel cuore della foresta equatoriale africana del Camerun, vive uno degli ultimi gruppi dei Pigmei Baka: uno dei popoli più antichi dell’Africa.
La loro organizzazione è incentrata sulla famiglia o su comunità di poche famiglie in cui le decisioni importanti vengono prese da tutta la collettività, eliminando la necessità di un vero e proprio leader, anche se la figura più anziana costituisce sempre il punto di riferimento.
In perfetto equilibrio con l’ambiente che li circonda e le sue risorse, i Baka sono sopravvissuti per millenni cacciando con frecce e trappole e raccogliendo frutti e piante medicinali che la foresta offriva loro, nel pieno rispetto di essa e salvaguardandone la biodiversità.
Costantemente in movimento, alla ricerca di cibo fresco, si sono sempre spostati all’interno della foresta costruendo ripari provvisori fatti di un intreccio di rami e foglie. Qui praticano una vita semplice: un vestiario ridotto, scarso vasellame per cucinare e strumenti primordiali per la caccia.
Anche l’organizzazione del lavoro è ben scandita: le donne si occupano di andare a pescare o a prendere l’acqua in un torrente o le legna nella foresta, oltre ad occuparsi dell’accudimento della cucina e dell’accudimento dei figli.
Gli uomini provvedono a mettere le trappole nella foresta, a raccogliere il miele, mentre per cacciare gli animali di grossa taglia si allontanano dal proprio villaggio spostandosi all’interno della foresta per giorni interi.
Anche le serate con loro sono magiche. Amanti della musica trascorrono le loro serate tra suoni, danze e canti: è una vera emozione ascoltarli ed osservarli.
Il canto, la musica e la danza, appartengono alla loro storia ed accompagnano ogni giorno il semplice trascorrere della vita e degli eventi. Dai riti di iniziazione alle preghiere fatti agli spiriti della foresta, dai matrimoni ai funerali.
Il loro rapporto con la foresta è di immensa gratitudine. E’ considerata sacra dai Baka e per questo costituisce anche il luogo di sepoltura dei propri defunti.
Da alcuni decenni, a causa dello sfruttamento industriale delle foreste, dell’espansione delle piantagioni di palme da olio, e dell’assegnazione delle terre destinate a riserve naturali, la sopravvivenza dei Baka e delle loro tradizioni è in grande pericolo.
La foresta è sempre stata parte integrante dell’identità Baka e ha sempre soddisfatto tutti i loro bisogni. I pigmei, allontanati forzosamente dal loro ambiente naturale, di cui sono profondi conoscitori, e privati delle risorse indispensabili alla loro vita, quali la caccia e la raccolta dei prodotti della terra, la maggior parte di loro sono ridotti a mendicare o diventare manovalanza della classe dominante.
Non hanno carte d’identità, per questo sono esclusi quasi totalmente dalle cure sanitarie e dall’educazione, né il governo si preoccupa di tutelare i loro diritti. Isolati e discriminati, sono tuttora vittime di intimidazioni e violenze e costretti ad adattarsi ad un moderno stile di vita a loro totalmente estraneo.
Sono uno dei gruppi etnici più emarginati dell’Africa a rischio di estinzione. Quello che si sta consumando da decenni nei loro confronti è un vero e proprio genocidio silenzioso.
Questo racconto di Luciana Trappolino ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Dove si trova la più alta concentrazione di edifici rivestiti di marmo bianco? Quasi sicuramente penserete a Dubai, ma sappiate che la risposta è sbagliata!
Molto probabilmente penserete allora al nostro belpaese…ma dovete sapere che anche in questo caso la vostra risposta sarà sbagliata.
Proviamo con un’altra domanda: dove si trova la più alta concentrazione di fontane in uno spazio pubblico?Anche qui la maggior parte delle risposte saranno sbagliate e difficilmente indovinerete
Aiutino: stiamo parlando della nazione dove si trova il cratere di metano più grande al mondo!
Eureka! Forse in questo caso state avete intuito di quale nazione stiamo parlando: il Turkmenistan una situato nell’Asia Centrale nata dopo il 1991 in seguito al crollo dell’Unione Sovietica
Spesso al centro di dibattiti per la tematica del rispetto dei diritti umani, fa trapelare ben poco all’estero della propria politica e durante gli anni della pandemia ha dichiarato di non aver avuto nemmeno un caso di Covid, non permettendo però a nessuno dell’OMS di verificare tale notizia.
In questo frangente si inserisce un nome, che ai più risulterà sicuramente sconosciuto: Gurbanguly Berdimuhamedow, presidente dal 2006 al 2022 con più del 97% dei voti ad ogni consultazione, autore di decine e decine di libri su temi diversi che vanno dai cavalli ai tappeti, dalla storia al thè e nominatosi Arkadag che in lingua turkmena vuol dire protettore.
La capitale Ashgabat, seppur appaia quasi disabitata, sembra abbia circa un milione di residenti e fra palazzi moderni e monumenti futuristici le immagini del presidente campeggiano un po’ ovunque, dalle strade, agli edifici pubblici, dalle autovetture, alle sale da matrimonio.
Questo racconto di Cristiano Zingale ha partecipato al Travel Tales Award 2024
La Mongolia va esplorata fuori dai confini della capitale, Ulan Bator. È lì fuori che esiste un microcosmo di paesaggi e climi diversi di cui l’occhio e il cuore non si stancano mai. È lì fuori che bisogna fare caso ai suoi abitanti, i loro sguardi e la loro gentilezza. Il loro essere nomadi e strettamente legato alla natura e alle stagioni. Uno stile di vita che li rende distaccati dal consumismo e li tiene lontani da questo mondo caotico.
Il viaggio ci ha portato a scoprire due aree estreme della Mongolia, la parte occidentale con le terre dell’imponente Altai Nuruu, la più alta catena montuosa della Mongolia, e la parte dell’estremo nord coperta dal verde della Taiga.
Le distanze da percorrere sono lunghe ma il paesaggio in continuo cambiamento riduce i tempi di percorrenza. Tra spostamenti a cavallo e mezzi a motore il viaggio è un continuo di emozioni e avventura e ci porta persino a raggiungere il ghiacciaio Tavan Bogd, ai confini con Russia e Cina, dove montiamo il campo base e ci prepariamo alla conquistiamo la vetta del Malchin Peak (4050 m).
Successivamente siamo entrati nella taiga dove siamo stati ospiti di una famiglia Tsaatan. Abbiamo condiviso con loro attimi, lavori, giochi, sorrisi e cibo.
In questo angolo di paradiso è come essere tornato indietro nel tempo e se ti immergi senza freni nella vita di queste famiglie, capisci che è la natura a dettare i tempi e puoi percepire l’essenza, la semplicità e le vere necessità della vita.
Il viaggio si conclude con rientro ad Ulan Bator, con lo zaino pieno di emozioni e ricordi e con gli occhio lucidi ma più vivi.
Vorrei concludere questa narrazione con una frase del libro “Il leopardo e lo sciamano” di Federico Pistone, “La Mongolia è la terra dei miracoli. Semplicemente perché riporta l’uomo alle origini, lo spoglia e lo risana dalle malattie che la nostra condizione evoluta ci consegna in cambio di qualche comoda inutilità contronatura”.
Questo racconto di Loris Delvecchio ha partecipato al Travel Tales Award 2024
Il Kirghizistan o Kyrgyzstan, ex Repubblica federata dell’Unione Sovietica, ha raggiunto l’indipendenza soltanto nel 1991. Situato in Asia Centrale, prende il nome dai Kirghizi, popolo di origine turco-mongola dalle forti tradizioni nomadi; tradizioni mantenute ancora oggi, quando d’estate numerose famiglie si trasferiscono nei pascoli con il bestiame e vivono per alcuni mesi nelle tipiche yurte.
Peculiarità del territorio kirghizo è l’essere in gran parte montuoso: non a caso, viene definito la “Svizzera dell’Asia Centrale”: fiumi e laghi di montagna dalle acque trasparenti, cascate, gole, monti innevati e verdi vallate punteggiate di animali allo stato brado.
Il viaggio in Kirghizistan è iniziato da Bishkek, capitale e centro della vita economica, culturale e politica del paese: città animata, moderna e in rapido sviluppo, che tuttavia conserva evidenti tratti di stampo sovietico. Colpisce il forte contrasto tra lo stile di vita tradizionale degli abitanti dei villaggi in cui abbiamo fatto sosta e quello moderno della capitale; si tratta di due mondi agli antipodi, più di quanto succeda in altri paesi.
Durante il viaggio in Kirghizistan abbiamo infatti attraversato il nord-est del paese fino al lago Issyk Kul, per poi arrivare alla città di Karakol e poter toccare con mano la bellezza e la varietà dei paesaggi. La costante che ci ha accompagnati ad ogni cambio di scenario è stata la grande ospitalità del popolo kirghizo, sempre ben disposto verso i viaggiatori, che probabilmente in virtù della propria cultura nomade percepisce affine.
Il viaggio è stato sorprendentemente bello dal primo all’ultimo giorno, ma il luogo che più mi è rimasto nel cuore è stato il soggiorno nel campo tendato sulle rive del lago Son Kul, gioiello nascosto ed incastonato nelle montagne della steppa e che, trovandosi lontanissimo da qualsiasi centro abitato, di notte ci ha permesso di vedere stellate eccezionali.
Kolmanskop (o, in tedesco, Kolmannskuppe) è una cittadina costruita, nei primi anni del ‘900, attorno a una miniera di diamanti nel deserto del Namib.
Nel 1908, l’operaio Zacharias Lewala trovò un diamante mentre lavorava alla costruzione di una ferrovia in quest’area, allora appartenente alla colonia tedesca dell’Africa del Sud Ovest, dando il via allo sfruttamento minerario della zona.
Attorno alla miniera sorse rapidamente una cittadina, costruita nello stile architettonico delle città tedesche, fornita di tutti i servizi, compresi un ospedale, una sala da ballo, una scuola, un teatro.
Ma quando la miniera comincio ad esaurirsi e vennero scoperti, vicino al fiume Orange, depositi di diamanti ancora più ricchi, la città cominciò a declinare, fino ad essere del tutto abbandonata nel 1956.
Da allora il deserto ha cominciato a entrare in città e la sabbia se ne è impadronita.
Oggi Kolmanskop è una suggestiva città fantasma, spesso usata come location di film e serie televisive, che offre agli appassionati di fotografia l’occasione di scatti unici.
Abbiamo avuto la fortuna di esplorare questo luogo nel tardo pomeriggio, godendo così di una luce particolarmente favorevole. I raggi del sole che spesso entravano negli ambienti ad illuminare la sabbia che li riempiva, creando così, insieme agli scorci del mondo esterno con piante e fiori che sembravano voler entrare anch’essi , nsieme alla sabbia, un’atmosfera magica, di sospensione del tempo.
Certo il contrasto di luminosità era spesso molto forte, rendendo problematici molti scatti, resi possibili solo dalla tecnica dell’HDR.
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Il fiume Arpa nasce in Armenia nelle catene montuose del Piccolo Caucaso. Scorre in direzione sud-ovest attraversando l’enclave azera del Naxçıvan per poi gettarsi nell’Aras, al confine con l’Iran. Un fiume importante per questi territori. Nel 1963 cominciarono, infatti, i lavori di costruzione di un tunnel con lo scopo di convogliare parte delle sue acque nel lago Sevan il cui livello, a causa del prelievo per scopi idroelettrici e di irrigazione intensiva, aveva subito un inarrestabile declino.
I lavori vennero completati nel 1981 e consentirono l’afflusso di 250 milioni di metri cubi annui di acqua nel lago. Tuttavia, la condotta, della straordinaria lunghezza di oltre 48 km, subì ripetuti rallentamenti e blocchi di esercizio per manutenzione fino alla sua totale inutilizzabilità.
Oggi quel territorio appare sospeso: ancora si vedono, incisi nella natura, i grandiosi interventi della dominazione russa, ma, dopo la fine di questa, pare le atmosfere si siano rarefatte. Alcuni luoghi sono rimasti chiusi nel tempo e il tempo stesso pare fluire con ritmi più naturali.
Proprio lungo queste valli fluviali, in un territorio di mezzo tra Armenia e Azerbaigian, si trova il villaggio di Areni. Un territorio brullo, a quasi 1000 mt di quota. Poche case in stile sovietico, di mattoni grigi e tetti di zinco, lungo un fiume livido e stretto. Siamo nella provincia di Vayots Dzor. Un luogo rurale, con basse colline e sparute coltivazioni di alberi di pesco. Gente cresciuta nella semplicità di una terra quantomai isolata e sperduta. Sconosciuta alla maggior parte del mondo se non fosse che qui è stata scoperta una delle cantine di vino più antiche del mondo, risalente al 4100-4000 a.C.
All’epoca, in questi luoghi prosperava una antica cultura caucasica: i Kura-Araxes. Comprendeva gli stati moderni di Armenia, Azerbaigian, Georgia e Turchia. Una civiltà antichissima, proveniente dalle valli dell’Ararat, che aveva nella ceramica dipinta di nero e rosso, il suo tratto artistico più alto.
In una grotta preistorica, proprio alle pendici di questo villaggio, antichi viticoltori usavano i piedi per pressare l’uva in vasche di argilla, facendo colare il succo in piccoli tini. Il vino così prodotto sarebbe poi rimasto a fermentare fino allo stoccaggio in giare. Questa produzione, su larga scala, ha convinto gli archeologi che l’uva fosse, già a quei tempi, coltivata in filari e addomesticata per produrre vino, anche da commerciare.
Percorrendo oggi la strada principale di Areni, l’unica asfaltata, si trova un divertente e colorato “shopping street” all’aperto: tanti piccoli e variegati negozi, ai lati della via, che offrono svariati servizi e oggetti. Tante piccole vetrine spartane e dignitose, in spazi perfettamente integrati con la natura e costruiti in materiale di riciclo. Pare quasi che in questi antichi e remoti territori si seguano principi di “sostenibilità” quantomai moderni. Ma il fatto più sorprendente è che, ancora oggi come nei millenni passati, seguendo una tradizione antichissima, l’economia del luogo è sostenuta sempre dalla vendita al dettaglio di vino.
Nella speranza che questi luoghi siano qui ancora nei prossimi secoli.
Quando nel 2019 ho intrapreso il viaggio in India per partecipare al Kumbh Mela, non sapevo neanche cosa volesse dire questa parola, sapevo che era un pellegrinaggio religioso molto sentito dal popolo indiano, invece adesso, a distanza di 4 anni, Kumbh Mela per me vuol dire: “avventura”.
Ero già stata in India, quindi ero preparata alla folla, alla devozione, ai suoni e agli odori di un campo indiano, ma non avevo idea di quello che sarebbe successo appena attraversato uno dei ponti di collegamento con il campo di Allahabad.
Una voce da un altoparlante annuncia pochi minuti dopo il nostro arrivo che a causa dell’imprevisto numero di persone, per motivi di sicurezza, i ponti sarebbero immediatamente stati chiusi sia in entrata che in uscita. In pochi istanti mi ritrovo prigioniera del Kumb!
L’euforia data dall’atmosfera, magica già ad una prima occhiata, supera il pensiero di qualsiasi problema pratico.
L’esplorazione del luogo è l’assoluta priorità, con il passare delle ore però la nostra salvezza sarà l’incomparabile ospitalità indiana, troveremo asilo nel campo tendato dei Naga Aghori, una setta di asceti induisti che avrebbero sfilato durante la notte fino al fiume per immergersi nelle acque e trovare così la purificazione dai mali del mondo.
La prima sorpresa sarà che per poter essere ospitati nel loro campo dobbiamo diventare loro seguaci, ed è così che dal febbraio 2019 sono a tutti gli effetti una seguace dei Naga Aghori con tanto di tessera plastificata a testimoniarlo.
Scoprirò un’ospitalità incondizionata, ricorderò per sempre la sveglia per partecipare alla processione alle tre del mattino da parte di un Aghori completamente nudo e coperto di cenere con in mano un vassoio da tè. Non ho documenti fotografici di quel momento se non la mia memoria, quell’apparizione allo stesso tempo inquietante e tenera prima dell’alba è ancora oggi la sveglia più sorprendente della mia vita.
Alle tre del mattino il campo già pullula di persone, il rumore è assordante, i tamburi scandiscono il tempo che ci separa dall’inizio della processione verso il fiume. Gli Aghori si stanno cospargendo il corpo di cenere come segno di devozione.
Quando un Sadhu a cavallo darà il via alla festa mi ritrovo stretta tra la folla che si muove verso il fiume. Sono in un vortice di pensieri, suoni, odori, persone, stringo la macchina fotografica più forte che posso e mi lascio trasportare, mi fermerò solo quando sarò arrivata in fondo.
L’arrivo al fiume è emozionante, l’alba si alza a poco poco, uomini donne e bambini si immergono semi vestiti nell’acqua ancora nera della notte e pregano. Intorno a me sento una grande energia spirituale, anche se non condivido con questa gente la stessa religione condivido uno stesso momento di intensa spiritualità.
Anche la strada del ritorno sarà un’avventura fatta di incontri di ogni tipo.
Sarò di nuovo al campo degli Aghori a giorno inoltrato e non so se sia stata la fame, ma il pranzo offertomi (completamente vegano) è ancora oggi il più buono mai mangiato in India.
La stanchezza a questo punto è tanta, ma mi sento parte integrante di un evento più grande di me, e attraversando il ponte che mi porterà definitivamente fuori dal campo e lontano dal Kumbh Mela, ho già in fondo al cuore un sentimento di nostalgia per un’esperienza che so già irripetibile.
Quando l’ex Regno di Lo, chiamato Mustang, fu aperto per l’ultima volta agli stranieri, la fondazione “The American Himalayan Foundation” (AHF) visitò questa regione un tempo tibetana e ottenne un incontro con la famiglia reale. Il desiderio dei leader della fondazione era di aiutare questo remoto regno sponsorizzando progetti di sviluppo, e chiesero direttamente al re come potessero aiutare con successo questa cultura in pericolo. La risposta del re fu molto chiara. Se i leader della fondazione volevano davvero aiutare il popolo del Mustang, avrebbero dovuto far rivivere i monasteri di Lo Monthang, poiché la cultura locale era fortemente legata alla religione.
Dal 1996, seguendo la richiesta del re, l’AHF accettò di sponsorizzare la conservazione e il restauro dei templi di Tubchen e Jampa nella capitale del Mustang, Lo Monthang. L’AHF ha incaricato “John Sanday Associates” (JSA) di iniziare a lavorare nel Monastero di Tubchen. Nel 1998, quando il ripristino strutturale stava progredendo, l’attenzione si spostò sui dipinti murali del XV secolo, diventando così il fulcro del progetto.
Consulenti conservatori internazionali, guidati da Rodolfo Lujan Lunsford, furono poi convocati da JSA per un sondaggio al fine di stabilire un piano di restauro per salvaguardare i dipinti murali in pericolo. Io, Luigi Fieni, mi unii al progetto nel 1999 come suo assistente e dal 2004 in poi mi occupai del restauro delle pitture. Quello che pensavo sarebbe stata un’esperienza di un paio di estati nell’Himalaya si è rivelato un viaggio lungo più di due decenni. Le pagine seguenti sono il mio tentativo di descrivere un progetto così complesso, evidenziando le fasi più importanti che abbiamo svolto durante la sua durata.
Nel corso degli anni sono stati impiegati nel progetto diversi consulenti restauratori, per lo più italiani, e ognuno ha contribuito a modo suo, condividendo le proprie competenze e le proprie conoscenze. Si è trattato di uno sforzo congiunto, e tutti dovrebbero essere orgogliosi del risultato ottenuto. Un’ulteriore richiesta della comunità locale è stata quella di coinvolgere gli abitanti del luogo nel progetto per svolgere un ruolo attivo nella conservazione del proprio patrimonio culturale.
Per questo motivo, un membro di ogni famiglia residente a Lo Monthang si è unito al team di conservazione dei dipinti murali come tirocinante. La sfida più grande, e la più gratificante negli anni a venire, è stata quella di trasformare contadini in restauratori. Il primo problema che il progetto ha dovuto affrontare è stato quello di convincere la comunità locale, la famiglia reale e il clero che avevano bisogno dell’aiuto di aiuti stranieri. Tutti si rendevano conto dello stato di degrado dei templi e dell’urgenza di salvaguardare le strutture, gli oggetti sacri e le pitture murali.
Tuttavia, la nozione di conservazione era sconosciuta e c’era una generale diffidenza nei confronti degli occidentali che lavoravano sui loro edifici religiosi.
La terra armena.
Sette giorni in attesa del diluvio. E ancora sette giorni passano. Yhwh (*) chiude al fine la porta dell’Arca. Quaranta giorni sono oramai passati e le acque salgono ancora. Le montagne sono coperte.
Le acque dominano per centocinquanta giorni. Poi.
Poi Dio si ricorda di Noè e degli altri esseri viventi: le acque scendono per centocinquanta giorni. Le cime delle montagne tornano visibili.
Eccolo laggiù il mio Ararat. Sorge deciso, in contrappunto a questa delicata valle di vigneti e cipressi. Come una muraglia di grigio fumo e roccia, immerso in un cielo di tempesta perenne e screziato da una calotta artica, altrettanto perenne.
Bellissimo. Si capisce immediatamente perché Yhwh l’abbia scelto e lì abbia deciso di portare giraffe e pappagalli, per salvare l’umanità.
Sette giorni in attesa che gli effetti del diluvio siano finiti. Poi comanda di uscire dall’Arca. Cibo fuori dell’Arca. È Alleanza con tutti gli esseri viventi. Mai più diluvi. Sem, Cam, Jafet: i discendenti di Noè possono ripopolare la terra.
Mai più confini e guerra. Così è scritto. Ma proprio lì, ai suoi piedi, una fila di infiniti paletti e filo spinato. Segnano i confini con un’altra Patria. Non proprio amica. La Turchia. E questo immenso ed elegante monte appare ora, improvvisamente, irraggiungibile: una tela strappata di un importante dipinto.
Allora lo sguardo si volge a terra, ai propri piedi. Lento si eleva, viaggiando verso quell’orizzonte tanto lontano e impossibile. E si rivolge a Dio. Strumento per percorrere comunque, e con tenacia, quelle strade ora non più fisicamente praticabili.
Un popolo di uomini vaganti e laboriosi: semplici nei gesti, alti nello spirito. Una terra di pascoli dolomitici, fosche e potenti vallate, costeggiate da croci e monasteri. Tante tracce spirituali, ruvide come le lastre di pietre sacre, sparse nei prati e protette dai licheni.
È dunque nella penombra dei suoi monasteri che la vita si eleva: laddove forse non arriva il nemico e l’anima è libera di esprimersi. Sottili candele rischiarano l’atmosfera dei lunghi e partecipati riti. Nessuna panca, nessuna sedia è presente. Tutti in piedi, a contatto con la terra. Giovani e vecchi.
Donne, uomini, bambini. Ovunque ispirazione. Fede. Sconosciuta qui, nel nostro Occidente di giraffe e pappagalli.
L’aria sapida di incenso e sudori, ti inviluppa. Sguardi severi, fieri ma pacifici, lievi ti toccano. Perché pur essendo straniero, ti senti accolto e, almeno in parte, accettato.
Gli Armeni, sempre transfughi nelle loro storie, in un territorio conquistato con difficoltà, forse solo in questi monasteri e nelle fedi si raccolgono come Nazione.
Lascio questo luogo, con mille volti e mille candele vaganti nella mente. Esco nell’aria, ma vorrei ancora essere nello sguardo di quel bambino. Scendo veloce attraverso le vallate del passo Selim: davanti a me il Lago Sevan.
Ancora croci e fede su queste colline. Bellissime ed eleganti. Poi quelle lastre, vagamente sovietiche, con visi scolpiti affinché il ritratto non sia consunto dal tempo e dalla natura. Monumento anche a quei duecento giovani soldati uccisi nel Nagorno Karabakh. A testimonianza che alla guerra si deve sopravvivere.
E il rito di questa domenica armena continua. Questi raggi di sole, un po’ alieno, penetrano e rimbalzano sulle scure pareti, della ‘mia’ chiesa, anima. Rocce intrise da millenni di incenso e candele. Il rito della vita continua complicato, ma leggero.
Come le tante storie che in queste mure si sono svolte e che ora, tutte insieme, leggermente, ancora sfumano e si intrecciano nell’aria. Come quei ghiacci perenni che dall’Ararat si elevano sino al cielo.
(*) Yhwh è il tetragramma biblico, la sequenza di quattro lettere che compone il nome di Dio.
Prendete lo “slow train” dalla stazione di Bangkok Thonburi e viaggiate verso ovest nella pittoresca provincia di Kanchanaburi per un appuntamento con la storia. La prima parte del tragitto offre un’altra prospettiva sulla capitale thailandese viaggiando attraverso i sobborghi occidentali prima di raggiungere l’incrocio di Nong Pladuk nella provincia di Ratchaburi. Ed è qui, a circa 50 miglia a ovest di Bangkok, dove la diramazione si dirige a nord-ovest verso Kanchanaburi che inizia la vostra esperienza sulla storica Ferrovia della Morte.
Durante la seconda guerra mondiale, l’esercito giapponese occupò territori che andavano da Singapore fino alla Birmania. Per rifornire le proprie forze in Birmania e prepararsi ad un attacco alle truppe britanniche in India, l’esercito giapponese voleva stabilire una rotta terrestre che evitasse le rotte marittime alternative dove erano attive le navi alleate. Con la linea ferroviaria già operativa tra Singapore e Bangkok, i giapponesi decisero di costruire un’ulteriore diramazione a ovest della capitale e che sarebbe poi andata a nord verso la Birmania. La ferrovia Thailandia-Birmania fu costruita nel periodo 1942-43 tra Nong Pladuk (Thailandia) e Thanbuyazat (Birmania), coprendo una distanza di circa 420Km.
Si stima che 240.000 uomini siano stati costretti a lavorare sulla ferrovia Thailandia-Birmania. Più di 60.000 prigionieri di guerra alleati (POW) hanno avviato il progetto e nella fretta di completare la linea, altri 180.000 uomini furono arruolati ai lavori forzati. Con cibo e forniture mediche inadeguate e costrette a lavorare per lunghe ore in condizioni selvagge, migliaia di persone morirono di colera, dissenteria, malaria, fame o esaurimento. Il numero esatto di morti non è noto, ma gli storici parlano di almeno 90.000 operai e più di 12.000 prigionieri di guerra uccisi. Le cupe statistiche hanno portato la linea a essere soprannominata la “Ferrovia della morte”.
Dopo la guerra, gran parte della linea fu riparata e ancora oggi è utilizzata per i servizi passeggeri locali tra Bangkok e il capolinea a Nam Tok. Sebbene la ferrovia oltre Nam Tok non sia più in servizio, sezioni come il famigerato Hellfire Pass (Konyu Cutting) sono state recuperate e conservate come parte del Hellfire Pass Memorial Museum. Intraprendere un breve viaggio sulla Ferrovia della Morte è un’esperienza emozionante soprattutto durante l’attraversamento del ponte sul fiume Kwai e dell’incredibile viadotto Wang Po.
Una delle principali attrazioni turistiche di Kanchanaburi ha una storia affascinante. Il ponte è diventato famoso in tutto il mondo quando è apparso nel film di David Lean del 1957, The Bridge on the River Kwai. Sebbene la pellicola fosse vagamente basata su personaggi della vita reale che lavorarono alla Ferrovia della Morte, non è una rappresentazione fedele della storia. La fama del film e il conseguente aumento del turismo nell’area di Kanchanaburi ha creato una situazione difficile per le autorità thailandesi perché non esisteva un fiume chiamato “Kwai”.
Quando i turisti iniziarono ad arrivare a Kanchanaburi, il fiume dove si trova il ponte si chiamava in realtà Mae Khlong. Negli anni ’60, le autorità thailandesi hanno escogitato una soluzione creativa ribattezzando il fiume in “Khwae Yai” (sono due i fiumi affluenti, Khwae Yai e Khwae Noi, che sfociano nel Mae Khlong). Ma a causa dei diversi modi in cui il thailandese viene traslitterato in inglese, “Kwai” è stato utilizzato nelle traduzioni e per molti, questo è il nome e la pronuncia che è rimasta. Durante la guerra furono costruiti due ponti a Kanchanaburi.
All’inizio del 1943, completarono la costruzione di un ponte temporaneo in legno, mentre pochi mesi dopo terminarono il ponte in cemento e acciaio. Tuttavia, le bombe alleate danneggiarono il ponte e ripararono il danno installando campate a linee rette, mentre le campate curve sono quelle originali che i giapponesi trasportarono da Java.
Visitando Kanchanaburi, consigliamo di partecipare all’annuale “Festival del ponte sul fiume Kwai” e alla Fiera della Croce Rossa. L’evento si tiene solitamente dalla fine di novembre fino all’inizio di dicembre con uno spettacolo di luci e suoni che illumina suggestivamente il ponte.
Un incredibile tratto di binari attende i passeggeri mentre il treno esce dalla città di Kanchanaburi e prosegue verso Tham Krasae. Con il fiume Khwae Noi da un lato, rocce e fitta giungla dall’altro, la ferrovia è sopraelevata su una serie di impressionanti palafitte di legno che formano il viadotto Wang Po. I prigionieri di guerra costruirono originariamente questa mozzafiato sezione del binario, costretti a lavorare in condizioni inimmaginabili utilizzando solo strumenti di base. La maggior parte degli uomini che hanno lavorato su questo tratto sono morti. Oggi, questo è un luogo straordinariamente bello con ampie vedute del fiume e uno sfondo lussureggiante di verdi colline. Ma quando lo si attraversa con il treno o semplicemente si cammina lungo i binari, non si riesce a non pensare agli orrori che hanno avuto luogo qui.
I passeggeri possono scendere dal treno alla stazione di Tham Krasae, ammirare le viste spettacolari o meditare sulla tragica storia della ferrovia. Prima che il treno torni a Tham Krasae per il viaggio di ritorno a Kanchanaburi e Bangkok, c’è tempo per camminare lungo il single track fino alla grotta che un tempo era un rifugio per i prigionieri di guerra che lavoravano su questa sezione della ferrovia. Un’immagine di Buddha all’interno della grotta suggerisce che si tratta di una tranquilla area di contemplazione.
La linea passeggeri termina a Nam Tok, ma originariamente la ferrovia continuava fino alla Birmania, attraversando l’Hellfire Pass. Proprio qui consigliamo la visita dell’Hellfire Pass Memorial Museum: apprezzerete di più la storia di quest’area e la dura realtà della vita di chi lavorò alla ferrovia.
Questa è stata una delle sezioni più difficili della pista da posare con prigionieri di guerra e lavoratori asiatici che avevano bisogno di tagliare la solida roccia. Qui la gente lavorava 24 ore su 24 e di notte accendevano lampade a olio e fuochi. Le fiamme, il rumore delle trivellazioni e la vista di uomini malnutriti costretti a lavorare in condizioni spaventose erano una scena infernale. Ecco perché il tratto di ferrovia conosciuto come “Konyu Cutting” è meglio conosciuto come Hellfire Pass.
Dopo la fine della guerra, un determinato gruppo di ex prigionieri di guerra australiani tornò in Thailandia e riscoprì il sito della linea ferroviaria negli anni ’80, bonificandolo dalla giungla. Con il successivo aiuto del governo australiano e la benedizione delle autorità thailandesi, Hellfire Pass è diventato un sito commemorativo per onorare coloro che hanno perso la vita qui. Il Governo Australiano ha costruito e mantenuto L’Hellfire Pass Memorial Museum e il percorso pedonale e li ha aperti nel 1998. Ristrutturato nel 2018, il sito è dedicato ai prigionieri di guerra alleati e ai lavoratori asiatici che hanno sofferto e sono morti a Hellfire Pass durante la seconda guerra mondiale.
Una visita a Kanchanaburi e alla Ferrovia della Morte è una popolare gita di un giorno da Bangkok e può essere organizzata anche da Hua Hin. Per viaggiare in modo indipendente è comodo prendere il treno da Bangkok a Kanchanaburi partendo dalla stazione di Bangkok Thonburi. I treni su questo percorso sono classificati dalle Ferrovie dello Stato della Thailandia (SRT) come treni “normali”. Il tempo di percorrenza è di 2,30 hrs, le carrozze di 3a classe sono semplici ma l’esperienza è piacevole. E’ sufficiente presentarsi e acquistare il biglietto in stazione.
Da Kanchanaburi, la fermata è quella vicino al ponte sul fiume Kwai. Il treno attraversa il ponte e poi il viadotto Wang Po prima di dirigersi alla fine della linea a Nam Tok. Se si prende il treno del mattino e si scende alla stazione di Tham Krasae, c’è tutto il tempo (quasi 2 ore) per scattare foto, camminare lungo i binari fino alla grotta e pranzare prima di prendere il treno di ritorno per il centro di Kanchanaburi.
In volo verso la Tunisia avevo un unico desiderio: spingermi oltre il già visto e smettere di scattare normali foto di bei luoghi, per iniziare a fare belle foto di luoghi normali. Ma subito mi sono scontrata con una difficoltà. Cos’era davvero normale in un mondo così lontano e così diverso dal mio, dove abitudini, tradizioni, cultura e storia apparivano ancora non contaminate dalla globalizzazione?
Poi mi sono semplicemente lasciata catturare dal fascino senza tempo di quel cono di terra che si snoda tra la Libia e l’Algeria.
Laggiù la luce calda e intensa trasmette un senso assoluto di solitudine e serenità che trasporta in una dimensione vibrante di energia. E’ come una forza antica e potente: la stessa che permea le vaste distese di sabbia e aridità.
L’effetto di quella luce è in ogni piega dei volti di chi nel deserto vive e lavora, fabbricando mattoni, pascolando il bestiame, dormendo in capanne fatiscenti. Ho incontrato famiglie di nomadi e seminomadi e nei loro tratti scavati dalla fatica ho scorto il peso di una vita durissima. Su quella pelle, segnata da solchi profondi, sono impressi i segni del sole cocente, della sabbia e del vento.
Le guance scavate e gli zigomi sporgenti riflettono la fatica e la durezza di una vita lungamente messa alla prova dalla penuria di acqua, di cibo e di riposo. Eppure quei volti raccontano storie di coraggio, saggezza e resilienza da cui traspare una bellezza autentica, plasmata dalla forza interiore di chi lotta quotidianamente per sopravvivere. Diverso, ma forse ancora più graffiante, è lo sguardo dei bambini, sulle prime un po’ smarrito davanti alla fotocamera ma, subito dopo, risoluto e penetrante. Faticavo a immaginare che quella vita all’insegna della povertà, così lontana dagli agi e dalle comodità del mondo occidentale, avrebbe continuato a fluire implacabile anche dopo il mio passaggio troppo rapido perché potessi coglierne pienamente il peso e il significato.
Diverse, invece, sono state le sensazioni scaturite dall’incontro con le popolazioni berbere e le loro tradizioni millenarie di persone accoglienti, semplici, assai povere. Eppure non è raro scorgere i loro visi sorridenti che fanno capolino dalle abitazioni dei villaggi in cui abitano. A Matmata, Toujane e Zammour le abitazioni troglodite sono scavate nel terreno argilloso che mi ha inghiottita quando, con un po’ di riluttanza, ho dovuto dormirvi. Non nascondo di essere stata spaventata dal quel contatto diretto con la natura che, invece, mi ha offerto un riparo confortevole in cui gli iniziali timori si sono sciolti nella dolcezza inaspettata della sua protezione, così contrastante con quella forza primordiale proveniente dall’energia selvaggia che si sprigiona in quell’ambiente apparentemente ostile e misterioso, soprattutto per chi non lo conosce. Ma è proprio laggiù che può avvenire un autentico richiamo alla nostra connessione con la natura, alla nostra capacità di adattamento e alla nostra ricerca di significato in un mondo complesso: è un luogo dove, come per magia, forza e fragilità sembrano fondersi in una danza eterna.
Foto e parole di Roberta Vitali
Questo racconto ha partecipato al Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
In mondi ai confini della società industrializzata esistono società che sembra si muovano a velocità differenziata dove l’iniziativa e la fantasia del singolo ancora non sono state sostituite da attività imprenditoriali caratterizzate da un coacervo di spregiudicate capacità operative, capitali, strutture e profitto.
Qui ancora la manualità e la fantasia non perseguono necessariamente l’esasperazione del guadagno (del resto non facilmente ottenibile considerando la realtà di quelle economie). Ciò avrebbe come immediata conseguenza un decremento di genuinità sia dei prodotti che dei rapporti umani. Sembra quasi che si tenda a privilegiare uno status quo temporaneamente immobile nel tempo senza apparenti aspirazioni a sviluppi.
Quindi: Oggi come ieri e, con molta probabilità, come domani……
Ma se questa è una faccia della medaglia (il rallentamento dello sviluppo per scelta etica, sociale e religiosa), l’altra mette in risalto una situazione che vede noi, paesi civili (un tempo recente anche colonizzatori), in parte responsabili di questa realtà perché inesorabilmente presenti laddove esiste ancora qualcosa di cui appropriarsi a buon prezzo (petrolio, terre rare, metalli preziosi, paesaggi da utilizzare per turismo ecc.), e completamente e colpevolmente assenti nei paesi dove tutto ciò è carente.
Un’ istantanea immediata ci mostra Paesi in condizioni obbiettivamente difficili fino all’inverosimile, ai quali è stato scippato tutto ciò che era possibile per poi essere abbandonati a loro stessi (competenze zero, preparazione tecnologica scarsa, cultura minimale, strumentazione industriale inutilizzabile per carenza di pezzi di ricambio, occidentali, difficoltà di specializzazione degli addetti.)
Risalta all’occhio curioso una attività non tesa allo spreco (usa e getta) ma ad un utilizzo e riutilizzo dei materiali di ogni genere in una costante attività in cui il tempo non ha più il valore stressante come da noi ma si stende in giornate umanamente sostenibili pur se sostanzialmente faticose.
Siamo sicuri che fra breve tempo i paesi consumisti non saranno costretti a fare marcia indietro e rivedere gli schemi utilizzati fino ad oggi??
Dovremmo prevedere un sistema progressivo di ridimensionamento degli eccessi e frenare il consumismo che distrugge l’ambiente e la società che di “civile” ormai ha solo l’appellativo.
Foto e parole di Roberto Renai
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Siamo nel nord dell’India. Il confine pakistano che si affaccia al Mar Arabico.
Entrare in queste fabbriche non è facile, attraverso alcune persone ben inserite nel contesto sociale, amici di amici che ci procurano un permesso per visitare questi enormi capannoni dal caldo spaventoso. Veniamo abbracciati da campi di acciaio ancora fumante, rumori assordanti e un formicaio di persone, tutto annerito dalla fuliggine del grande forno dall’aspetto vulcanico.
I camion che incessantemente scaricano rottami di grandi dimensioni e caricano il metallo rinnovato uscito dalle ceneri come una fenice nera. All’inizio fotografare e spostarsi qui è veramente difficile, la paura di farsi male o di essere un pericolo per questi instancabili lavoratori è costante. Dopo un po’ ci si abitua e si intuisce dove mettere i piedi, quando abbassare velocemente la testa, quando non respirare e quando proteggere gli occhi.
Queste foto raccontano del mondo delle fonderie di acciaio e della vita lavorativa di uomini che con il riciclo dell’acciaio cercano di sopravvivere. La vita qui per loro si svolge in modo circolare, la mattina gli operai si alzano presto, per andare al lavoro e c’è chi a rotazione prepara i pasti per gli altri.
Chi sta alla fornace, chi al deposito di carbone. Quando iniziano i turni gli uomini sono impegnati a demolire vecchi relitti di navi provenienti da tutto il mondo: tagliano il metallo, lo lavorano, lo fondono e lo trasformano di nuovo.
Solo il metallo qui cambia vita, purtroppo non accade a questi uomini, loro sono sempre qui, tutti i giorni finché il fisico regge, fino a sera, fino a quando la sirena suona l’arrivo del tramonto.
Una catena umana fatta di fatica, sudore e duro lavoro. Molti occhi curiosi e sorrisi amichevoli ma amari.
Foto e parole di Nicola Ducati
Racconto pubblicato sul prestigioso volume di Travel Tales Award 2023. Presentazione del libro: Milano durante la nostra Convention di marzo 2024.
Mare Fecunditatis, ovvero il deserto esistenziale
“Sono tornato là,
Dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.”
Giorgio Caproni
Vita e morte mi appaiono come un’unica funzione che si annulla nel proprio principiare, quasi un movimento fermo, un atto mancato nella caduta del tempo dove le forme dell’esistenza trasmutano nel silenzio, si dissolvono i contorni della vita e persistono, distratti, i residui della memoria nei lacerti della creazione umana.
Impartire bordi alle cose, soffrirne il peso per poi arrendersi alla cieca trasformazione: fremiti del nulla nella vastità dello spirito.
… Ed è in questa marea dell’anima che la morte mi par essere sempre più sorella della vita.
Foto e parole di Tina Salipante
Questo racconto è stato selezionato e pubblicato sul libro di Travel Tales Award 2023. Clicca su QUESTO LINK per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Chissà come sarebbero le nostre città se fossero vuote.
A volte ce lo siamo chiesti, a volte con difficoltà abbiamo provato ad immaginarlo, altre volte l’abbiamo visto in tv. Le città non sono vuote, come abbiamo sentito spesso ripetere in queste settimane di pandemia.
Le vediamo vuote se le facciamo coincidere con il loro spazio pubblico e se pensiamo che si esauriscano nella loro immagine metafisica, che i giornali e i social ci hanno proposto nei giorni di pandemia.
Ma allo stesso tempo guardando, non soltanto con gli occhi, si vede che queste città restano piene di vita, di corpi e di anime, le nostre, che rimangono invisibili, vite compresse nei modesti o preziosi formicai che sono le nostre case, è dentro di noi, sentiamo lo smarrimento di un tempo che si è dilatato, sentiamo l’ansia, quel non riuscire neppure a leggere o a pensare con profondità alle cose che facciamo.
In queste settimane di quarantena tutti abbiamo capito che è entrata in crisi la nostra stessa idea di abitare, che nella sua accezione più profonda non si esaurisce nella casa, ma la trascende, altrimenti non avremmo fatto così fatica ad accettare questo isolamento.
Si gioca in quell’equilibrio fragile tra interno ed esterno, tra necessità di appartarsi e richiamo della vita collettiva. Siamo feriti nelle certezze, divisi negli affetti, separati da tutto ciò che amiamo.
Dal desiderio di raccontare queste sensazioni… nasce l’idea di “raccontare” queste città e questi spazi vuoti del mondo, così affascinanti, ma anche così ansiosi… e di fotografarli attraverso i video e le foto trovati sul web e di “fermarne il tempo” con una vecchia Poloroid Instant.
Foto e parole di Lello Fargione
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Istanbul, “Un portfolio venuto dal passato”.
“Una capsula del tempo è un contenitore appositamente preparato per conservare oggetti o informazioni, destinato a essere ritrovato in un’epoca futura”.
Nelle nostre case esistono delle capsule del tempo, ma non ce ne rendiamo conto, esse sono le scatole dove sono conservate le vecchie foto.
Le scatole di fotografie vengono spesso ritrovate nei mercatini, i ritrovamenti che sono il frutto dello svuotamento delle cantine e delle abitazioni, che passando di proprietà sia per eredità che per vendita ad altri proprietari, vengono svuotate per far spazio al nuovo.
Passeggiando tra i mercatini, trovo una vecchia scatola di biscotti in latta, l’apro e all’interno trovo una porzione di mondo sospeso nel tempo, è Istanbul, ma non riesco a collocarla in uno spazio temporale ben definito, tutto sembra essersi fermato agli anni 50, ma sarà cosi……..
In questo lavoro ho cercato di giocare tra realtà e finzione.
Sul finire degli anni 90, feci un viaggio ad Istanbul, “città d’oriente che incontra l’occidente”. Questo portfolio è il frutto di quel viaggio, le foto scattate in analogico, sono state digitalizzate e post-prodotte, aumentando virtualmente i segni del tempo, ma ho volutamente lasciato qualche indizio di modernità per svelare il trucco.
Foto e parole di Lugi Cipriano
Questo racconto ha partecipato al Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Centinaia di cavalli e pastori sulla spiaggia di Saintes Maries:
1000 cavalli, 200 pastori e migliaia di appassionati si riuniscono il 10 e 11 novembre sulla spiaggia di Saintes Maries de la Mer per uno dei più grandi festival dell’abrivado nel sud della Francia. Un incontro unico tra la Camargue, i cavalli, i tori e tutti gli amanti della tradizione taurina.
Ogni giorno, il festival inizia con la colazione offerta sulla spiaggia orientale in un luogo chiamato “Rousty” (parcheggio Bambou Palm Beach). Partenza dei cavalieri e dei tori dalle ore 11 con una colonna di 11 abrivados che si susseguiranno lungo il percorso di 6 km che li porterà all’arena.
Si rievoca il trasferimento come in passato (non c’erano camions) dei tori all’arena al centro del paese per la tradizionale corsa camarghese, una specie di corrida dove però l’unico che rischia è l’uomo.
La difficoltà dei cavalieri sta nel tenere i tori all’interno dell’abrivado, il tutto è complicato dalla presenza di disturbatori che con drappi, petardi e fumogeni (aboliti nell’ultimo festival), cercano di spaventare i cavalli affinché i tori si disperdano…
Uno spettacolo impressionante da vedere assolutamente per innamorarti della Camargue e delle sue tradizioni!
Sono nato, in un angolo selvaggio dove i tori neri sono re; ed è stato scosso dalla mia giovane età dai fenicotteri in subbuglio.
La mia casa era tutta bianca, tra pini e giunchi; e il maestrale con i rami mi compose belle canzoni.
Sono nato su questo suolo arido dove, come Attila, il sole fa mille rughe sulla terra per soffocarne il risveglio.
Ma quando appare la luna e la sua chiarezza inonda le rubine e le grandi paludi, si crederebbe di vedere la fine del mondo.
Je suis …la Camargue
Jean-Marc Allègre
Foto e parole di Claudio Varaldi
Questo racconto ha partecipato ed è stato pubblicato sul libro di Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Il corridoio del Wakhan è un’impervio lembo di terra che si estende nella parte nord-orientale dell’Afghanistan; area tra le più remote del mondo, venne percorsa da Alessandro Magno nel 327, da Marco Polo nel 1271 e da Genghis Khan nel XIII secolo: ramo dell’antica via della Seta, è stato crocevia di comunicazione tra Oriente e Occidente.
È in questa terra severa che, circa 2.500 anni fa, si insediarono i pastori nomadi di origine Kirghisa e i Wakhi, minoranze etniche dalla vita sospesa nel tempo.
I carovanieri kirghisi praticano ancora oggi un nomadismo pastorale: perennemente in viaggio con le loro mandrie e con le loro abitazioni mobili, le yurta, si possono incontrare durante le loro traversate, negli accampamenti temporanei, tra le immensità delle notti stellate, quando è solo la luce calda di un piccolo falò ad illuminare i visi solcati dai segni di un’esistenza durissima.
La vita delle tribù stanziali Wakhi si basa su un’agricoltura di altura combinata con la pastorizia. Fuori le mura dei villaggi le donne mungono e piccoli pastori accudiscono gli animali. I panni lavati nel fiume, nei brevi mesi estivi possono essere stesi sull’erba sotto il cielo terso, tappezzando come arazzi un panorama incantato.
I numerosissimi bambini hanno tratti somatici, così come i loro occhi incredibilmente verdi o di un nero profondo, che rivelano le loro radici iraniche e mongole.
Purtroppo oggi queste popolazioni vengono messe a rischio dal regime talebano. Da quando hanno preso il controllo dell’Afghanistan, i talebani hanno lanciato un assalto ai diritti umani, perseguitando le minoranze etniche e religiose. Il Corridoio è di particolare interesse per il traffico di oppio, in quanto unica frontiera terrestre dell’Afghanistan con la Cina.
Il progetto di una strada che attraverserà quest’area porta con sé implicazioni fortemente negative per le popolazioni locali: contaminazione culturale, antropizzazione di un’area selvaggia, rilocazioni forzate e aumento del presidio talebano.
I talebani avevano promesso un governo inclusivo e tollerante, rispettoso dei diritti della popolazione, dichiarazioni che si sono presto dimostrate false. Le afgane e gli afgani che hanno deciso di rimanere nel paese per provare a darsi un’altra possibilità oggi vivono un incubo senza fine.
Foto e parole di Robertino Radovix
Questo racconto ha partecipato al Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Durante uno degli ultimi viaggi in Etiopia di ritorno da Gondar verso il Lago Tana, dopo circa un ora di strada la mia guida, Ashennafi Demoz, mi propone di assistere al battesimo copto che, ai piedi della cascata sacra di Addis Zemen, veniva praticato da alcuni frati del vicino convento di Toragedam.
Dopo un percorso abbastanza accidentato ci fermammo subito dopo una curva nel punto dove si apriva un piazzale sterrato e dove, all’interno di un recinto di rami d’albero e frasche, si erano radunate alcune persone.
La mia guida parlotta con il ragazzo che sorvegliava un piccolo e consumato cancelletto in legno e dopo qualche minuto entriamo nell’area appena sotto la cascata dove vari gruppi di persone con dei bambini, da pochi mesi ad alcuni anni, vestiti in con morbidi teli di iuta e ricamati con colori sgargianti, si preparavano per essere battezzati.
Arriviamo alla cascata dove già era entrata una ragazza seguita da un uomo di mezza età il quale, completamente nudo e tremante dal freddo, rimaneva sotto il getto imponente d’acqua coprendosi con le mani le parti intime. La gente intorno pregava, l’atmosfera era molto intima e carica di emozione. Io ero incerto se iniziare a scattare oppure attendere. La mia curiosità e desiderio di fermare per sempre quel magico momento carico di mistero e religiosità, fu troppo forte ed iniziai a scattare prima molto timidamente e poi, alternando gli scatti con alcune riprese video, cercai di padroneggiare la scena cercando comunque di portare il massimo rispetto alle persone presenti.
Dopo la benedizione da parte del frate fu la volta di una ragazza con al collo una croce di metallo ed anche lei fu obbligata a mettersi nuda e ad entrare sotto la gelida e imponente cascata d’acqua. La gente che raccolta pregava sommessamente, di colpo si ferma ed il brusio diviene sempre più forte sino a quasi diventare un grido corale.
Una ragazza portata da suo fratello dopo aver parlato con un frate entra sotto la cascata con la sola speranza di poter guarire dalla malaria che non riusciva a debellare. La ragazza viene aiutata a spogliarsi ed entra con passo incerto aiutata dal fratello , sin sotto il getto d’acqua. Contemporaneamente dall’altro lato una giovane donna con due bambini si spoglia ed anche lei si mette sotto l’acqua portando con se in braccio il figlio più piccolo e tenendo per mano quello più grandicello, La giovane donne stringe intorno a se sotto l’acqua i suoi due figli, la gente inizia a protestare con un mormorio che va a crescere sino a confondersi con le urla della donna e dei due bambini.
La donna alternava momenti di sconforto e calma apparente ad urla e agitazione incontrollata. Io non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Per fortuna Ashennafi viene in mio soccorso e mi preannuncia che la donna è indemoniata e che tra poco assisteremo ad un esorcismo. Nel frattempo la ragazza ammalata di malaria, tremante e quasi pronta a cadere, viene aiutata dal fratello e da un frate ad uscire dall’acqua ed ad asciugarsi e rivestirsi sedendosi li vicino per riprendere un poco le forze, se ne avesse ancora!
La donna che sempre gridava come un ossessa viene avvicinata da un frate con in mano una grossa croce di metallo dorato. Questo inizia a parlarle prima sommessamente e dopo con grande fermezza e voce imperiosa inizia a vibrare, sulla testa della sedicente indemoniata, numerosi colpi di croce quasi a voler scacciare veramente il demonio che si era impossessato della giovane donna. Dopo alcuni minuti sia la donna che l’esorcista si fanno più calmi ed iniziano a parlare tra loro a voce bassa , la donna scoppia in lacrime e l’esorcista dopo averla benedetta con la croce l’accompagna, insieme ai due bambini, verso il gruppo di persone più vicino.
Un anziano e fiero signore, quasi sicuramente il padre della donna, porta un abito bianco per coprire sua figlia e prende in braccio il più piccolo dei nipoti per asciugarlo. Tutti insieme si avviano verso l’uscita della cascata. Pareva fossero trascorse ore da quando eravamo arrivati e sopraggiunta la calma ci ritroviamo spossati e privi di forze quasi che, quanto accaduto in pochi minuti fosse la conseguenza di una lotta alla quale tutti avevamo partecipato per ore.
Rimango incerto e disorientato e per fortuna ancora una volta Ashennafi viene in mio soccorso, mi prende il gomito e mi invita ad avviarmi con lui verso l’uscita.
Foto e parole di Francesco Merella
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Un paese un po’ lasciato in disparte negli anni passati, forse a causa della sue tragiche vicissitudini abbastanza recenti, la Cambogia è un gioiello affascinante e ricco di storia per un viaggiatore ed ancor più per un fotografo.
Non solo il famosissimo sito di Angkor Wat, una delle mete piu’ visitate al mondo, rimasto nascosto e dimenticato per secoli, ma molto della Cambogia merita essere visitato e vissuto.
I templi buddisti sparsi ovunque, le migliaia di monaci che li abitano, la rigogliosa natura con le sue grandi foreste, il lago Tonle Sap con la sua gente che vive su palafitte e si muove su barche e canoe cosi’ come noi usiamo le auto, i suoi mercati incredibili e affascinanti , l’ottima cucina locale e la grazia e gentilezza della sua popolazione.
I monasteri buddisti sono un punto di raccolta per diversi bambini e ragazzi che altrimenti non avrebbero altre possibilità per studiare e vivere al di fuori della strada. Le loro preghiere, i loro riti , le cerimonie, le benedizioni ai fedeli sono un’occasione unica per il fotografo e per tentare di capire un poco la loro filosofia di vita.
I mercati, come spesso succede in tutto il mondo, sono luoghi incredibili per incontrare la varia umanità e anima pulsante di ogni paese o città. Dal mercato per carne e pesce , ovviamente all’aperto senza frigoriferi e invaso da mosche e insetti vari , all’incredibile “Russian market “ di Phnom Penh , cosi’ chiamato per via della frequentazione degli espatriati russi negli anni 80, dove , tra negozi o meglio piccoli spazi stipati all’inverosimile, viene venduto di tutto e, senza divisori, di fianco al macellaio si trova il “beauty center” o, tra centinaia di pezzi di ricambio per moto e biciclette i bambini, presenti ovunque , vivono le loro giornate.
I cambogiani , almeno quelli incontrati nel mio viaggio, si sono sempre dimostrati una popolazione gentile ed accogliente. La possibilità di entrare nelle loro case, vivere qualche ora con loro , mangiare con loro, mi ha dato la possibilità di conoscerli un po’ piu’ da vicino e conoscere qualche dettaglio della loro recente tragica storia negli anni dei Khmer rossi.
Il quasi novantenne ex combattente ha il corpo ricoperto di tatuaggi quali simboli per la protezione contro le pallottole dei suoi stessi compatrioti durante la sanguinosa guerra civile del 1975-1979, che causo’ la morte di quasi un terzo della popolazione cambogiana. Basta visitare il museo di Tuol Sleng a Phnom Penh ( la famosa prigione S-21) per rendersi conto dell’assurdità e dell’atrocità di quel buio periodo della loro storia.
Alla brutalità di quel periodo si contrappone ora la grazia e gentilezza della maggior parte della giovane popolazione cambogiana. I bambini , numerosissimi e presenti ovunque , si divertono con quel poco che hanno o trovano per strada. Durante le numerose feste locali le bambine vengono spesso truccate e vestite per le tradizionali danze locali.
Come in tutti i paesi in via di sviluppo, le contraddizioni della vita locale sono spinte all’estremo. La maggior parte della popolazione è povera, per non dire poverissima, e di fianco a loro, nella grande città di Phnom Penh, si trova il concessionario della Rolls Royce , della Lamborghini, cosi’ come i negozi dei piu’ famosi stilisti di moda italiani e francesi.
E’ stato un viaggio bellissimo, tra passato e presente , tra ricchezza e povertà, che mi ha fatto scoprire un’altra parte di questo nostro piccolo-grande globo sul quale viviamo.
Foto e parole di Sergio Volani
“Cambogia” ha partecipato al Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Quando l’anno scorso ho detto ad amici e conoscenti che sarei andato a fare un Reportage in Armenia, molti di loro mi hanno chiesto perché mai ci andassi ed alcuni mi hanno perfino domandato dove si trovasse.
Meta di viaggio insolita, l’Armenia è un paese bellissimo e ricco di storia, monumenti e paesaggi stupendi; il suo popolo, poi, è ospitale come pochi e pronto ad accogliere il viaggiatore nella semplicità delle proprie case, offrendogli all’occorrenza un sorriso e un caffè.
A livello paesaggistico, ciò che rende riconoscibile l’Armenia sono i numerosi monasteri medievali che costellano gran parte del territorio. Con la loro struttura semplice, sobria e austera, si stagliano su paesaggi visivamente spogli e desolati, spesso sperduti. Di grande interesse artistico per i viaggiatori, rappresentano l’emblema dell’identità armena, intrisa di senso di appartenenza, orgoglio e religiosità.
La religiosità è appunto uno dei capisaldi di questo paese: è noto a tutti quale prezzo abbia dovuto pagare il popolo armeno per abbracciare il cristianesimo come religione ufficiale.
Rappresentativo di questa sofferenza è il fatto che il Monte Ararat, simbolo nazionale del paese e montagna sacra per il popolo armeno, sia geograficamente collocato all’interno del territorio turco, e quindi al di fuori dei confini armeni.
Nonostante il passato difficile e travagliato, però, l’impressione che si ha visitando questo paese è che gli Armeni abbiano saputo mantenere un grande senso di identità e dignità, non facilmente riscontrabile in egual misura presso altri popoli.
A titolo esemplificativo, riporto una notizia letta di recente: a seguito del disastroso terremoto che ha colpito la Turchia, l’Armenia ha deciso di riaprire il confine tra i due paesi, chiuso da ben 30 anni, per inviare aiuti ad Ankara. Questo gesto, più di tante parole, può sicuramente aiutare a comprendere la grandezza del popolo armeno.
India : Il fascino che ti cattura, puoi visitare questo paese 100 volte e rimanere comunque senza parole!
Ogni volta la stessa emozione e ammirazione per un luogo così unico e affascinante. Ti accorgi presto che ciò che per noi è incredibile, diverso o strano per il popolo indiano è invece la normalità e uno stile di vita.
Il fascino dell’ India attraverso gli occhi di un viaggiatore e fotografo sta proprio nel vivere e catturare allo stesso tempo la bellezza e l’unicità di questo Paese. I contrasti così forti e ogni volta una nuova opportunità, sempre con la voglia di raggiungerlo e sicuramente con una diversa maturazione e consapevolezza.
Sei catalizzato e avvolto ogni volta da una strana sensazione che ti accompagna nel viaggio. Respiri la grande devozione e umanità di un popolo dove la ricchezza e il valore delle cose materiali viene vissuto in modo molto diverso e spesso incomprensibile ai nostri occhi.
Emozioni attraverso la luce, le atmosfere, il calore, la spiritualità, la bellezza anche dove c’è niente o poco perché è proprio nelle piccole cose che spesso si rivela il valore più grande.
Ci si rende presto conto che l’importanza sta nell’osservare più che nello scattare. A volte molte immagini non hanno bisogno di essere scattate, restano in noi e aiutano a rafforzare il nostro modo di vedere e documentare. Non ci sono immagini banali o inutili, ma immagini che avremmo potuto documentare diversamente.
In molti reportage in India e nelle migliaia di immagini scattate, spesso prevalgono colore e sentimenti discordanti nel voler rappresentare luoghi, persone e ambienti, ottenendo immagini che non rappresentano esattamente la realtà o ciò che avremmo voluto realizzare.
In questa serie di immagini, riassumendo le tante immagini viste e catturate, ho voluto rappresentare principalmente un’ India dai colori caldi e forti. Accogliente e ricca di emozione e sensorialità, il suo fascino e la sua ricchezza unica e catalizzante. La luce quando aiuta ad immergersi e lasciarsi trasportare e sempre con la voglia di tornare per scoprire e documentare di più.
In realtà è uno di quei luoghi che crea dipendenza, dopo un pò di tempo che non ci vai, senti l’esigenza di tornare ed ogni volta che concludi il viaggio sai che non sarà l’ultimo.
Foto e parole di Luigi Rota
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I segni indelebili dello Tsunami del 2004 e la guerra civile cruenta in Sri Lanka terminata il 18 maggio 2008, distrussero questa terra ed il suo nuovo futuro è iniziato da allora.
Decisi di viaggiare alcuni anni dalla costa nord ovest di Jaffna alla costa sud a wiligama passando per le grandi colline del centro fino a Nuwara Elia, ritraendo le piccole donne tamil raccoglitrici del the.
In questo lavoro ho voluto ricercare le storie e i racconti anche di quel passato, ma provando a vederne la bellezza attraverso la fotografia in bianco e nero.
Un viaggio dalle colline del The di Nuwara Elia alle coste a nord di Mannar distretto settentrionale confinate con il continente Indiano ancora oggi zona militarizzata.
Oggi questa terra ricomincia a vivere ed a convivere (anche se con estrema difficoltà vivendo per il suo 80% di turismo), con quel passato che oggi rimane nelle testimonianze nei volti e nelle storie della gente dello Sri Lanka.
Foto e parole di Maurizio Gjivovich
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La storia di Maurizio Gjivovich qui pubblicata è esposta a Roma fino al 21 febbraio 2024 presso la OTTO Gallery in Piazza Mazzini 27, scala A piano 4.
Quelle che seguono qui sono le foto dell’allestimento:
C’ERA UNA VOLTA IL MARE
Il lago di Aral
Negli ultimi decenni si è consumato un enorme disastro ambientale, quasi sconosciuto, ma forse il più grave; grave perché ampiamente previsto fin dal 1964 da studi appositamente commissionati e ciò nonostante scientemente perseguito.
L’Aral era un grande lago salato, quasi tre volte la Sicilia. Tanto grande da essere chiamato “mare”, il Mar d’atal. Ed era molto pescoso.
Moynak, in Uzbekistan, era un tempo una ridente cittadina sulle rive del Mar d’Aral. Oggi non ride più, perché l’Aral non c’è più. Viveva grazie alla pesca e alla lavorazione del pescato, inscatolato sul posto in una fabbrica i cui prodotti rifornivano tutta l’URSS, di cui faceva parte l’Uzbekistan.
Ma nel secolo scorso l’URSS volle sviluppare l’agricoltura in zone semidesertiche, attingendo le acque d’irrigazione dagli immissari dell’Aral. Si sapeva che l’Aral sarebbe morto, ma si pensava di sfruttare anche le nuove terre emerse per questa coltivazione.
Le acque cominciarono a ritrarsi dal 1960. Nel 2007 il 90% dell’Aral era sparito; la salinità dell’acqua rimasta era decuplicata, rendendo impossibile la vita. La flotta di pescherecci fu abbandonata ad arrugginire sul fondo prosciugato del lago.
La lavorazione del pesce però continuò inscatolando il pescato del Mar Baltico, trasportato in Uzbekistan da migliaia di chilometri, e poi ridistribuito a migliaia di chilometri di distanza. Ma la dissoluzione dell’URSS rese insostenibile questo sistema e la fabbrica fu abbandonata. Lasciando gli abitanti senza risorse: anche l’agricoltura è impossibile, perché le acque dell’Aral, ritirandosi hanno lasciato sul terreno un concentrato di sale, fertilizzanti e pesticidi, con l’aggiunta delle scorie tossiche gettate in acqua da una base militare sovietica, situata in un isola in mezzo all’Aral.
Quando il clima diventa caldo e secco, il che accade molto spesso, il terreno diviene polveroso; il vento porta questa polvere tossica sulla città e i suoi abitanti, ma arriva anche a centinaia di chilometri.
L’unica cosa che cresce sono dei miseri sterpi, buoni solo per le capre e le pecore. Per il resto si vedono uomini e bambini tra le macerie di quella che era la fabbrica del pesce, alla ricerca di rottami ferrosi da vendere per pochi spicci. Non c’è acqua corrente, non ci sono fognature. I bambini che giocano per le strade polverose, sorridendo felici come tutti i bambini, sono l’unica nota di speranza.
Si va in Uzbekistan per vedere la favolosa Samarcanda e le antiche città che costellavano la via della seta. Ma visitare l’Aral, significa visitare qualcosa che non c’è, un non-luogo, un non-mare, pieno di non-acqua e di non-vita. Una distesa di chilometri di conchiglie bianche nel deserto. Non sono le conchiglie fossili che si trovano anche in montagna: sono conchiglie che solo pochi anni fa ospitavano un essere vivente e ora sono li a tappezzare quello che era un fondale.
Intanto le navi fantasma solcano il deserto, guidate da un faro spento che sorge dove non c’è più la costa.
Foto e parole di Roberto Manfredi
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La storia di Roberto Manfredi qui pubblicata è esposta a Roma fino al 21 febbraio 2024 presso la OTTO Gallery in Piazza Mazzini 27, scala A piano 4.
Quelle che seguono qui sono le foto dell’allestimento:
Mi chiamo Narghisa sono una materassaia.
Lavoro in questo edificio da così tanto tempo che oramai lo chiamo casa.
Qua trascorro gran parte della mia giornata e con ago e filo cucio insieme scampoli di stoffa e scampoli di vita.
Le fotografie sbiadite alle pareti raccontano di un tempo lontano, lavoravamo in tanti, oggi sono rimasta solo io.
Scrivo a mano con precisione sul mio quaderno gli ultimi ordini.
A breve il laboratorio sarà venduto, stanno costruendo grandi alberghi, stanno immaginando grandi cose e strumenti piccoli come ago e filo non ce la fanno più a tenere insieme i pezzi della storia.
Non so cosa ci sarà qui domani e se resterà la traccia di un ricordo, quello che so è che tutto ciò che fin ora ho realizzato l’ho fatto con le mie mani.
Foto e parole di Laura Pierangeli
“La materassaia di Bukhara” ha partecipato al Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
C’è un’antica via di ghiaccio che da generazioni apre le porte del mondo al popolo Zanskari, “chadar”. Siamo in Ladakh, regione dell’India racchiusa tra Karakorum e Himalaya ad oltre 3.700 metri di altezza. Qui, per poco più di un mese, tra gennaio e febbraio, il fiume Zanskar diventa percorribile e rompe l’isolamento dell’inverno.
I mercanti di spezie e stoffe hanno aspettato quel momento ogni inverno per secoli… l’attimo in cui oriente e occidente si incontravano sulla Via della Seta. Sembra ancora di vederli, accalcati tra le locande e nelle strade di Leh, avvolti nei profumi e il vociare dell’antica capitale.
È un cammino incantato e terribile, tra gole profonde, crepacci, dirupi ma anche colori inattesi e cascate di ghiaccio. Avanti, un passo dopo l’altro, nel vento gelido, ho imparato ad ascoltare con rispetto la voce del ghiaccio sotto gli scarponi.
La macchina fotografica per rubare almeno un po’ di quella meraviglia che riempie gli occhi, per cristallizzare i gesti rituali delle guide che si ripetono da secoli: la preparazione delle slitte, l’allestimento delle grotte per i bivacchi, i canti tradizionali che accompagnano in ogni momento della giornata.
Tre giorni di cammino che diventano un viaggio nel tempo verso il monastero di Karsha Gompa, circondato dal suo villaggio, dove il potente suono della Sankha, la tromba conchiglia, richiama i monaci per l’inizio della Puja, la celebrazione del Risveglio del Buddha.
L’antico monastero del X secolo è uno scrigno di storia e spiritualità, ma anche di arte con i suoi straordinari dipinti murali.
Il tesoro più prezioso di Karsha Gompa è, però, la luce nello sguardo dei monaci e del popolo Zanskari… il mio pretesto per tornare a casa è stato quello di poter raccontare quella luce con queste foto.
Foto e parole di Christian Giudice
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I ricordi fanno rumore: le voci, suoni di passanti, risa dei bambini o del vento che insinua ovunque la sabbia divenuta respiro.
Un andare e venire nel mobile sguardo che tutto vuole accogliere e di cui non ha mai abbastanza: orizzonti leggermente frastagliati, cespugli di faticoso verde, vette miti accerchiate d’intenso arancio, morbide dune che dividono lo spazio con l’azzurro liquido, divorato dal verso dei gabbiani.
E il cielo, il grande cielo azzurro o disseminato di nastri di nuvole a raccogliere ombre.
La luce disegna e definisce luoghi, sguardi, intenzioni, pietre, mura policrome sbrecciate incomplete antiche e nuove, uomini e animali, donne e passi frettolosi, bambini e la curiosità del divenire, in un frammento costante pieno di vita.
Quando poi al buio, tutto diventa uno, custodito dal silenzio delle stelle.
Foto di Roberto Malagoli, parole di Lisanna Pina
“Mauritania” è il SECONDO CLASSIFICATO di Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Si tratta di un’ antica lotta indiana chiamata “kushti”.
Ho cercato di raccontare l’intimità e lo svolgersi delle loro giornate/quotidianità
Giovani bambini, spesso di famiglie povere, o salvati dalla vita di strada, vengono assorbiti nella scuola palestra-monastero chiamata akhara già in tenera età, iniziando un percorso di duro allenamento fisico e mentale.
Al rigoroso allenamento si uniscono le fondamentali regole religiose che educano i ragazzi. Tra queste niente sesso, niente alcol, poca vita sociale e rigorosa preghiera alle prime ore del mattino e durante la giornata.
Combattono nella Sacra terra di argilla rossa, chiamati “Akhada”.
L’obiettivo è concentrarsi su uno stile di vita puro per costruire forza mentale e fisica: la debolezza sarà debellata, forza e virilità restituiti all’ uomo, l’orgoglio della nazione restaurato.
La kushti tradizionale sta vivendo un periodo di profonda crisi perdendo il contatto con la terra rossa sostituita da materassini e perdendo la filosofia che la caratterizza a causa di un processo di modernizzazione sociale che tende a svalutare l’aspetto spirituale e rendendo lo spazio/scuola più sicuro e lontano da vecchie pratiche e regole religiose.
I bambini spesso vengono presi dalla strada, orfani e soli. Oppure figli di famiglie povere, quelli piu forti verranno accolti nella scuola. Qui però non riceveranno istruzione scolastica. Se non otterranno titoli e premi nella lotta verranno allontanati e si ritroveranno soli, senza cultura, senza saper leggere. Senza amici e senza saper dare una carezza alla vita, saranno facilmente assorbiti nel crimine!
Da quasi 10 anni viaggio per il mondo alla ricerca di tutte quelle popolazioni e minoranze etniche poco conosciute, spesso invisibili alla nostra società, che ancora sopravvivono alla globalizzazione cercando di mantenere vive le loro caratteristiche tradizioni ancestrali.
Al largo delle coste di Filippine, Malesia ed Indonesia vivono i Bajau,popoli indigeni, nomadi e apolidi conosciuti anche come zingari del mare.
Diffidenti, perché abituati a vivere isolati, sono spesso trattati con indifferenza o denunciati perché considerati immigrati illegali sulla terraferma, infatti non sono riconosciuti da nessuno Stato e non hanno alcun diritto fondamentale.
In passato si muovevano liberamente nei mari del Sud-est asiatico mentre oggi sono più stanziali, ma ancora vivono strettamente legati al mare in piccole palafitte di legno costruite sull’acqua bassa o in barche chiamate “lepas”, lontani dalla terraferma e la sua società.
Hanno una conoscenza dell’Oceano senza eguali e la loro vita trascorre lenta, scandita dai ritmi delle maree.
Esperti apneisti, imparano a nuotare appena nati; la pesca e la raccolta di conchiglie e crostacei rappresentano la fonte principale di sostentamento dei Bajau, che raggiungono la costa solamente per commerciare i loro prodotti o per ripararsi dalle forti tempeste.
Salis, un pescatore Bajau, mi ha introdotto nella sua comunità facendo da interprete e permettendomi di fotografare il loro stile di vita e le loro abitudini. Mi ha raccontato che ha provato a trasferirsi sulla terraferma per lavorare in città, ma dopo qualche mese, il richiamo nostalgico del mare è stato troppo forte ed è tornato a vivere nella sua palafitta, scappando dalla routine e dalla quotidianità di una vita stanziale.
L’inasprimento dei controlli, la graduale diminuzione della fauna marina e le restrizioni ai loro movimenti stanno mettendo a rischio la sopravvivenza dei Bajau, ma trasferirsi sulla terraferma e abbandonare il loro stile di vita non è ancora un’opzione contemplata.
Foto di Jacopo Della Valle, parole di Anita Palma
“Waterworld” E’ IL VINCITORE ASSOLUTO di Travel Tales Award 2023. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Balance in the confusion – Mi sono trovato spesso a chiedermi come sia viaggiare in India per la prima volta. Io la mia opportunità non l’ho mai avuta. Sono figlio di un viaggiatore che ha fatto dell’India la sua meta preferita, perciò i tantissimi racconti di questo luogo non mi hanno permesso di viverla questa “prima volta “.
Posso però mostrare come vivo interiormente i miei diversi viaggi in questa terra.
Il titolo del progetto lo racconta brevemente e il mio vissuto lo trasforma in quelle che sono le mie personali sensazioni, quando entro in questo luogo che per me è magico.
All’interno di un mondo confusionario fatto di suoni, rumori, occhi grandi di bambini che sorridono e altri che ti “squadrano”. Fatto di oscurità e colore, di profumi e odori forti, di commercianti e mendicanti, e di fede.
In mezzo a tutta questa apparente confusione io trovo la mia pace, il mio equilibrio, un mondo rallentato che mi permette di osservare dentro ad ogni persona che inquadro e mette tutto al suo posto regalandomi quel senso di magia che provo ogni volta che sono qui.
Foto e parole di Giulio Cesare Grandi
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Islanda. In nessun luogo al mondo come su quest’isola all’estremo nord dell’Europa ci si sente al limite tra due opposti, come se camminassimo lungo una linea sottile tracciata tra due diversi universi.
Siamo in Islanda, che già di per sé non è un’unica isola, come superficialmente appare se ci limitiamo ad osservare la mappa. Qui affiorano e si incontrano due diverse placche tettoniche. La cosa fa sì, ad esempio, che un giorno calpesti suolo europeo, mentre un altro sei già in America.
Qui, lingue di ghiaccio che nascono dalle montagne dell’interno finiscono la loro corsa gettandosi in acque scaldate dalla Corrente del Golfo. All’interno, intanto, getti di vapore bollente fuoriescono impetuosi dalla neve.
Guidi nelle aree densamente popolate della costa, ma poco dopo ti trovi ad attraversare territori completamente deserti per centinaia di chilometri, pietraie nere che non ospitano da millenni neanche le forme di vita più elementari.
Tutto qui sembra essere al crocevia tra universi opposti.
Porticcioli, barche da pesca, marinai abituati a prendere il largo incuranti di ogni meteo. Anche qui, mi chiedo se le scene a cui assito appartengono al presente o se non siano piuttosto ricordi, dejà vu di un passato a lungo sognato, fatto di terre estreme e avventure immaginate.
E’ un mondo a colori, come nel mirino della mia reflex, o soltanto monocromatico, come se lo vedessi sul vetro smerigliato di una vecchia macchina a lastre?
Tutto è come camminare lungo una linea sottile. Un po’ di qua, un po’ di là
Foto e parole di Aldo Frezza
Questa storia ha partecipato a Travel Tales Award 2022. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Sana’a è ancora la bellissima Venezia d’Oriente dei miei ricordi del viaggio di alcuni anni or sono.
Pochi i kalashnikov a tracolla. Restano i jambiya, i pugnaloni ricurvi portati nella fascia attorno ai fianchi da tutti i maschi yemeniti, le case deliziose di mattoni color ocra, gli archi delle porte e delle terrazze, le decorazioni di gesso che contornano le finestre, i vetri dai tanti colori. Una fantasia irrefrenabile di ricami che salgono nelle facciate, nei vicoli, nelle piazzette e nei giardini con palme e alberi da frutto.
Lo sguardo si sofferma inebriato dal bellissimo e umano disordine.
Partiamo subito per i monti dell’Harazz, in un susseguirsi di piccoli villaggi arroccati sui pendii. Sembrano fortificati come quelli del nostro Medioevo. Da ogni cocuzzolo i castelli turriti dominano le larghe terrazze coltivate. Quasi tutte ad alberelli di qat, delle cui foglioline gli yemeniti vanno matti.
Ecco le belle case in pietra rosata di Thilla, distesa sul pendio. Nel suo negozietto ritrovo la giovane donna di un viaggio precedente, che non portava il velo e che mi aveva assicurato con forza che lei non lo avrebbe mai messo.
Mi mostra orgogliosa il suo volto, con un sorriso allegro. Anche le donne yemenite possono avere un simbolo di libertà! Le faccio i miei complimenti, ricordandole l’incontro di sei anni prima. Mi aggiro nel suo negozio pieno di oggetti interessanti. Compro una specie di cuore di alabastro trasparente, intarsiato con curiose scritte in ebraico. Non sono convinto che sia antico, ma mi sembra molto bello e misterioso.
Nello Yemen erano molti gli ebrei, spesso artigiani bravissimi a lavorare anche l’argento e considerati veri maestri nel cesellare i più preziosi jambiya.
Foto e parole di Francesco Carmignoto
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Israele non è un Paese qualunque.
Israele è un concentrato di emozioni, contraddizioni, stati d’animo, profumi. L’arrivo a Tel Aviv si presenta come un’odissea di controlli meticolosi, lunghi ed estenuanti. Poi esci dal terminal e ti ritrovi proiettato in una città giovane, eccentrica, di tendenza.
Tel Aviv non dorme mai quasi a sembrare l’oblio dei giovani israeliani, che vogliono lasciarsi alle spalle le complessità della vita quotidiana.
Poi Gerusalemme.
Qui potrei scrivere un libro, come d’altra parte potrei non scrivere nulla. Gerusalemme è una città impossibile da raccontare, puoi solo farti guidare da emozioni e sensazioni.
La città vecchia intanto; dentro le antiche mura è bellissima, i colori chiari e tenui, il suq pieno di gente, avvolta dai colori della frutta, dal profumo di pane fresco, e spezie. Tutt’intorno le chiese, i minareti, contornate da vicoli che formano un labirinto quasi senza fine.
La città è divisa in quattro quartieri: il quartiere musulmano, ebraico, cristiano e armeno. In ognuno di questi settori, si percepiscono, si vedono, si toccano le singole diversità e differenze. In ogni spazio si delineano tutte le icone delle singole religioni monoteiste: il Muro del Pianto, la Chiesa del Santo Sepolcro, la Spianata delle Moschee.
Camminando in questi luoghi sacri, si avverte tutta la carica emotiva, tutte le tensioni, e quella strana energia, che deriva dalla convivenza in spazi decisamente compressi. A fine giornata senti il cuore, la testa e l’anima che chiedono a gran voce un po’ di riposo. Con gli occhi di medico e la mia grande passione per la fotografia, ho cercato di catturare ogni mia singola emozione in uno scatto. Gerusalemme è respirare emozioni con l’anima.
Un semplice tramonto si trasforma in una luce sensoriale, l’alba ti travolge di spiritualità interiore. La fotografia è lo specchio di un’interpretazione emotiva soggettiva, personale. E’ in grado di sviluppare quella chimica cellulare che accende la comunicazione sensoriale di chi osserva. A Gerusalemme tutto ciò è possibile.
Foto e parole di Milena Masini
Questa storia ha partecipato a Travel Tales Award 2022. Clicca sul link per partecipare anche tu alla nuova edizione.
Un viaggio in Tunisia per raccontare “Il Maghreb Dimenticato”. Un progetto per diffondere e far conoscere le popolazioni Berbere del Nord-Africa. Il progetto costituisce un’occasione di riflessione sulla civiltà mediterranea, sui caratteri di parentela e non di antagonismo tra popolazioni che rappresentano la cultura millenaria del Maghreb, e che concorrono alla creazione della nostra storia comune fin dall’alba dei tempi.
Le aree montuose del Dahar, nel sud desertico della Tunisia, sono caratterizzate da paesaggi di monti aridi e rocciosi stagliati da erosioni di milioni di anni. Qui sorgono villaggi abitati da tempi immemori da popolazioni che noi genericamente chiamiamo “Berberi” o Imazighen (uomini liberi), come essi preferiscono definirsi.
Usi e costumi di antica memoria sono stati mantenuti e tramandati e costituiscono quell’ “essenza Berbera” che aveva affascinato lo storiografo tunisino Ibn Khaldoun che nel XIV secolo ne raccontò storia e gesta.
Il viaggio è l’occasione per entrare in contatto con lo stile di vita delle comunità di questi villaggi dove il tempo scorre lento tra paesaggi evocativi ed emozionanti. Tradizioni secolari scandiscono la vita quotidiana, gestita soprattutto dalle donne.
Ancora vestite con abbigliamenti lontani dal XXI secolo svolgono tutti i lavori più pesanti, in casa come nei campi. Le antiche fibule utilizzate per l’abbigliamento e i tatuaggi marcano un’identità che difficilmente si potrà tramandare. Per fotografare non bisogna essere invadenti. E’ necessario stabilire un contatto in modo da poter condividere momenti importanti della quotidianità e così osservare attività legate alle tradizioni locali. Ho anche la fortuna di assistere ad una “Fantasia”; straordinaria esibizione equestre di antica tradizione, sfrenata corsa di cavalli in cui viene simulato un attacco armato.
Qui il turismo di massa non è mai arrivato e le primavere arabe hanno solo contribuito ad accentuare l’isolamento di questi luoghi. Villaggi celati nel paesaggio come Chenini, Douiret, Guermessa, Matmata, Tamerza punteggiano un territorio di desertica grandiosità con architetture caratterizzate dalla presenza di cittadelle abbarbicate sulle rocce o sorprendenti abitazioni trogloditiche scavate nella terra.
La miscela tra nomadismo, agricoltura e sedentarizzazione è il vero fondamento su cui si basava la creazione degli Ksour: castelli con la funzione di granai. All’interno, ogni famiglia possedeva, e la pratica era in vigore fino a pochi anni fa, il suo ghorfa, una celletta di stoccaggio dei generi di prima necessitò (olio d’oliva, cereali).
Alcuni di questi granai fortificati, come Ksar Ouled Sultane, possono essere considerati veri e propri capolavori architettonici. Ksar Metameur, Ksar Hallouf, Ksar Haddada, Ksar Mrabtine, Ksar El Ferch, Ksar Gattoufa, Ksar Kedim, Ksar Ouled Debab, Ksar Ouled Sultane…, come una litania di santi ogni spuntone roccioso o avamposto di pianura conserva uno ksar o i ruderi di quello che un tempo lo era. Ne esistono più di 150, molti avvolti solo dal silenzio dell’abbandono, ma tutti degni di uno sguardo che però il tempo non può assicurare.
Foto e parole di Luigi Vigliotti
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Isole Lofoten – Il termine “arcipelago” a me, e penso a molti altri, suggerisce infallibilmente la visione di spiagge tropicali che scendono in acque cristalline, costellate da palme inclinate che si protendono verso il mare.
-Dove vai? -Alle isole Lofoten -Che bello! Non prendere troppo sole!
Raccomandazione nemmeno troppo stupida, perché alle Lofoten, per tutto il mese di giugno, ci sono 24 ore di sole al giorno. Sì, perché le Lofoten si trovano all’interno del circolo polare artico, dove, all’inizio dell’estate, si può vedere il sole di mezzanotte.
-Vai in marzo? Chissà che freddo!
-Davvero! Pensa che a Svolvær (che per inciso è la più antica città del circolo polare artico) la temperatura minima di marzo è in media di ben due gradi sotto zero! Ma non c’entra il riscaldamento globale: grazie alla Corrente del Golfo le Lofoten hanno la più grande anomalia di temperatura positiva al mondo rispetto alla latitudine. L’Islanda, ad esempio, si trova più a sud ma è molto più fredda!
E grazie a queste singolarità che le Lofoten ci offrono qualcosa di unico, senza chiederci di morire di freddo. Paesaggi artici davvero singolari, dove si possono ammirare montagne innevate che si gettano nel mare, fiordi che si inoltrano nell’entroterra al punto che risulta difficile capire se si sta guardando il mare o un lago, vedute decorate da piccole città e dalle onnipresenti “rorbu”, le caratteristiche abitazioni su palafitte, sempre dipinte di rosso pompeiano.
Ma le Lofoten non sarebbero magiche come sono se non ci fosse la dama verde. Le aurore boreali. Che qui si possono osservare in una situazione geoclimatica pressoché ideale. Arrivano quando vogliono, si offrono, danzano, danno al paesaggio, già fiabesco di suo, un pizzico di magia. E poi se ne vanno, lasciandoci senza fiato.
Foto e parole di Roberto Manfredi
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Due cose colpiscono viaggiando in Myanmar: l’intensa attività di costruzione, mantenimento e allargamento della rete stradale e il fatto che gli aspetti più faticosi di questa attività vengano svolti per la maggior parte da manodopera di genere femminile.
Le donne in Myanmar hanno un grado di indipendenza e autonomia relativamente maggiore rispetto ad altri paesi asiatici. Il sistema educativo però le penalizza, le posizioni di responsabilità sono precluse e conseguentemente a esse sono affidati i lavori più faticosi e di minor valore.
La costruzione delle strade è un esempio immediato di tutto ciò. L’attività è piuttosto semplice, sulla terra viene disposto un letto di sassi e successivamente passato il catrame.
Il lavoro di raccolta e trasporto di grandi pietre, la loro successiva rottura in sassi più piccoli, il trasporto e il posizionamento finale di quest’ultimi sono tutti demandati al genere femminile.
Gli uomini si occupano solo della guida degli automezzi, del fuoco che scioglie il catrame e del versamento del catrame stesso sui sassi. Tutte attività che comportano molto più pause di quelle svolte dalle donne.
Questo tipo di cantieri si trova spesso su qualsiasi strada si faccia; già poche foto testimoniano quanto descritto e spiegano più di molte parole.
Foto e parole di Maurizio Trifilidis
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In Madagascar, la città di Ambatolampy è rinomata per i suoi manufatti in alluminio. I turisti vengono portati lì da compagnie di viaggio per acquistare bellissimi oggetti in alluminio lucido.
Possono entrare nelle manifatture e osservare la gente del posto al lavoro. Giovani uomini e adolescenti si guadagnano da vivere fondendo vecchie parti metalliche, da qui il nome “aluminium slaves”. I pezzi vengono raccolti in tutto il paese e portati in questa città.
Come ovunque in Madagascar, le persone usano il carbone per accendere fuochi. Qui lo usano per fondere il metallo, una volta smontati i blocchi motore o le barriere metalliche. Mettono le parti metalliche in pentole sterili e le fondono. Quindi portano le pentole con il metallo fuso nelle case con tetto e lo versano negli stampi che hanno preparato in precedenza, con argilla, sabbia e legno.
Non ci sono precauzioni di sicurezza: gli uomini maneggiano le pentole di alluminio liquido a mani nude. Versano il liquido in forme semplici accanto ai loro piedi nudi. Per tutto il giorno respirano la polvere e l’inquinamento, dalla prima infanzia in poi. Alla fine della giornata, l’elettricità viene interrotta afferrando il cavo nudo dal contatto.
Le manifatture sono presentate come una forma di lavoro romantica e vecchio stile, ma è una vita molto dura. E la gente continua a sorridere.
Sono dovuto andare in Madagascar per una conferenza sulla biologia della conservazione. Ho trascorso un mese viaggiando e cercando di capire le dinamiche di un paese con una distruzione devastante. Con questa serie voglio documentare la vita di questi lavoratori che ho visitato due volte durante il mio soggiorno in Madagascar nell’agosto 2019.
Foto e parole di Pia Parolin
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La Pasqua è la festività più sacra di tutto l’anno per il mondo ortodosso, ed anche in Grecia è particolarmente sentita. Sull’isola di Karpathos, nel piccolo villaggio di Olympos, abbarbicato sulle montagne a nord dell’isola, si svolgono ancora i riti pasquali legati alle tradizioni bizantine.
La festa coinvolge tutti gli abitanti del piccolo paesino, ed inizia il venerdì santo (Megali Paraskevi) , quando donne e bambini portano in chiesa fiori per decorare l’Epitaffio, bara simbolica di Cristo , sulla quale vengono anche appese foto dei defunti nell’ultimo anno . Alla sera, l’Epitaffio viene portato in processione nelle viuzze del paese, fermandosi nelle case per la recita di preghiere.
Il sabato è la giornata dedicata alla preparazione del pranzo pasquale. Le donne fanno il pane negli antichi forni e viene messa a cuocere la capra, piatto tipico di questa festa. Alla sera inizia il rito pasquale che si prolunga per ore, in una chiesa gremita di gente.
Le celebrazioni terminano il martedì con la processione delle icone attraverso il paese fino al piccolo cimitero e poi in giro per i sentieri fermandosi nelle piccole chiesette disseminate ovunque nella vallata circostante.
Foto e testo di Sergio Volani
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Il mio lavoro fotografico è costantemente ispirato dall’arte e dall’architettura che mi circonda nella mia città natale Roma, e dalla diversità di coloro che la frequentano. La collezione di immagini “The homage and the hero” è realizzata con un senso di profonda gratitudine per l’unicità e la bellezza di ciò che abbiamo intorno e per la possibilità di poterne usufruire. In questa collezione racconto l’apprezzamento per il lavoro che altri hanno svolto nel creare tale bellezza nella opposta relazione tra l’omaggio e l’eroe.
Da un lato la vita erratica e vulnerabile dell’eroe dello scatto, “the hero”. Si tratta di colui o colei che sta vivendo quel luogo, che ne definisce lo spazio, il protagonista dell’immagine. Ha colto la mia attenzione, passa di li per caso o che magari viene dal lato opposto della terra per visitare la città e la sua architettura anche solo per una volta. Mostra meraviglia e stupore per l’unicità di ciò che vede.
Dall’altro vi è invece l’elemento architettonico, “the homage”, ovvero il dono lasciato da coloro che ci hanno preceduti. Spesso origine di dolori e sofferenze, di punizioni e sacrifici. L’omaggio è li affinché si possa ammirarlo ed usufruirne, dargli un senso. Di opposta natura rispetto all’eroe, perché permanente e costante nel tempo, è spesso lì da secoli.
L’omaggio e l’eroe alla fine tornano insieme, in una danza comune, si fondono nella moltitudine di scatti sovrapposti che sintetizzano tutto il lavoro fatto sul luogo delle riprese. le immagini, una sull’altra, enfatizzano l’intenzione comune dell’omaggio e dell’eroe di stare insieme, di onorare il regalo ricevuto dando scopo alla reciproca presenza. l’obiettivo finale, ambizioso, è di convogliare i due protagonisti in un unico elemento dinamico, dando loro forza e finalità, ritrovando il movimento che si era perso nelle singole immagini.
Le immagini, una sull’altra, enfatizzano l’intenzione comune dell’omaggio e dell’eroe di stare insieme, di onorare il regalo ricevuto dando scopo alla reciproca presenza.
Nata e cresciuta nella città eterna, ad eccezione di quattro anni passati a New York per favorire la crescita personale, Nelly attualmente vive a Roma. Inizia ad interessarsi in maniera costante alla fotografia, a scattare con regolarità e ad approfondirne le conoscenze nel 2013, ma è solo a fine 2019 che propone il suo lavoro al pubblico partecipando al “Wave market fair” a Roma.
Da autodidatta in ripresa, post produzione e stampa di fotografia digitale, usa frequentemente altre metodologie per fotografare sperimentando continuamente modalità diverse dalle regole canoniche. L’obiettivo finale è quello di provocare i limiti imposti dalla fotografia sull’incapacità di riprodurre il senso del movimento. La fotografia è un mezzo di comunicazione letargico e statico; lei utilizza spesso multiple esposizioni o altri sistemi di ripresa non convenzionali (quali l’uso di obiettivi basculanti o vintage e a fuoco manuale) per enfatizzare il movimento anziché documentare la nuda e cruda realtà.
Il suo obiettivo finale è portare l’osservatore lontano dalle difficoltà quotidiane, far si che lo stesso possa condurre il proprio pensiero distaccandosene temporaneamente. Avendo a disposizione solo una parte del messaggio, l’osservatore, per mezzo del suo vissuto, aspirazioni e immaginario ne completa e personalizza l’interpretazione; se questi si lascia andare all’istinto e alla sua voce interiore.
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Le campane hanno avuto nei secoli un funzione pubblica, civica e religiosa, trasmettendo messaggi e acquisendo un valore simbolico.
Le campane venivano e vengono tutt’ora usate anche nei rituali magici: per scacciare gli spiriti malevoli e allontanare i temporali o per attirare gli Angeli.
Oltre a scandire il trascorrere del tempo e costituire un richiamo liturgico, svolgono da sempre la funzione di comunicare al popolo situazioni di pericolo imminente, gioie, dolori e lutti.
Utilizzate nei rituali religiosi di Occidente e Oriente, con il loro suono, dolce e potente allo stesso tempo, attirano a sé gli uomini e segnano un sacro legame fra l’Uomo e il Divino.
In Italia sono poche le fonderie di campane rimaste ma è ad Agnone, piccolo borgo dell’Alto Molise, conosciuto anche come il “paese delle campane”, che nasce la voce degli Angeli.
Qui infatti si trova la più antica fonderia in Italia, la Pontificia Fonderia Marinelli, dove i segreti e le tecniche di questo antichissimo mestiere sono tramandati da padre in figlio. Una tradizione che perdura da oltre 1000 anni, oggi portata avanti dai fratelli Armando e Pasquale Marinelli.
In questa antica fonderia di famiglia si realizzano campane e sculture bronzee a mano utilizzando la tecnica della “cera persa” già conosciuta dai fonditori medievali e rinascimentali.
Le campane quindi non sono fatte in serie ma ogni pezzo viene realizzato a mano su commissione da chiese, governi, imprese e organizzazioni e le sue campane si possono trovare in tutto il mondo.
Molte delle campane realizzate dalla fonderia si trovano in Vaticano. La fonderia ha anche ottenuto il diritto e l’onore, conferitole da Papa Pio XI nel 1924, di effigiarsi dello Stemma Pontificio.
Fabbricare una campana è una vera opera d’arte e la sua realizzazione è una esperienza di notevole impatto emotivo.
Il materiale utilizzato è il bronzo, una lega di rame e stagno che nel caso delle opere artistiche della fonderia Marinelli è di qualità purissima. Per l’intero processo si va dai tre mesi per le campane più piccole fino a un anno per quelle più complesse.
Si parte dalla costruzione di una forma costituita dall’Anima, che corrisponde all’interno della campana e viene realizzata in mattoni, lasciando la parte interna cava e un foro nella parte alta e viene ricoperta da un primo strato argilla.
Si procede con la Falsa campana, ovvero l’anima viene ricoperta con ulteriori strati di argilla speciale, sino ad ottenere una superficie levigata. Questa avrà esattamente lo spessore voluto per la campana. Su questa vengono applicate le cere con le iscrizioni dedicatorie, le immagini ed i fregi artistici.
Infine si fora il Mantello applicando sulla falsa campana altri strati di argilla sino allo spessore desiderato.
La forma così completata si riscalda con la tecnica della “cera persa”, ovvero viene acceso il fuoco all’interno dell’anima per far sì che la cera si sciolga col calore lasciando impressa in negativo, all’interno del mantello, la composizione artistica.
A questo punto si solleva il mantello, si distrugge la falsa campana e lo si ricolloca sull’anima.
Il modello è ora interrato nel fosso di colata dove avviene la fusione a circa 1150°C. Il bronzo liquefatto viene versato nelle singole forme riempendo lo spazio libero creatosi tra l’Anima e il Mantello.
La fusione è un processo che non può permettersi il minimo errore pena la cattiva riuscita del lavoro. Ha sempre una componente quasi mistica e delicata e come tale genera apprensione e va benedetta. Spesso questo viene fatto alla presenza di un sacerdote che accompagna con litanie e preghiere il culmine di tale fase produttiva.
Solo dopo svariato tempo si potranno rompere le forme per vedere il risultato. Il metallo deve raffreddare poco a poco e senza sbalzi di temperatura. Dal suo raffreddamento può cambiare la “voce” della campana.
Ma la campana non è ancora terminata. Appena liberata del suo involucro, deve essere pulita: i bassorilievi vanno puliti con spazzole d’acciaio e poi a colpi di scalpello e di lima.
Si tratta di un lungo e paziente lavoro affidato alle mani esperte di maestri artigiani. L’interno deve alla fine essere riguardato e vi si deve attaccare il battaglio.
Per constatare inoltre che la campana sia perfettamente funzionante e non incrinata, vengono convocati degli esperti che con un diapason verificano il livello di tonalità della campana. Visitare la fonderia è un’esperienza unica.
Foto e parole di Lia Dondini Taddei
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Viaggio spesso in Germania e mi piace perdermi nelle strade andando incontro alla gente.
In questo Paese le città e le persone hanno la fama di essere rigorose e grigie, ma all’osservazione dei fatti, mi sembra davvero uno stereotipo non sostenibile.
In realtà c’è tanto colore in tutto e in tutti e in questo lavoro mi è piaciuto riscoprirlo per esorcizzare in questo momento storico il vero grigio che c’è nei nostri cuori.
La pandemia, le guerre, i disastri ecologici chiudono i nostri animi in scure prigioni e forse i colori ci aiuteranno a trovare nuove risorse impensate nelle differenze,
nell’amicizia, nelle reti costruttive positive, perché possiamo ancora sperare in un futuro multicolor, multietnico e vivibile.
Foto e testo di Francesca Romana Semerano
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Si definiscono «minatori freelance». Vivono con pochi ricavi dopo aver rivoltato, setacciato, e scavato nella terra rossa cambogiana alla ricerca di zirconi azzurri, pietre preziose destinate al mercato locale e internazionale.
La regione di Ratanakiri, nel nord est della Cambogia, è conosciuta per le gemme che la sua terra rossa nasconde nel ventre. Nel villaggio di Bar Kaev, abbandonata la strada maestra che porta verso il Vietnam, ci si addentra in una superficie che una volta ospitava la foresta. Lungo il sentiero che la attraversa compaiono qua e là decine di profondi buchi neri.
Ogni buco è una cicatrice lasciata da una miniera di zirconi abbandonata: quelle in funzione si riconoscono subito dal telo teso che le ombreggia. Non siamo in una grande miniera a cielo aperto dove migliaia di uomini formiche lavorano come formiche per estrarre le pietre preziose; qui le miniere sono a conduzione familiare, aperture larghe a sufficienza per farci infilare un uomo e profonde più di dieci metri.
Non ci sono scale per salire e scendere laggiù. Si sfrutta solo la forza delle braccia e delle gambe per entrare e uscire dalla pancia della terra. La squadra è composta da due persone, che ciclicamente si alternano. Uno scava e l’altro si mette all’argano mentre l’altro in fondo al pozzo, lavorando sempre in ginocchio riempie i secchi e li aggancia uno dopo l’altro alla corda che li porterà in superficie.
Metà della giornata la si trascorre in superficie e l’altra metà nel sottosuolo, queste sono le proporzioni, la fatica è equivalente e condivisa a metà, come diviso è il ricavo frutto del sudore di giornata.
La speranza di buona sorte nutre la smania del cercatore ma la perseveranza appaga la necessità di garantire alle proprie famiglie che vivono in capanne vicino alla miniera, un guadagno medio giornaliero decente di circa 15 dollari.
Foto e testo di Lello Fargione
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Un lungo viaggio in famiglia negli Usa, dopo aver trascorso l’anno prima in Vietnam, in compagnia di moglie e figli.
Scettico della meta americana, ma pressato da molti (papà ce lo devi, non possiamo solo fare trekking e girare per villaggi sperduti, vogliamo andare negli stati uniti) mi sono sentito in dovere di proporre alternativa ai miei amati viaggi.
In preda a due adolescenti curiosi ed euforici di vedere le grandi metropoli americane, eccoci a New York City. Da lì, con i famosi megabus alla volta di Philly e Washington per poi dirigerci con un auto a nolo x miglia e miglia attraverso New Jersey, Delaware, Virginia, North Carolina e South Carolina, alla scoperta della middle america on holiday.
Pick up stracarichi, con al seguito barche, grill….insomma, mi sono dovuto ricredere.
Una Vacanza all’insegna del Big is Better…Risvegli felici, seduto fuori da un motel ad osservare l’americano in vacanza. Fantastico!
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La voglia di fotografare nasce spontaneamente nella prima infanzia vissuta tra le Rhodope Mountains. Vado per la mia strada, cercando di trasformare un frammento di tempo in eternità attraverso le mie fotografie.
Negli ultimi dodici anni ho viaggiato molto in giro per le Rhodope Mountains, nella mia Bulgaria. Una montagna di una bellezza unica, ricca di passato e piena di misticismo e misteri. Le Rhodope Mountains sono vaste e non basterebbe una vita per vedere tutto quello che offrono.
Qui ho incontrato persone quasi centenarie, che portano dentro di sé un’intera epoca, un tesoro prezioso. In questo lavoro ho voluto raccontare momenti di vita della gente che vive nei piccoli villaggi di queste montagne.
Ho raccontato di Emine, nel Villaggio di Krestava, che tratta la sua mucca come un’amica portandola ogni mattina al più vicino abbeveratoio. Del vecchio pastore Ali, nel Villaggio di Smolevo, che da giovane allevava milleduecento pecore ed ora ne ha solo una ventina di cui si prende cura.
Alla fine di maggio, nella parte occidentale dei Monti Rodopi, inizia la tosatura delle pecore ed Ali è così abile col suo vecchio paio di forbici che sono riuscito a malapena a scattagli una foto. Altro aspetto importante nel raccontare la quotidianità di questi villaggi è l’importante attività legata alla raccolta ed essiccazione del tabacco, utilizzato poi per fare le sigarette e guadagnare qualcosa da vivere, come Abidim, del mio amato villaggio di Ribnovo, che tira giù il tabacco essiccato per fare spazio al nuovo.
Infine non possono mancare le persone dei villaggi durante vari tipi di eventi, come i festeggiamenti per la tradizionale “Syunet” (circoncisione dei ragazzi) sempre nel piccolo villaggio di Ribnovo, o i matrimoni nel centro del paese in cui la gente esce per divertirsi e curiosare.
Sempre qui si svolgono le partite di “grease wrestling” (sport tradizionale turco). I concorrenti si spalmano olio sul corpo per rendere i combattimenti più difficili e interessanti. I vincitori delle categorie leggere ricevono come premio un percorso con un coach, e nelle categorie pesanti il migliore vince un vitello.
Foto e parole di Miroslav Mominski
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Poche zone sulla Terra riuniscono una così straordinaria quantità di motivi d’interesse. È una regione di difficile accesso, dal clima estremo, dove si raggiungono le temperature più alte del pianeta. Per secoli l’unico collegamento con il resto del mondo è avvenuto attraverso le carovane di dromedari che trasportavano blocchi di sale sull’altopiano etiopico. Ancora fanno da cornice ad una regione dalle mille sfumature. Nel percorrere il tragitto delle carovane attraversando Il Fiume Saba ho voluto mettere in evidenza le sfumature e le forti emozioni che hanno lasciato in me una traccia indelebile.
Uomini che alle prime luci del mattino sono pronti ad accingere il loro cammino e nelle luci del giorno la loro tenacia, allegria e socievolezza scalpisce la loro fatica. Nel caldo riposo del sole sfrecciano come lance con le lunghe file di Dromedari al loro seguito per proteggersi dal caldo torrido del giorno.
Uomini dalla pelle dura ma con sguardi che lasciano trasparire la loro fragile timidezza, celata dalla forza che imprimono sui sassi di sale della Piana del Sale e nei passi lenti ma ritmati del loro cammino.
Uomini di etnie diverse ( Musulmani e cristiani) lavorano insieme, condividono abilità e capacità. Hanno bisogno gli uni degli altri per vivere e per conservare un’identità e una tradizione che resiste da millenni. In un paese dove niente fa pensare a un equilibrio, musulmani e cristiani riescono a convivere con un obiettivo comune: il commercio del sale, che da tempi immemorabili fa vivere migliaia di famiglie.
” Le carovane di Sale, una vita in cammino, di sudore, di sete e stanchezza. A volte la sosta in un oasi. Le carovane restano un racconto di silenzio e di luce argentata” ( cit. tratta dal libro” Gente in Cammino” di Malika Mokeddem ).
Foto e parole di Anna Rita Carrisi
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Per anni mi sono detto che avrei dovuto visitare Cuba prima della dipartita di Fidel Castro pensando che alla sua morte l’isola si sarebbe velocemente trasformata.
Il caso ha voluto che fossi a Cuba, assieme a tre amici fotografi, proprio il giorno della sua morte, il 25 novembre 2016 e per i successivi 9 giorni di lutto nazionale dichiarati dal fratello e capo del governo cubano, Raul Castro.
In quei giorni abbiamo attraversato tutta l’isola, dall’Avana a Santiago, percorrendo le stesse strade del corteo funebre, incontrando e parlando con decine e decine di donne e uomini cubani. Abbiamo visto una Cuba compatta nell’unità nazionale e penso sinceramente addolorata per la mancanza improvvisa del loro “Comandante”, come tutti lo chiamavano, uniti nello slogan “Yo soy Fidel”.
Alla domanda: “Ed ora dove andrà Cuba?” tutti, con varie sfumature, ma con grande determinazione, hanno risposto che la direzione era già stata segnata dal Comandante e che avevano intenzione di seguirla adattandola ai giorni nostri.
So perfettamente che a Cuba c’è un ferreo regime, ma penso che la maggior parte fosse sincera, unita da una orgogliosa identità nazionale che il lutto rendeva, se possibile, più forte.
Ho avuto la sensazione che per tanti fosse come la perdita di un padre, molti hanno anche aggiunto: “Nel bene e nel male”, parlando della guida del Comandante, “Ha fatto il meglio che poteva per Cuba”.
La storia giudicherà.
Foto e parole di Francesco Munaro
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Nell’agosto del 2018 parto alla scoperta della Puna, il vasto altopiano desertico dell’Argentina nord-occidentale, che si estende in mezzo alle due cordigliere andine, come lo spazio compreso tra i due lembi scostati di una cerniera lampo aperta malamente. Ci arrivo da Salta (a due ore di volo da Buenos Aires) dapprima percorrendo in 4×4 una pianura dove si alternano vigneti e cactus a perdita d’occhio.
Poi salendo, per oltrepassare il primo lembo della cerniera montuosa, tra cui sono adagiate morbide dune di sabbia rosata finissima punteggiate di cespugli dorati. E finalmente, si dispiega davanti ai miei occhi la vuota vastità della Puna di cui non si coglie la fine.
Capisco subito di essere molto in alto, oltre i 2000 metri, perché l’aria ha il sapore e l’odore della purezza, e il respiro ti brucia in gola.
I colori predominanti sono il giallo della secca e rara vegetazione bassa, il rosa violaceo delle alture striate di neve, il blu intenso del cielo e il nero della cenere sparata nei secoli dai numerosi coni vulcanici.
Non si incontra nessuno lungo i lunghi rettilinei di terra battuta che sembrano tracciati con il righello.
L’autista/guida dice che qui vengono pochissimi turisti, e neanche gli Argentini conoscono la Puna. Di tanto in tanto si incrociano i binari di una ferrovia ancora usata per trasportare sale e minerali tra Argentina e Cile. A Tolar Grande (m. 3508), un villaggio in mezzo al nulla, c’è una minuscola stazione dove i camion caricano e scaricano i vagoni.
E’ qui che finalmente incontro i pochi abitanti della Puna. Si radunano alla sera a mangiare e bere nell’unica locanda del paese, mantenendo indosso le giacche a vento perché anche all’interno il freddo è davvero tosto, e la stufa a legna proprio non ce la fa a scaldare.
E, usciti fuori, li ritrovo rannicchiati sulle panche della sala del municipio, l’unico posto dove prende il cellulare, o rintanati nelle loro jeep parcheggiate lì intorno con i motori accesi per ripararsi dal gelo.
Il primo agosto qui si celebra il rito di ringraziamento alla Pachamama (Madre Terra), una tradizione antichissima delle popolazioni andine. Per caso mi accorgo di un gruppo radunato attorno a una buca scavata nel terreno. Dopo aver recitato in raccoglimento la loro invocazione vi seppelliscono i loro doni alla Madre Terra: alcolici, frutta, ortaggi, riso, sigarette e foglie di coca, di cui hanno tutti le guance gonfie. Si passano l’un l’altro una ciotola contenente un miscuglio di tutte le bevande che hanno radunato, alcoliche e non.
Anch’io ne provo un sorso, per non offenderli. Il tono delle voci è sommesso per rispettare la sacralità del momento. Il silenzio è il suono tipico della Puna. Ancora adesso, a distanza di anni, se chiudo gli occhi lo rivedo quel cielo blu, avverto il vuoto silenzio e respiro la purezza di quell’aria.
Foto e parole di Marco Parenti
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Genna è il nome che viene dato dai cristiani copti di Etiopia al Natale. Questo viene celebrato il 7 gennaio, dato che in Etiopia viene ancora seguito l’antico calendario giuliano.
I festeggiamenti del Natale Copto si svolgono nella città santa di Lalibela che si trova nel nord dell’Etiopia ad una altezza di ca. 2500 metri sul livello del mare. La città è famosa per le sue chiese rupestri scavate nella roccia, che nel 1978 sono state dichiarate patrimonio mondiale dell’UNESCO.
Lalibela ha ventimila abitanti che diventano circa duecentomila a inizio gennaio. In questo periodo migliaia di fedeli da tutto il paese percorrendo piste polverose la raggiungono camminando per giorni o anche per settimane.
I festeggiamenti del Genna iniziano nel pomeriggio del 6 gennaio e si protraggono tutta la notte e per tutto il giorno di Natale.
Abbiamo passato la notte della vigilia all’interno della chiesa rupestre Bet Maryam insieme ai fedeli copti. Si è trattata di una esperienza eccezionale e indimenticabile.
Attraverso un angusto passaggio scavato nella roccia, si raggiunge lo spazio posto intorno alla Chiesa dove moltissime persone, in gran parte vestite di bianco, sono ammassate dappertutto.
Vista la calca non è possibile muoversi liberamente. Ci si trova come immersi tra i fedeli e può succedere di colpire o anche di calpestare qualcuno nel tentativo di spostarsi senza, peraltro, suscitare lamentele.
Sembra di essere in un sogno: il fossato intorno alla chiesa è popolato da una moltitudine di fedeli che in piedi, seduti o sdraiati per terra vegliano per tutta la notte alla luce di centinaia di candele. Il suono delle nenie e dei tamburi è continuo; alcuni dei fedeli pregano o leggono testi sacri, altri cantano o danzano, altri si appisolano dove capita, tutti aspettano la cerimonia del mattino quando i sacerdoti vestiti con i loro tipici costumi sgargianti formano un corteo e raggiungono la chiesa pe celebrare la messa.
Colpiscono la profonda devozione e la grande umanità dei fedeli che dimostrano una inaspettata disponibilità. Lo straniero viene accettato senza indecisione e con grande tolleranza. Non si può non essere rapiti da questa magica atmosfera e rimarrà probabilmente per sempre il desiderio di ritornare al Genna.
Foto e parole di Stefano Bianchi
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Viaggiare. È uno stato dell’essere, oltre il movimento oggettivo del corpo.
Testimone, vestito d’invisibilità per non interferire, fotografo con l’intento di cogliere quel momento, movimento, ripetuto all’infinito eppure diverso ogni volta. La luce colpisce gli oggetti: contenuti e forme danno significato ai semplici e rituali gesti, definiti, irripetibili per senso e appartenenza: la foto insegue la trama e ne cerca la sintesi.
Alle prime luci dell’alba giovani Dei tritano ghiaccio freddo come polvere di stelle. L’eco lontano millenni che affiora continuo alle labbra: tu conosci la mia pena, aiutami, tu che puoi tutto. Un’ombra su un muro ocra o turchese: di chi sei?
Un sorriso fugge inconsapevole sotto il peso (della vita), e dei mattoni. Il vento che muove lievi teli, ordinando il colore di pieno e vuoto: dov’è il colore del cielo, dove il tessuto?
O lo scambio di parole fuori un bar, uguali, negli innumerevoli idiomi dei diversi confini. Ogni giorno sulla Terra accade: la magia dell’essere qui. Guardarsi intorno, simili ed estranei: scegliere cosa prendere, cosa portare con sé, perché da quello verremo cambiati. Le immagini precipitano nell’anima e muteranno il modo di percepire, d’intendere, la relazione con l’altro. Uno specchio dell’esistenza: potresti essere tu, potrei essere io..
Foto di Roberto Malagoli e parole di Lisanna Pinna
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Dubai è una nuova città, una città che vuole essere moderna, ad iniziare dalla sua urbanistica e dalle sue architetture.
E’ un grande centro urbano che oppone la verticalità dei grattacieli all’orizzonte del deserto; la modernità svettante verso l’alto alla tradizione islamica.
“E’ delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura.
Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche il filo del loro discorso è segreto, le loro regole sono assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.”
Le città invisibili – Italo Calvino
Foto e parole di Sandro Lombardo
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Sui banchi di scuola avevo imparato che nel lontano continente asiatico esisteva un immenso lago salato, che noi chiamiamo lago di Aral, ma che nella lingua locale è chiamato « mare di sole ».
Il suo bacino acquifero era grande tanto quanto la superficie dell’intera Svizzera. I pescherecci solcavano le sue acque, mentre nei porti ferveva l’attività dell’uomo.
Così, un bel giorno di primavera dell’anno 2018, mi ritrovai a 4’000 km da casa, nel Karakalpakstan, sulle rive di quello che, nei miei libri di scuola, veniva definito il quarto più grande lago al mondo.
Mi ritrovai sulle sponde di un deserto dove lo sguardo si perdeva nell’infinito alla ricerca di un orizzonte incerto.
Il lago del mio vecchio atlante di scuola era letteralmente evaporato.
Incontrai un ragazzino sveglio, che mi disse che lui il mare non l’aveva mai visto, ma a scuola gli avevano insegnato che, da qualche parte, il mare esisteva ancora e lui un giorno ci sarebbe andato. Fu così che partii in una sorta di pellegrinaggio alla ricerca del mare perduto.
Lungo il tragitto attraversai quello che era stato un borgo di pescatori, un villaggio oramai dimenticato dal resto del mondo e dalle mappe.
Le tracce di una qualche forma di sopravvivenza umana erano tristemente visibili.
Fu lì, che mi apparve una scuola frequentata da giovani, vestiti con cura, spensierati e divertiti dalla mia inattesa quanto improbabile presenza. Ritrovai i simboli di una mia quotidiana « normalità ». Vedevo una nuova generazione di giovani, simbolo di rinascita e di speranza, proiettata verso un futuro sicuramente diverso da quello dei loro padri e dei loro nonni che furono pescatori. Una nuova generazione che apprende dell’esistenza del mare dai libri di storia anziché dai libri di geografia.
Dopo svariate ore di fuoristrada, attraverso quello che fu il fondale del lago di Aral, i mi ritrovai davanti al « mare di sole ».
Una fangosa reliquia, che appartiene oramai ai libri di storia.
Foto e parole di Francesco Dolfi
https://www.facebook.com/francesco.dolfi.3
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Pur ritenendomi una persona pacifica e contraria alla violenza in ogni sua forma, devo dire che ho sempre trovato nobile uno sport duro come la boxe. Questo porta gli atleti a contendersi gli esiti di un incontro con sonori pugni ben assestati sferzati all’avversario.
Da bambino ricordo le estati calde passate davanti alla televisione a vedere le Olimpiadi. Non c’erano condizionatori in casa, mia nonna che dormiva e io perfettamente attrezzato in bermuda e canotta come il miglior Fantozzi cercavo refrigerio rotolandomi sul pavimento di marmo in quei lunghi torridi pomeriggi nella città deserta il cui silenzio era rotto dall’assordante frinire delle cicale. E a quell’ora la televisione (c’era solo la RAI) passava solo la boxe, ore e ore di incontri, pugni e sudore.
Questa è stata quindi la mia iniziazione alla boxe: fu un pò una forzatura alla quale non potevo sottrarmi… Erano le Olimpiadi di Mosca 1980.
Fin da quella età mi chiedevo perché ci fossero persone disposte a prendere un sacco di pugni per il piacere di darne ad un altro che fondamentalmente non gli aveva fatto nulla di male se non aver scelto di fare lo stesso sport e di trovarsi per un caso del destino ad essere estratti come avversari.
Mi chiedevo insomma se fosse giusto tutto quello, se ne valesse la pena. Mi domandavo quale fosse il valore del denaro e se i soldi fossero una motivazione abbastanza valida per non scegliere un altro sport in cui non ci si facesse così male.
Tra una riflessione e l’altra sono diventato grande e ho iniziato a dare qualche risposta, o almeno qualche giustificazione, a quelle mie domande. Mi dicevo che già esisteva nell’antica Grecia come sport olimpico e che è meglio quello che delinquere in strada e… bla bla bla…
Sta di fatto che nella vita certi cerchi devono chiudersi, senti il bisogno di toccare con mano il fuoco per vedere se brucia, senti il bisogno di avvicinarti al drago per sfidarlo e vedere se è così cattivo.
Ho scelto quindi di avvicinarmi a chi fa questo sport e da bravo viaggiatore e fotografo non l’ho fatto alla palestra dietro casa, giusto per capire o per provare, ma sono andato a cercarmi le frange più estreme di questo sport. Sono andato fino in Thailandia dove è lo sport nazionale portato alla sua massima espressione.
Lì si chiama Muay Thai ed è la boxe thailandese tradizionale che non conosce esclusione di colpi: sono ammessi pugni, ginocchiate, gomitate e persino il temutissimo calcio al collo che può essere dato in modo tanto violento quanto coreografico addirittura facendo una piroetta che ne aumenta ancora di più la velocità e la forza di impatto.
Prima di partire mi misi a cercare una palestra in cui andare a fotografare gli allenamenti: volevo capire perchè questo sport fosse tanto sentito a Bangkok.
Volevo capire anche perchè così tante minute ragazzine di 18-20 anni con lo smalto alle mani e ai piedi andassero a vivere mantenendosi estremamente femminili in uno sport tanto duro che pensavo fosse quasi esclusivamente per veri uomini. Pregiudizi che volevo scardinare in me e per i quali ero disposto a rimettere in gioco tutte le mie convinzioni.
La prima palestra era di fatto una semplice tettoia, e ho capito subito perché ci andavano le ragazze carine. La palestra era gestita da due fratelli ormai in età avanzata che l’avevano aperta per insegnare agli altri la difficile arte del combattimento.
I due fratelli su un tappeto antiscivolo si riempiono di protezioni la testa, le mani le braccia e le gambe e di fatto diventavano due bersagli sui quali far sfogare la rabbia delle giovani ragazzine. Queste li riempirono di sonore raffiche velocissime di calci e pugni che senza le protezioni farebbero comunque male anche agli esperti maestri.
Di fatto un posto dove fare un pò di sport dopo le lezioni all’Università divertendosi a dare botte sapendo comunque di non prenderne. Gli allenamenti di boxe thailandese si svolgevano con il maestro che dava i comandi per farsi colpire dagli allievi e dava il ritmo per farlo, con brevi parole gli diceva se tirare un pugno sul guantone o un calcio che lui sarà pronto a parare per proteggersi.
Da quel posto gli unici campioni che ne sarebbero usciti erano i maestri la sera quando tornavano a casa dopo l’orario di lavoro.
Non ne rimasi deluso, ma al contrario fui soddisfatto di quella visione del mondo che non conoscevo. Di certo era una palestra in cui fare sport anche impegnativo, ma quello era un posto alla moda, non una fucina di atleti come quella che volevo io.
Capii però il perché questo sport sia tanto diffuso in Thailandia: perché in quel modo lo può fare davvero chiunque, è questo il motivo del suo successo.
Eppure mentre ero lì c’era una sensazione che non riuscivo a spiegarmi. Mi mancava qualcosa ma non capivo cosa fosse, me ne sono reso conto solo dopo essere rientrato in Italia riguardando le fotografie con una certa attenzione…Era una sensazione che lì sul momento non riuscivo a spiegarmi, qualcosa mi sfuggiva…
Ecco cosa era: mancava il ring!!! Mica una cosa secondaria: non ce ne era traccia, e quella fu la prova: era un posto per divertirsi e non un posto in cui combattere. La boxe è uno sport nobile, non dimentichiamocelo.
Il giorno dopo andai a cercare emozioni nuove in un’altra palestra di boxe thailandese. Anche qui persone di entrambi i sessi e con una età più allargata: c’era anche gente decisamente più grande di età. Qui finalmente c’era un vero ring!!!
Un grande spazio in cemento armato, decisamente più spartano nel quale finalmente sentivo l’odore acido delle persone che si mescolava con quello della pelle dei guantoni creando quel mix olfattivo deciso, forte, sofferto.
Anche qui mi avvicinai ad una ragazza molto carina, tonica, scattante, con dei guantoni più grandi di lei e le chiesi chi le avesse fatto quell’enorme livido grande come tutta la coscia destra.
Lei si girò verso un’altra ragazza e con un sorriso vero e sincero mi disse: “E’ stata la mia amica: è stata bravissima, molto più veloce di me, mi ha dato un calcio che non sono riuscita ad evitare. Ma la prossima volta sarò più veloce io”.
Non c’era vendetta né risentimento nelle sue parole. Ho visto il sorriso di chi sa di essersi difeso con onore dagli attacchi di un avversario più forte.
Gli allenamenti qui erano veramente seri: ci si allenava a colpire un sacco pieno di sabbia senza spaccarsi una mano, si facevano migliaia di salti con la corda ad un ritmo fittissimo. Qui si sollevavano manubri e bilancieri e non si colpiva il maestro per gioco o per sfogarsi.
Qui impari non solo a colpire ma anche a difenderti perché nella vita servono entrambe le cose.
Il mio viaggio qui iniziava a prendere un senso… Qui vedevo ciò che avrei voluto vedere. Quanto coraggio, mi chiedevo, quanto coraggio ci vuole a passare dall’allenamento al ring? Quanta forza e concentrazione ci vuole a liberarsi della sicurezza mentale che quelle piccole protezioni per le braccia e la testa danno a chi si allena?
E finalmente dopo le due palestre all’incontro ci sono andato davvero. Munito di un permesso speciale per entrare e uscire liberamente dagli spogliatoi. Avrei potuto assistere al sacro rituale preparatorio degli atleti prima di andare a combattere.
E nel fetido spogliatoio del palazzetto dello sport, tutto il mio viaggio ha trovato il senso che cercavo. Ho provato le emozioni più forti proprio in quel silenzio che precede l’incontro. Ragazzini, giovanissimi, muscolosi e definiti, agili e scattanti come molle, fisici asciutti ed esili, 15-20 anni…
Distesi su dei tavolacci lerci ci sono gli atleti completamente glabri che vengono unti e massaggiati dai loro preparatori prima del match. La cosa che mi ha colpito subito era il fatto che lo spogliatoio era lo stesso contemporaneamente per tutti gli atleti.
Non c’erano delle stanzette, ma un unico stanzone scarsamente illuminato dalla luce incerta di un neon schifoso coperto di ragnatele. Erano lì tutti insieme: pugili e allenatori… I secondi, il medico, gli amici dei ragazzi e tutto si svolgeva in un apparente clima di amicizia prima di darsele di santa ragione.
Mi piaceva studiare i loro sguardi persi nel vuoto, vedere nei loro occhi la concentrazione che precede i grandi momenti. Gli allenatori con una serie di gesti ripetuti e abituali, dosati e precisi andavano a preparare le mani dei loro campioni. Le riempivano di garze, cerotti e infilavano loro i guantoni che avrebbero dato l’ultimo dettaglio alla vestizione.
Negli spogliatoi la tensione era fortissima, si sentiva tutta l’emozione di quegli ultimi istanti che precedono la gara. Gli atleti sapevano di stare bene ma anche che da lì a poco, comunque vadano le cose, la lotta sarebbe stata durissima.
Qualcuno restava disteso sul tavolaccio a mandare un whatsapp all’esterno. Altri li vedevo tirare pugni e calci in aria in una specie di disimpegno prima del corridoio che porta sul ring. Nessuno sembrava accorgersi di me e della mia fotocamera. Tutti erano, giustamente, impegnati in ben altro tipo di ragionamenti tanto che io passavo del tutto inosservato.
Nell’aria adesso non c’era odore di sudore nè si sentiva quello dello scantinato in cui ci trovavamo. L’aria era invece piena di odore di olio canforato: un odore fresco e piacevole, stridente e inaspettato in quel luogo malsano in cui mi trovavo a vivere un’emozione fortissima condividendola con degli sconosciuti.
Ed ecco il grande momento: i combattenti vengono chiamati sul ring. Camminando all’indietro precedevo i contendenti vestiti con il loro tipico mantellino per fotografarli mentre si dirigevano verso il quadrato in cui il pubblico li aspettava. Ero emozionato più di loro: aspettavo quel momento da 40 anni. Stavo per chiudere il mio cerchio emozionale chiudendo la boxe tra le esperienze che ho vissuto da vicino seppur non in prima persona.
GONG!!!! L’incontro abbia inizio: vinca il migliore.
Foto e parole di Roberto Gabriele
Nel cuore della Basilicata esiste e resiste ancora un mondo lontano dai frenetici ritmi del modello economico che il turismo di massa ha ormai imposto da Matera fino alla costa pugliese.
La civiltà contadina, portata alla luce da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli, qui esiste ancora. La si trova nel fragile equilibrio di una terra soggetta a siccità ed erosione.
E’ presente, seppur in forma ammodernata ed ancora saldamente legata ai vincoli e alla struttura del territorio, aspro e fragile.
Questo è delizia per gli occhi del visitatore occasionale ma anche condanna per chi lo abita da sempre.
E’ un mondo sospeso tra antiche tradizioni e dinamiche moderne, in cui il viaggiatore è ancora un ospite ben accolto e sinceramente gradito.
La terra si consuma, cede, scivola a valle trascinando pian piano i paesi, che giorno dopo giorno perdono pezzi fino a scomparire: Craco è l’esempio più famoso ma non certo un caso isolato.
Non è raro imbattersi in borghi fantasma disabitati ed abbandonati, testimonianze di un mondo non del tutto passato.
Fede, tradizioni e rispetto sono i cardini attorno cui si sviluppa la vita di chi, nonostante tutto, mantiene vivo questo territorio di rara bellezza, in cui il viaggiatore può ancora trovare la sua dimensione più vera.
Foto e parole di Ugo Baldassarre
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Sono rimasti in pochi i pescatori di “moeche” (granchi) e tutti concentrati nella laguna di Venezia. Il loro è un lavoro duro e impegnativo che si tramanda di padre in figlio.
Ci si sveglia molto presto, prima dell’alba, si inizia poi a navigare freneticamente in laguna per spostare i pali delle le reti o per tirarle su e controllare il bottino…granchi, crostacei e pesci grossi vengono tenuti, il resto torna in mare.
Durante un viaggio a Venezia, ho avuto modo di vedere all’opera questi pescatori.
Sono rimasto colpito dal contrasto tra questa frenesia nei loro spostamenti e la calma placida che trasmette il paesaggio circostante.
Questo contrasto è ancor più percepibile nei momenti di pausa lavorativa dei pescatori e che ho voluto rappresentare negli scatti che presento.
Foto e parole di Roberto Moreschi
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Viaggio fotografico sul Delta del Po 2021
L’Universo Elegante descritto da Brian Green con la Teoria delle Stringhe. Lo scontro secolare tra le leggi del grande (la relatività generale) e le leggi del piccolo (la meccanica dei quanti) viene superato a vantaggio di una superiore unità, basata sull’affermazione che tutti gli eventi dell’universo nascono da un’unica entità: microscopici cicli di energia nascosti nel cuore della materia.
Cuore e materia, corpo e anima.
Un luogo-non luogo con passato e futuro senza presente.
Dove non esistono confini tra SOGNI e illusioni,
Cielo e mare, mare e fiume, acqua e terra.
Dove si confondono uomini e animali, pesci e uccelli (“qui i pesci nuotano più in alto del volo degli uccelli”),
Dove si fondono storie e leggende, metafisica ed immanenza.
Dove esistono i vongolari ed i “vongoladri”, ed insieme giocano a carte al bar.
Dove la Romea sostituisce la Route 66 nell’immaginario dei popoli di destra e di sinistra (di sponda).
Dove i confini, se esistono, si intrecciano e si confondono, nascono, crescono e spariscono.
Foto e parole di Claudio Varaldi
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Viaggio in Uzbekistan, durante il Navruz, la festa della primavera.
Tutto il paese, proprio lungo la mitica Ruta della Seta, è da raccontare perché è bellissimo. Ma mi fermeró soltanto all’esperienza eccezionale che ho vissuto quando ho assistito, vicino a Samarcanda, alla celebrazione del Kupkari, un antico gioco di cavalli tradizionale dei nomadi dell’Asia Centrale. Un bambino era stato circonciso e suo nonno aveva organizzato la festa in suo onore.
“Kupkari” significa “prendere la capra”. L’obiettivo del gioco è prendere la carcassa di una capra e muoversi in qualsiasi direzione fino ad allontanarsi dagli altri giocatori e portarla al posto indicato dalle regole del gioco.
Quando siamo arrivati sul posto centinaia di cavalieri con i loro cavalli si stavano preparando per la festa. Una moltitudine di uomini, bambini, cavalli, auto, furgoni, si riunivano in una mattina nuvolosa, povera di colori. Nessuna donna, nessuna bambina, solo le cinque donne del nostro gruppo di turisti.
Ci siamo sentiti trasportati in un’epoca passata, come in un film storico. Quei cavalieri con i loro vestiti tradizionali, montati sui loro cavalli ornati di attrezzi colorati…
Noi eravamo stupiti da quello che avevamo davanti, ma loro non lo erano meno. Chi guardava chi?
La guida ci ha detto che forse non avevano mai visto una donna occidentale lì, ad una festa per uomini. La polizia ci chiede di andarcene, troppi uomini, alcuni ubriachi, non era sicuro. Ci allontaniamo dallo sciame di uomini e ci mettiamo in un posto più lontano da dove guardare la festa.
Ben presto si sparse però la voce che c’erano dei fotografi stranieri sul posto. Credo che fossero curiosi quanto noi e non smisero di avvicinarsi al nostro gruppo, amabili ci sorridevano e ci salutavano con la mano sul cuore.
Un vecchio chiese alla nostra guida: Di dove sono? – Dall’Italia, rispose Bek, la nostra guida.- Dov’è, è oltre Mosca? Chiede il vecchio uzbeko con la sua innocenza.
Gli uzbeki ci dimostrarono la loro generosità quando i cavalieri fecero più d’una corsa verso di noi per mostrarci da vicino il gioco, tanto che la faccia del cavallo era proprio davanti alla nostra!
Gli spettatori, a volte estranei al gioco, facevano battute, mangiavano semi di girasole, bevevano. I cavalieri con la capra, una corsa di qua, una corsa di là, finirono esausti, pieni di sudore e polvere. Dopo diverse ore, finito il gioco, tornarono alle loro case, di nuovo a piedi, con i loro cavalli o nelle loro vecchie auto piene di gente.
Li abbiamo salutati anche noi con le nostre mani sui cuori. Loro ci hanno dedicato sorrisi e gesti di rispetto. Indimenticabile.
Foto e parole di Carmen Garcìa
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La penisola di Yamal, in Siberia è uno dei luoghi più inospitali e desolati della terra. Ricoperto dal ghiaccio per molti mesi all’anno, è abitato da un silenzio surreale rotto soltanto dai forti venti. Il sole rimane basso vicino all’orizzonte per poche ore al giorno avvolgendo tutto con una magica e bellissima luce crepuscolare dalle sfumature delicate color pastello.
Lo sguardo volto all’infinito, a volte, non percepisce il confine fra il cielo e la terra. E’ confuso dai cristalli di ghiaccio che vengono sollevati dal vento. Durante le gelide notti la volta celeste è di una straordinaria bellezza cosparsa da migliaia di stelle. Se si è fortunati si può assistere ad uno degli spettacoli più belli che la natura possa offrire, l’aurora boreale.
La mente si perde come in una favola, come se si venisse catapultati in un mondo primordiale e surreale in cui sembra che il tempo si sia fermato e che solamente la morsa del freddo riesce a riportare alla realtà.
Anche se risulta difficile pensarlo, in questo aspro ambiente si sono insediati i Nenets, un popolo nomade che alleva renne.
I Nenets conducono una vita dura ed essenziale che ruota attorno all’allevamento delle renne e alla propria sopravvivenza, portando avanti con onore antiche tradizioni tramandate centinaia di anni fa.
Tuttavia i Nenets sono minacciati da alcuni fattori, come la loro complessa vita, il riscaldamento globale e l’estrazione del gas. Questo fa sì che sempre meno persone decidano di continuare a vivere nella tundra, costringendoli ad una vita ancora più difficile se non alla loro scomparsa.
L’opportunità di vivere con loro è emozionante e gratificante sia a livello culturale che umano. L’esperienza di poter incontrare persone così lontane dal nostro stile di vita, affrontando un viaggio non proprio semplice, fa riflettere su come si possa vivere in certe situazioni, regalando un’apertura mentale ed emozioni uniche che fanno apprezzare molto di più le piccole cose quotidiane.
Foto e parole di Alessandro Malaguti
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Nel corso della storia del Medio Oriente, il popolo curdo si è differenziato per il coraggio e l’onore dei suoi guerrieri. Per questo motivo ha acquisito una posizione di rilievo nella regione.
Questo ha comportato che i re, i sultani e i califfati di quel tempo prendessero di mira e utilizzassero i curdi per proteggere e sviluppare i loro confini e stabilizzare l’entità dei loro imperi.
Del resto, sono stati spesso esiliati e costretti ad emigrare, con molti esempi negli imperi ottomano e iraniano.
Quattro secoli fa, dopo la guerra caldea e la sconfitta dei Safavi contro gli ottomani, i curdi furono gradualmente e con la forza sfollati.
Più di 50.000 famiglie del Khurasan Kurmanji si diressero verso i confini orientali dell’Iran per proteggere i confini dagli uzbeki che avrebbero poi occupato l’area.
Dopo la fine delle guerre, i curdi sfollati sono rimasti bloccati in quei confini e non hanno potuto tornare nel loro territorio. Da allora i loro discendenti vivono nel nord dell’Iran e vicino al confine del Turkmenistan.
In questo progetto artistico, studierò alcune delle conseguenze di questo esodo forzato imposto ad alcune famiglie curde da Safavi in Iran. È per me motivo di riflessione costatare che durante questi secoli di migrazione forzata, sebbene molte delle loro tradizioni siano cambiate, si parli ancora curdo e kurmanji. I loro vestiti sono cambiati in un modo che non assomiglia a quello curdo, un misto di abbigliamento turco e abbigliamento persiano.
In generale, vivono una vita instabile e immigrata, molti di loro sono impegnati nell’allevamento. Questi curdi ancora non si considerano padroni di nessun luogo e hanno una vita semplice e difficile, che è sicuramente il risultato della separazione dalla loro patria.
A mio parere, questo problema merita di essere indagato e affrontato, quindi è fondamentale esaminarlo di più e renderlo uno dei miei progetti.
Ho ora dedicato questa collezione di opere d’arte a questo argomento che è parte di un progetto incompleto sempre più ampio. Questo sarà un tentativo di presentare e dimostrare le sofferenze e i dolori di queste famiglie curde e gli effetti di questo esodo sulla loro cultura, lingua e tradizioni.
Foto e parole di Younes Mohammad
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Acciughe e sardine sono pesci pelagici molto diffusi in tutto il Mediterraneo. In Italia le zone più frequentate da questi pesci “azzurri” sono la Sicilia e il medio e basso Adriatico. Un metodo per catturarli, ovvero una tecnica ancora in uso oggi é la pesca con la lampara . Questa viene effettuata da un’imbarcazione madre, e da 2-3 piccole barchette o gozzi. Ognuna di esse ha delle grosse “lampare” installate ed alimentate a batteria oppure a gas.
Arrivati sul luogo di pesca nottetempo, i marinai ammainano i piccoli gozzi e, a lento moto di corte bracciate, azionano la lampara per attrarre dal fondale marino. Banchi di sardine, piccoli sgombri, alici, acciughe, circuiti dal forte bagliore della luce artificiale della lampara.
Una volta “radunati” i diversi banchi di pesci sotto le loro chiglie, i gozzi si avvicinano quasi a toccarsi. A questo punto entra in gioco la barca-madre con il compito di gettare in mare il cianciolo: una rete tesa in verticale tenuta in superficie da sugheri galleggianti, mentre nella parte inferiore porta dei piccoli piombi che la stendono formando una parete mobile fino a quasi toccare il fondo che lentamente circonda il pesce ammassato in un piccolo spazio.
Chiuso il cerchio, le lampare spengono le luci ed escono dalla rete e il pesce rimane intrappolato.
Da bordo della barca-madre, tirano delle cime per chiudere la rete sul fondo e trasformarla in un sacco pieno di pescato che viene finalmente issato a bordo.
Foto e parole di Claudio Varaldi
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Focus del nostro viaggio è stata una missione umanitaria in Marocco. Dalle affollate medine di Marrakech attraversiamo le pianure desertiche del al-Rashidiyya dirigendoci verso est. Il passo obbligato è Merzouga, la prima tappa del nostro viaggio, da lì in poi solo le sabbie del Sahara. Questa terra attraversata un tempo da carovane di beduini a cammello, osserva oggi il passaggio di motociclisti da tutta Europa in cerca di avventura nelle dune sabbiose. Questa è stata la mèta del nostro viaggio umanitario; dove vivono le donne ripudiate ed i loro bambini.
Donne sole per lo più divorziate, vedove o abbandonate dai mariti e perciò ripudiate. Una volta che hanno perduta la loro dignità e il riconoscimento da parte dei loro uomini sono lasciate vivere in condizioni precarie al limite della sopportabilità.
Abbiamo incontrato alcune di loro, Kadija, Arkia, Labo, Zoara, Boulemane. Chi con un bambino e chi con anche 5 figli, abitano a sud-est delle dune di Merzouga senza alcun sostentamento se non di qualche associazione umanitaria.
Da tutta Europa, gli amanti dei tour di motociclismo che transitano per queste zone colgono sempre l’occasione di fermarsi per un tè e così di lasciare un dono al loro passaggio.
Queste donne non possono tornare nei loro villaggi di origine, la maggior parte sono di Tafroutein, ridotte a vivere in tende mal ridotte che non proteggono dal vento e dalla sabbia né loro né i loro bambini.
Ad ognuna, con il supporto di una ONG italiana, abbiamo avuto l’occasione di donare, merito di una raccolta fondi, fino a quattro capre per il loro sostentamento. In questo ambiente così difficile, nella povertà in cui vive questa gente anche una sola capra rappresenta una risorsa preziosa.
Le caprette sono state acquistate nel mercato locale con l’aiuto del capo del vicino villaggio. Una volta arrivate su un furgone, non è stato semplice distribuirle. Il nostro accompagnatore si è occupato di farci da interprete e di provvedere alla distribuzione degli animali, secondo i reali bisogni e il numero dei componenti di ogni tenda.
Inoltre, ad una di loro è stato anche donato un forno solare. Questo è stato progettato e realizzato da ingegneri italiani, trasportato smontato in aereo e installato sul luogo. Questo sfrutta direttamente la luce solare senza altri fonti energetiche quindi adatto a situazioni limite. E’ stato subito utilizzato per cuocere il batbout, il loro pane tipico, e con il tajine ed il thè alla menta. Ci hanno accolto nelle loro tende per ringraziarci a dimostrazione dell’ospitalità berbera.
La realtà rappresentata è certamente informazione ma anche il significato di questa informazione.
Il fine ultimo di questa serie avrebbe voluto essere di spiegare, nel gergo “umanistico”, l’uomo all’uomo. Solitamente le fotografie, nello specifico documentaristiche, constatano soltanto, non hanno velleità di cambiamento. Io vorrei invece mostrare che un cambiamento è possibile e noi dovremmo renderlo tale. E’ soprattutto in situazioni come quelle mostrate qui che possiamo rivalutare il nostro modo di pensare il presente, dove l’altro anche se non ha nulla, ci arricchisce della sua umanità.
A sera dopo le rituali foto di gruppo, tra saluti, sorrisi e benedizioni, abbiamo lasciato l’accampamento. Appena slegate alcune caprette hanno accennato ad un tentativo di fuga ma poco dopo si son fermate ad aspettare. Non c’era nessun posto dove andare.
Foto e parole di Luca Maiorano: https://www.facebook.com/luca.maiorano.57
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Provo sempre piacere ogni volta che prendo la mia macchina fotografica e vado nella città murata di Lahore, in Pakistan, che è anche chiamata Old Lahore (Androon Lahore), per fare ritratti di persone anziane e bambini. La città murata di Lahore costituisce il nucleo storico di Lahore. Fu fondata intorno al 1000 d.C. nella metà occidentale della città murata che fu fortificata da un muro di fango durante l’era medievale.
Ho viaggiato in bicicletta. Mi sono sentito molto al sicuro durante il mio viaggio a Old Lahore (Pakistan). Questo posto, il loro cibo e le persone mi attraggono sempre a venire lì e a catturare le storie delle persone lì.
Per me i volti su cui ho cliccato non sono solo volti umani ma sono pieni di emozioni e storie. Possiamo vedere l’amore, la rabbia e le emozioni attraverso i loro occhi e la felicità, le sofferenze e le difficoltà della loro vita attraverso le rughe.
Era un novembre quando sono andato a Old Lahore per esplorare la bellezza di questo luogo storico. C’erano anche moschee e monumenti molto belli, ma dato che sono un fotografo ritrattista ho iniziato a cercare dei volti unici per catturarli nella mia fotocamera.
Non si tratta solo di scattare foto di volti unici di uomini o donne anziani. Si tratta di catturare storie, emozioni e momenti magici. Si tratta di catturare le emozioni che guardano sui loro volti e nei loro occhi. Per me le immagini sono film o canzoni fisse che esprimono tutto da sé.
Questa zona di Lahore ha strade molto strette con storie illimitate. Ho trovato molte storie diverse vedendo i diversi Uomini e Donne per le strade che poi ho cercato di catturare nella mia macchina fotografica e mostrare le loro emozioni e storie attraverso le mie immagini.
Ho sempre cercato di comunicarli bene attraverso gesti ed espressioni piacevoli e ho avuto un’ottima conversazione con loro.
Mi hanno raccontato molto delle loro vite e delle loro storie. Alcuni di loro mi hanno persino raccontato di come hanno viaggiato o sono emigrati dall’India al Pakistan dopo l’Indipendenza. Come hanno vissuto la loro vita qui e molto altro ancora.
Ho scattato tutte queste foto durante il mio viaggio ad Androon Lahore ed è stata davvero un’esperienza straordinaria catturare i volti unici di Lahore. La vecchia Lahore è sempre piena di queste storie. Possiamo vedere tutta la vita e le storie delle persone attraverso i loro occhi e le rughe dei loro volti.
Un’altra cosa è che quando ero in questo viaggio c’erano anche molti pellegrini sikh, che venivano dall’India per i loro riti religiosi. E ho anche trovato più interessante comunicare con queste persone e catturare anche le loro storie.
È stata davvero un’esperienza straordinaria lì. Voglio davvero andare in queste stradine di Lahore ancora e ancora per catturare storie belle e interessanti di persone.
foto e parole di Usama Khan
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Sono le quattro del pomeriggio e a Churchill ci sono 2 gradi. Considerando il posto in cui mi trovo e il periodo (fine ottobre), la temperatura è troppo alta e per l’ORSO POLARE, il più grande carnivoro del pianeta (motivo del mio viaggio) il clima è quasi afoso
E’ proprio qui nella Baia di Hudson nei pressi di questo paesino di circa 800 abitanti nella regione di Manitoba in Canada, gli orsi polari attendono che si formi la banchisa.
Le concentrazioni del ghiaccio marino negli ultimi decenni si sono ridotte drasticamente mettendo a rischio la sopravvivenza di questo splendido mammifero. La mancanza di ghiaccio impedisce loro di procacciarsi cibo e quindi l’orso si avvicina sempre più ai centri abitati. Il problema del surriscaldamento qui è una realtà tangibile con cui bisogna fare i conti e si percepisce appena si entra in questo villaggio.
Saliamo su un fuoristrada, accompagnati da una guida locale armata e iniziamo il nostro primo giro di perlustrazione attorno al villaggio. Ed ecco il primo avvistamento!! Rannicchiato nel verde si è alzato e il bianco del suo manto spiccava sopra ogni colore circostante.
Il giorno dopo alle otto eravamo già operativi, ma il re dell’Artide era poco attivo …ci osservava con aria annoiata e per nulla impaurita. A volte si spostava di poco e si rotolava in mezzo alla neve per pulirsi la pelliccia per poi rimettersi a dormire. A mezzogiorno c’erano 10 gradi sopra lo zero. Caldissimo!!!
Un’altra giornata volgeva al termine e nel tornare verso Churchill incontriamo un orso che camminava per strada in direzione del centro abitato. Riesco in qualche maniera a fotografare il momento, il cuore è a mille. Quell’orso in mezzo alla strada, impaurito e affamato mi ha portato alla dura realtà del momento.
Gli abitanti di Churchill sono ormai abituati a queste visite inaspettate. Tutti in casa hanno un fucile e non chiudono le porte di casa a chiave per salvarsi da possibili attacchi da parte degli orsi.
Non c’è ghiaccio e gli orsi non possono avventurarsi a caccia di prede; ho visto il più grande carnivoro della terra mangiare erba oppure avvicinarsi ai fuoristrada per cercare cibo o smarriti in discariche saltare da un fusto all’altro alla spasmodica ricerca di qualcosa per placare la fame.
L’episodio che però, più di tutti ha segnato questo viaggio è stato la cattura di un orso: ad un certo punto l’autista ha fatto un’inversione ad U e ci ha urlato che non potevamo perderci questo momento: stavano catturando un Orso. Ci dirigiamo verso quella che è considerata l’unica prigione al mondo di Orsi e abbiamo assistito a tutta la procedura di cattura .
Un elicottero stava inseguendo un orso perché c’erano state delle segnalazioni di avvistamento nel centro abitato. Lo hanno addormentato, messo in una rete e in seguito trasportato verso la prigione. Ci hanno raccontato che gli orsi vengono tenuti in cattività, in delle gabbie non troppo grandi e a digiuno e questo dovrebbe servire da deterrente per l’animale in modo da non farli avvicinare più al villaggio.
Fino al 1982 gli orsi che si avvicinavamo a Churchill venivano uccisi in quanto considerati pericolosi. Dal 1983 fu istituita la “prigione per gli orsi” dove squadre di professionisti si occupano di gestire gli ormai sempre più frequenti avvicinamenti degli orsi al centro abitato. Dopo la cattura e un periodo di stazionamento di 30 giorni gli orsi verranno liberati in un’area dell’Artide a circa 70 km da Churchill.
Il cambiamento climatico è stato devastante per questo ecosistema. Negli anni ’80 in questo territorio ci vivevano circa 1200 orsi, oggi sono 800 e si stima che nel 2050 ci sarà una riduzione di due terzi fino a scomparire del tutto alla fine di questo secolo.
Voglio chiudere questo racconto con delle foto che ho scattato i primi giorni del mio viaggio in cui nei miei occhi c’era ancora l’entusiasmo, la curiosità e l’emozione.
L’immagine che voglio associare a questo straordinario mammifero è la liberazione dalla “prigione”, anche se non ho potuto osservarlo direttamente, ma con i miei scatti ho cercato di far visualizzare questo momento negli occhi dell’osservatore. Voglio immaginarlo libero, coperto di neve e sdraiato sul ghiaccio a digerire il suo pasto e a rilassarsi nel fresco gelo della banchisa.
Vi presentiamo Cobra Grande, il racconto di viaggio con il quale Pierluigi Ciambra è stato selezionato come Finalista a Travel Tales Award 2021, la storia di una grande avventura amazzonica con la fotocamera in mano per raccontare esperienze ed emozioni irripetibili.
Manicoré, centro della foresta pluviale Amazzonica, agosto 2004.
Si arriva con il battello, lungo il Rio Madeira, in due giorni di navigazione da Manaus.
Varie tonalità di verde intenso e miriadi di fiumi e fiumiciattoli creano un panorama mozzafiato, la natura detta le proprie regole e determina la vita della popolazione, un’esistenza simbiotica tra uomo e natura.
Si vive per strada, le case sono troppo piccole e le famiglie troppo numerose, molti giovani migrano verso la città.
Il più delle volte è ancora più dura e allora si risale sul battello, a fendere le acque del fiume.
Ecco il link per scoprire tutto il lavoro di questo Autore sensibile e molto preparato: https://www.pierluigiciambra.com/ qui troverai tutti i suoi progetti, la bio, altre info e fotografie.
Questo racconto di viaggio è stato selezionato come Finalista tra i candidati di Travel Tales Award 2021. L’Autore Mario Cucchi ci parla del Popolo Saharawi che vive nel deserto del Sahara in una terra indefinita tra Marocco e Algeria. Una situazione di estrema povertà per una minoranza etnica che non viene accettata da nessuno ed è costretta a vivere lontana da tutti in territori disseminati di mine. Leggi questo articolo e infine scrivi le tue impressioni qui in fondo all’articolo.
Che ne sarà del popolo Saharawi costretto, ad un forzato esilio in una delle zone più inospitali del pianeta?
•Un muro lungo più di 2.700 chilometri nel deserto africano.
•10 milioni di mine.
•Una guerra di 15 anni che si è conclusa ma un conflitto che ancora non ha fine.
•Un referendum per l’indipendenza richiesto dall’Onu che non è mai stato fatto.
•E un popolo che vive da più di 45 anni nei campi profughi.
E’ la storia dell’ultima colonia africana, quella del Sahara occidentale, conosciuta come ex Sahara spagnolo e ora occupata dal Marocco.
Sarà la gioia di poter tornare nella loro terra che leggiamo nella speranza dei bambini, oppure continuerà la totale indifferenza della comunità internazionale che vediamo nella rassegnazione degli anziani? Il rischio è che la giustificata rabbia dei giovani porti al suicidio di una nuova guerra.
Infine il progetto, organizzato in dittici, vuole sottolineare i contrasti, a volte magnifici, più spesso terribili, che il popolo Saharawi vive.
Destino è il racconto di viaggio con il quale Nadia Cianelli ha partecipato a Travel Tales Award 2021
Ho attraversato la Patagonia in autobus, accompagnata dall’interminabile linea retta dell’orizzonte, la macchina fotografica e una busta: di quelle gialle, con stampato in alto a sinistra “Poste Italiane” e scritto a mano un improbabile indirizzo: “Por el Capitan del barco Barracuda – Ushuaia”.
Una persona incontrata per caso pochi giorni prima di partire mi aveva chiesto la “cortesia”. Non era quello il motivo del mio viaggio, ma da allora recapitare quella busta è diventata la mia missione.
Man mano che si scende verso sud la presenza umana si fa sempre più rarefatta. Le distanze tra le cittadine sono enormi, lungo il percorso di tanto in tanto si vede una estancia, o la carcassa di un guanaco rimasto intrappolato nel filo spinato delle recinzioni. Un gaucho a cavallo galoppa verso casa seguito dai suoi cani.
Puerto Madryn, la Peninsula Valdés, Puerto Piramides, Punta Ninfas, pinguini e leoni marini. Rio Gallegos, Cabo Virgenes e quel faro che guarda verso il Cile, fino a giungere alla fine del mondo: la Terra del Fuoco.
Il mio istinto di fotografa mi aveva suggerito un’intenzione: ad ogni tappa ho fermato persone e le ho fotografate chiedendo loro di posare con la busta gialla in mano.
“Cosa c’è dentro?” mi chiedevano stupiti. “Non lo so, decidi tu” rispondevo, allora si facevano seri, concentrati in qualche pensiero. E io scattavo.
Giorno dopo giorno quella busta diventava sempre più pesante nell’accogliere i pensieri di tutte le persone ritratte, e per me sempre più importante. Fino a pochi chilometri da Ushuaia non mi era mai venuto in mente che quel Capitano del barco Barracuda avrei potuto anche non trovarlo. Una volta arrivata in città vengo assalita da una frenetica urgenza. Consegnare quella busta ormai sgualcita per i passaggi in troppe mani ha assunto un’importanza vitale.
Ho il vento in faccia e la percezione quasi fisica di essere veramente alla fine del mondo, nell’ultimo lembo di terra abitato all’estremo sud del pianeta, più avanti solo i ghiacci dell’Antartide.
Al porto scopro subito che il Barracuda è ormeggiato sulla banchina, ma ormai non naviga più da tempo. “E il Capitano? Cosa ne è stato del Capitano?” chiedo all’uomo cui mi sono rivolta per avere informazioni.
“Chi, Danilo?” Sono fortunata, lo conosce ed è disposto ad aiutarmi. “Danilo? Ciao” non so spiegare la sensazione che provo quando comprendo che ci sta parlando al telefono. “C’è qui una signora che viene dall’Italia, ti cerca, ti deve consegnare una busta.
Prendiamo un appuntamento per il pomeriggio seguente. Temo fino all’ultimo momento che non venga, ma si presenta puntuale. Dopo un saluto imbarazzato saliamo sul relitto, impolverato e arrugginito, e finalmente gli consegno quel messaggio scritto solo per lui.
Di nuovo a terra lo invito a bere qualcosa insieme, Lui resta in silenzio per un poco, poi mi si rivolge con il volto serio: “La ringrazio, ma devo proprio andare. Ho un volo per il Cile tra poco più di un’ora. Lascio per sempre questo paese”.
Avevo consegnato quella busta appena un’ora prima che il destinatario scomparisse per sempre. La Patagonia è terra di magie, e con me non si è risparmiata.
Wakhan è un racconto che ha partecipato a Travel Tales Award 2021.
Un frammento del mio cuore è perso tra le montagne del Pamir è negli occhi delle persone che ho incontrato e dentro ogni ruga del loro viso che rimandano a quanto questa terra possa essere meravigliosa e terribile.
In Afghanistan ci sono stata per fotografare i Kyrgyzi. Una popolazione nomade che vive all’estremo nord e arrivarci non è stato semplice.
Per raggiungere la frontiera afghana ci sono voluti 2 giorni di macchina su strade sterrate, seguendo il fiume Pamir, passando tra gole di sorprendente bellezza e guadando corsi d’acqua. Passata la frontiera a Ishkashim, si attraversano le terre del Wakhan dove si vive di pastorizia, agricoltura e hashish.
Quello di cui vado orgogliosa è il rapporto che sono riuscita ad instaurare con le persone, una comunicazione fatta di gesti, sguardi ed espressioni.
Il percorso con la macchina termina a Sarhad, da qui, inizia l’ascesa verso le montagne del Pamir, si deve proseguire a cavallo e nei tratti più ripidi, a piedi.
Siamo a 3.200 metri. Passiamo i siti di Borak, Langar, Kashch Goz e arriviamo sull’altopiano. Cerco di imprimere nei miei occhi l’immagine di ogni singola vetta, di ogni altura,di sentire il vento, il sole e penso che tutto questo l’hanno vissuto anche Alessandro Magno e Marco Polo. Ci vogliono 5 giorni per arrivare a Bozai Gumbaz dove sono stati avvistati i Kirgyzi.
Tanto la popolazione dei Wakhy è aperta e socievole, tanto i Kirgyzi sono diffidenti e restii ai contatti con persone esterne. Il permesso di restare ci è accordato, però è stato vietato agli uomini di fare foto. Ma i soldi fanno comodo a tutti e così il divieto è sciolto e la sera è stata organizzata una cena che prevede capretto, pesce di fiume e naan, il tipico pane afgano, il più buono che abbia mai mangiato!
Mi aggiro tra le yurte e le costruzioni fatte di fango e pietra. Vedo solo donne. Le seguo mentre vanno a prendere l’acqua o fanno rientrare gli animali nei recinti, o cucinano per noi. La nostra guida ci spiega che il colore del copricapo che indossano, distingue le sposate dalle nubili: bianco per chi ha un marito; rosso per le nubili.
Siamo rimasti solo una giornata al villaggio. Sono stata fortunata a fotografare i Kirgyzi, poiché è una di quelle popolazioni le cui tradizioni sono a rischio di estinzione.
Mi piacerebbe tornarci una terza volta in questa terra e non per riprendermi il cuore che vi ho lasciato, ma per lasciarne altro.
L’arca è il progetto di Giulio Cesare Grandi che ha presentato a Travel Tales Award 2022 riscuotendo un successo unanime da parte dei Giurati.
Il fascino dell’India è la coesistenza, nella vita quotidiana, di passato e presente fusi nello stesso istante. E’ come se la ruota della storia girasse in continuazione e nello spazio di pochi metri si passa da un mondo primitivo all’era industriale, dal medioevo al mondo virtuale dell’informatica. Questo reportage vuole essere una piccola finestra sul mondo dei maestri d’ascia.
Forse NOE’, prima di costruire la sua Arca, è passato di qua! E’ il primo pensiero che mi sorge spontaneo arrivando, in un tardo pomeriggio di febbraio, in questo porto.
Una flotta di centinaia di navi di legno e la sensazione di essere finito sul set cinematografico di un film storico. Giganti in grado di solcare gli oceani. Sulla spiaggia un infinito cantiere ove ciascuna imbarcazione è costruita rigorosamente “a mano”,da uomini minuti, pezzo per
pezzo a partire dal singolo tronco di legno. Ogni nave è diversa dall’altra, vere e proprie opere d’arte, con un’ anima, una storia ancora prima di essere varata.
La costruzione è un insieme di tecnica, duro lavoro solo umano e preghiera per ingraziarsi ed invocare la protezione degli Dei.
Il Maramures è una regione a nord della Romania confinante con l’Ucraina.
In questa regione vi sono alcuni comuni in cui tutto il sostegno economico viene dall’agricoltura, ed è qui che sono state scattate queste fotografie.
In queste comunità, quello più mi ha colpito, è la vita delle donne, a cui è demandato non solo la gestione della casa e degli animali, ma in moltissimi casi accudiscono anche il marito.
Molte storie si assomigliano: Maria, che ha lavorato per anni in Italia come badante, è tornata ad accudire il marito molto malato; Ana vive sola dopo la morte del marito e continua ad accudire il bestiame di famiglia; Loana mi invita in casa ad assistere al funerale della loro regina trasmesso dalla televisione e mi parla del marito morto da poco per un tumore alla gola.
Tutte queste donne accumunate da una grandissima dignità e dalla voglia di farti sentire a casa. Donne come Gabriela che vive col marito e si prende ancora cura della casa e del figlio che sta tentando di aprire un museo di oggetti tipici e mi invita ad unirmi per pranzo, dopo esseri vestita in abiti tipici per una foto.
Questo sarà solamente il primo dei tanti pranzi fatti con diverse famiglie.
La cultura contadina è sempre presente e diverse donne mi mostrano orgogliose le loro pecore o le loro mucche ma, alla domenica, tutte in chiesa a pregare e partecipare alla lunga cerimonia ortodossa che a me sembra non finire mai.
Come da tradizione possono entrare in chiesa ma devono rimanere nella zona posteriore, possono andare nella zona anteriore solamente per baciare le icone.
La vita scorre lenta, al ritmo della vita contadina, ed alla sera, invece di stazionare davanti alla TV, ci si riunisce lungo la strada per scambiare due parole.
Dopo una settimana termina il mio viaggio e ne esco arricchito per aver trovato una ospitalità incredibile. Ripensando ai racconti su mio nonno, che di lavoro faceva il contadino, penso di aver visto come poteva essere la sua vita, molto più semplice ma decisamente più ricca della nostra.
La HW 61 da New Orleans a Saint Louis è un itinerario leggendario che accompagna il fiume Mississippi nel suo sonnacchioso scorrere verso il mare. Evoca nella mente e nell’anima quella fetta di terra Americana intrisa da quel genere musicale che è il blues del Delta.
Una strada è una strada, ma a volte è di più… una strada suona e canta. Ho guidato lungo questa pianura spesso simile alla mia terra, alla ricerca della sua musica, ho attraversato questi luoghi accompagnato dal Blues che usciva dalla radio costantemente ed ho raccolto immagini e parole testimoni di questo mondo che trasuda ancora del Blues.
Il blues nasce come canzone di protesta, nasce nelle piantagioni di cotone del delta Mississippi, dove le comunità di schiavi afroamericani lavoravano duramente, sottopagati e sfruttati.
Nasce al calar del sole nelle calde sere, nelle bettole dove s’incontravano per bere, suonare e cantare insieme.
I luoghi del blues sono parte inscindibile della tradizione e a livello storico sono una sorta di atlante, che si apre dinnanzi agli occhi di noi viaggiatori curiosi col suo patrimonio fatto di miti e leggende. In queste contrade sperdute nel nulla, questa musica è nata e cresciuta.
Il blues l’ho incontrato ovunque, al “Poor Monkey” al Reed’s o al Ground Zero, dove sul palco si esibivano bluesmen locali, ma anche al Lorraine Motel dove la storia dei diritti civili non si è fermata nemmeno davanti al brutale assassinio del Reverendo Martin Luther King. L’ho incontrato nei cimiteri dove i bianchi sono ancora da una parte e i neri dall’altra, sui murales che colorano le città che ti vedi passare lungo la “61”.
L’ho incontrato dal barbiere, perché è lì che lo si incontra veramente, oppure su quei divani sfondati che troviamo davanti alle case di legno, nelle vecchie piantagioni come fantasmi che non se ne vanno o lungo i binari di quella ferrovia che li ha portati via.
Questo è stato il mio viaggio e le sue sensazioni sono ancora dentro di me.
Certi viaggi fanno parte di noi ancor prima di partire. Fanno parte del nostro DNA da quando nasciamo, ci appartengono come se fosse un nostro diritto farli prima o poi, e quando riusciamo a partire per certe destinazioni non ci stupiscono neanche più di tanto perchè già ne conosciamo i dettagli, le cose che vediamo dall’altra parte del mondo appartengono già al nostro archivio dei sogni, alla galleria iconografica che giorno dopo giorno costruiamo nella nostra vita quando, dentro noi stessi, archiviamo le emozioni ed esse diventano il nostro modo di essere. Tutto questo è proprio quello che mi è successo quando sono partito la prima volta per l’Uzbekistan.
Chi se lo sarebbe mai immaginato: in due anni ci sono andato tre volte… Molte persone non sanno neanche dove si trovi questo Paese, alcuni non lo hanno neanche sentito nominare, altri non hanno neanche idea che la famosa Samarcanda si trova qui. Ma in Uzbekistan ci sono altre cose che abbiamo studiato sui libri di geografia come il Lago Aral, il quarto più esteso del mondo, che nel giro di soli trent’anni è stato completamente prosciugato da una scellerata politica agricola dei Bolscevichi che all’epoca governavano. Tanti altri hanno studiato a scuola la Via della Seta di Marco Polo e magari non sanno che una parte di quei 12.000 chilometri che uniscono Roma e Pechino passano proprio in territorio uzbeko. Adesso la situazione è forse più chiara per molti e tutti si sono fatti un’idea di dove cercare sul mappamondo…
Insomma siamo in Asia Centrale, circondati da Paesi ancor meno noti come il Tagikistan, il Turkmenistan, il Kazakistan e l’Afghanistan… Un territorio lontanissimo dal mare ma molto fiorente di commerci e scambi culturali… Culture sospese tra oriente e occidente, interi popoli che portano ancora ben chiare nella memoria storica recente le dominazioni sovietiche che ci sono state fino ai primi anni 90 del ‘900.
In tutta questa enorme area del mondo, ci sono montagne aspre e selvagge che hanno portato l’uomo a vivere a strettissimo contatto con le forze della natura e a vivere di pastorizia: il rapporto con gli animali diventa quindi quotidiano di rispetto e di sfruttamento. Gli animali vanno accuditi perchè forniscono carne, latte, uova, o forza lavoro. E in questa ottica va letto lo sport più diffuso e sentito da queste parti che non si trova in alcuna altra parte del mondo. Qui, nelle gole rocciose e aride dei monti del Pamir, tra gli sconfinati spazi del deserto del Kyzylkum o nella fertile valle dell’Amu Darya si svolge una competizione equestre chiamato Buzkashi, che letteralmente significa “Acchiappa la pecora” ed è proprio ciò che accade tra uomini e animali in un rito le cui origini si perdono nella notte dei tempi.
Un’amica mi aveva segnalato questa sentita tradizione locale e in occasione del mio secondo viaggio in Uzbekistan ho deciso di uscire dal tipico itinerario turistico fatto tra le bellissime città di Samarcanda (quella famosa per la canzone), Bukhara (famosa per i tappeti) e Khiva (Patrimonio dell’UNESCO e nota per le sue mura) e di mettermi alla ricerca di un Buzkashi in giro da qualche parte per vivere in prima persona questo evento popolare e fare un pò di foto che si preannunciavano come un evento decisamente suggestivo..
Sapevo che era probabile che sarei riuscito a trovarne uno da qualche parte cercandolo bene perchè queste competizioni si fanno in occasione di feste nazionali o religiose, o per festeggiare un matrimonio o la circoncisione di un bambino. Nei giorni in cui ero lì si celebrava in Navruz per dare il benvenuto alla primavera e un Buzkashi sarebbe stato davvero la parte di programma più originale della giornata.
Ma la mia ricerca è stata tutt’altro che facile, perchè qui siamo in Uzbekistan e ad oggi ancora non esiste un sito che dia le date certe di queste gare che sono sempre affollatissime di persone che si danno un vero e proprio passaparola su gruppi di Whatsapp o di Telegram, ma che non comunicano con ufficialità l’evento che resta quindi assolutamente spontaneo e incontrollabile. La cosa incredibile sono proprio i numeri: si arriva facilmente a migliaia di persone che si incontrano in un posto non segnalato e non controllato in alcun modo. Ma la ricerca in loco, invece è stata difficile perchè cercavo un Buzkashi e la gente non mi capiva… Nessuno sapeva cosa fosse, nessuno poteva aiutarmi: il motivo l’ho capito dopo un pò che cercavo…. In Uzbekistan il Buzkashi si chiama Kupkari oppure Uloq, non Buzkashi che è proprio il nome afghano dello stesso sport!
Una volta svelato l’arcano del nome, la ricerca è stata più semplice, ero nei pressi di Samarcanda e la gente mi ha indicato un paesino in cui si sarebbe svolta la competizione. Mi sono avviato con la mia Guida Locale alla ricerca del posto… Ci avevano detto che era una specie di cava in campagna, ma non erano stati troppo chiari… La ricerca doveva ancora essere perfezionata e le sorprese ancora non erano finite: quel giorno era festa, il 21 marzo infatti si celebra in Navruz, la festa che da il benvenuto alla Primavera e mentre andavamo verso il campo di gara, siamo passati in un paesino sperduto, oserei dire un caseggiato senza nome, nel quale ci hanno letteralmente bloccati e fatti scendere dal pullman per invitarci a casa loro a mangiare e bere in compagnia. Volevamo andare via per non perdere la gara che era il motivo del nostro viaggio fin lì, ma loro sono stati irremovibili: “il Kupkari lo organizziamo noi e finchè noi siamo qui con voi la gara non ha inizio” e così è stato.
Alle 10,30 del mattino ci hanno portati di peso in casa ad offrirci vodka e cetrioli, fagottini di carne e intingoli vari. Ci ha accolti una donna dalla vistosissima arcata dentale superiore interamente ricoperta di oro (da questa parte è un vezzo estetico che amano ostentare per motivi economici) che parlava un discreto inglese perchè era la professoressa di lingue della scuola. Lei ha fatto gli onori di casa offrendoci ogni genere di cibi, vodka e cognac che non potevamo rifiutare e che cercavamo di stemperare alternandoli con una tazza di the.
Qui la vita scorre lentamente, siamo a mezz’ora dal caos di Samarcanda ma qui il tempo sembra si sia fermato: la gente veste ancora in modo molto tradizionale con gli uomini che indossano il loro tipico berretto ricamato e le donne vestono con ampie gonne di velluto nero con fiori policromi e un evidente “stile Matrioska” completato con delle scarpe rigorosamente a sabot, aperte dietro come una elegante pantofola…
Mentre parlavamo con la padrona di casa il marito era fuori sotto al portico che gioca a scacchi con un suo amico incurante di tutto ciò che gli gira intorno come siamo ad esempio noi che benchè fossimo andati lì per fotografare eravamo invece noi i soggetti preferiti dalla popolazione locale che volevano farsi i selfie con noi non avendo praticamente mai visto dei pazzi turisti avventurarsi fino al loro villaggio per nessuna ragione e men che meno per andare a vedere il Kupkari! Noi eravamo per loro il vero elemento di attrazione e questo mi sembra chiaro e comprensibile.
Altri uomini sul retro di casa erano lì a fare scommesse ma non puntavano sugli esiti del Kupkari che ci sarebbe stato di lì a pochi minuti, ma facevano un gioco che ricorda molto da vicino il nostro gioco delle tre carte… Per queste persone il tempo non è un fattore importante, per loro la vita scorre senza grossi cambiamenti, per cui noi eravamo una vera attrattiva per tutti loro che venivano a guardarci con amichevole sincerità.
Ritirati i bicchieri del thè ci hanno finalmente detto che stava per iniziare il Kupkari e che dovevamo seguire una certa strada a piedi per arrivarci perchè lì non c’è altro modo per raggiungere i terreno di gioco.
Un chilometro a piedi e siamo arrivati: un enorme campo di terra grezza circondato su due lati con un terrapieno che serve agli spettatori come tribuna per godersi lo spettacolo a costo zero ma seduti a terra.
Le regole sono presto dette: un numero indefinito di cavalli e cavalieri (possono arrivare a 100 partecipanti su altrettanti cavalli) si contendono la carcassa di una povera pecora sgozzata per l’occasione e abbandonata a terra. I cavalieri non sono divisi in squadre, ma giocano ciascuno individualmente. Partono al galoppo verso il povero corpo che giace a terra senza vita e senza fermare la corsa nè scendere devono prendere il corpo della pecora (circa 35-50 chili), caricarselo sul cavallo e consegnarlo in un punto convenuto per prendere un piccolo premio in denaro (20 Euro circa) e un regalo di modesto valore come potrebbe ad esempio essere una camicia di imitazione italiana o un tappetino da preghiera.
La competizione è molto dura, forte da vedere, il corpo morto della pecora viene conteso senza esclusione di colpi tra i cavalieri che possono letteralmente strapparlo di mano all’altro contendente che lo aveva preso e sperava di riuscire a difenderlo… Al nostro occhio occidentale di certo può sembrare un maltrattamento nei confronti degli animali, anche e soprattutto dell’uso che viene fatto della pecora morta, ma occorre tenere presente che lì il rapporto tra uomini e animali non è fatto di amore ma di necessità.
Prima di iniziare l’Imam della Moschea benedice i partecipanti che se la rischiano anche in certi momenti di lotta corpo a corpo, poi parte la sfida con numerosissime cariche al galoppo che vanno a raccogliere la povera pecora che viene straziata durante il trasporto e le dispute tra i cavalieri.
La partecipazione ad un evento del genere è un’esperienza che coinvolge tutti i sensi, non si può rimanere indifferenti, si vive ogni istante in un modo immersivo: le urla della gente, la puzza dei cavalli che si mescola con i fumi della carne grigliata, il sole che batte sulla testa e il sapore della polvere che arriva fino in gola, gli occhi che osservano attraverso l’obiettivo della fotocamera.
Non si può stare in un Kupkari senza sentirsene parte integrante, senza vivere in prima persona il brivido di una carica di 30 cavalli che ti corrono incontro al galoppo e rischiano di travolgere chiunque pochi istanti prima si sentisse al sicuro in un’area protetta… E anche ad un osservatore esterno come può essere un occidentale, di questa giornata resta molto di più delle foto scattate, restano i sorrisi e l’ospitalità dei locali, resta il segno indelebile del cuore che batte quando ci sentiamo in pericolo, resta l’assaggio di una grande cultura.
Prima di partire mi ero documentato moltissimo sul web e avevo persino trovato un film afghano bellissimo: Buzkashi Boys che racconta la storia di questo ragazzino che sogna di salire su un cavallo e andare a prendere la sua pecora e vincere, un corto di 27 minuti che però mi fece emozionare non poco quando vidi come era girato, la forza delle immagini che conteneva…
Cercando in internet mi è capitata un’altra scena di un film molto più famoso: Rambo 3 girata in cui il protagonista Sylvester Stallone irrompe con il suo cavallo in mezzo al deserto a gareggiare al galoppo per prendere la malcapitata pecora.
Fatti i convenevoli, quando vengono ritirati i bicchierini del the, l’ospite deve capire che il padrone di casa lo sta invitando ad alzarsi per iniziare a prendere congedo. Ci si ringrazia a vicenda per l’ospitalità e la compagnia, ma quando arriva il momento bisogna salutarsi e andare. Non è mai l’ospite ad andare, ma il proprietario della casa a prendere l’iniziativa.
Foto e parole di: Roberto Gabriele
Se ami viaggiare, ma viaggiare veramente, Samarcanda non può mancare tra i viaggi che devi fare, o che hai già fatto. E anche se non ci sei mai stato, sai già che Samarcanda si trova lungo l’antica Via della Seta, la strada carovaniera che univa l’Oriente e l’Occidente, Pechino a Roma passando per tutta l’Asia Centrale, la Turchia, i Balcani per arrivare in Italia. La via percorsa da Marco Polo.
Samarcanda quindi non è solo il titolo di una famosa canzone nè di una città mitica e ormai scomparsa, anzi… Samarcanda oggi è una città frizzante, piena di vita e di turismo, che mantiene integra la sua bellezza antica insieme ad uno stile di vita occidentale ma allo stesso tempo molto legato alle tradizioni.
Siamo in Uzbekistan, molti di noi non lo hanno neanche studiato a scuola, semplicemente perchè all’epoca non esisteva neanche sulle carte geografiche, era ancora una delle tante, sconosciute, Repubbliche Sovietiche.
Vedere questa città per molti viaggiatori è vivere un sogno che magari attende da 10 o 20 anni di essere realizzato. Arrivare qui ed entrare nella Piazza Registan illuminata al tramonto è un’esperienza che ti lascerà senza fiato, sentirai un senso di appartenenza a qualcosa che già faceva parte del tuo DNA.
A Samarcanda la cosa più famosa sono le tre enormi madrasse, ossia le scuole coraniche che con i loro minareti costituiscono i tre lati di una piazza di rara bellezza. Le madrasse sono aperte al pubblico dei visitatori anche non musulmani: qui l’Islam è una religione molto sentita perchè moderata, pacifica e accogliente. Gli Uzbechi sono un popolo sorridente, e sorridendo mostrano con orgoglio i denti d’oro che nella loro cultura vengono apprezzati come un vezzo estetico e come status symbol del livello sociale.
Il periodo d’oro di questo Paese fu quello di Tamerlano, un conquistatore che creò un regno enorme ed efficientissimo, la Via della Seta qui mostra ancora i suoi antichi splendori con edifici decorati con maioliche coloratissime e disegni geometrici che a ben guardare sono versetti del corano stilizzati. Sono stato già 3 volte in Uzbekistan a fare foto: la lunga strada che attraversa il Paese, i suoi caravanserragli, le stazioni di sosta degli animali, i mercati straordinari di scambio delle merci ancora oggi si distinguono per la varietà dei prodotti che si possono trovare. Dai tappeti alle sete più raffinate, dall’artigianato al pane che si presenta in ogni forma e viene cucinato con le tecniche più diverse che merita un’attenzione particolare.
I commerci nei secoli hanno unito culture lontane, hanno fatto incontrare viaggiatori lungo le loro strade, hanno portato benessere a chi li ha praticati e a chi di essi si è giovato per migliorare la propria vita. In effetti qui la gente sta bene, c’è una cultura molto pacifica e accogliente nei confronti di chi passa in viaggio da queste parti e si ferma anche solo per un thè prima di riprendere il suo cammino.
Viaggiare lungo la Via della Seta ti fa sentire molto forte proprio questa “presenza” di altri viaggiatori che prima di te hanno percorso quella strada, trovandola nei secoli sempre uguale a sè stessa, con le sue moschee e minareti, le stazioni di posta, le botteghe degli artigiani che ancora oggi si affacciano su di essa. La Via della Seta va vissuta dai viaggiatori di oggi come quelli del passato nel ricordo e nella percezione della sua importanza storica e culturale.
In tutto l’Uzbekistan, il 21 marzo si celebra il Navruz: la festa più importante dell’anno che in tutto il Paese da il benvenuto alla Primavera. In ogni quartiere, in ogni città, in ogni villaggio del Paese ci si riunisce per festeggiare con riti che richiamano alla tradizione uzbeka.
I festeggiamenti possono essere celebrati in vari modi a seconda delle usanze del luogo. Mi è capitato di vedere due volte questa festa, in un villaggio piuttosto isolato nei pressi di Samarcanda. Occorre arrivarci, sapere dove si trovano certi eventi perchè assistervi non è così semplice, spesso si rischia di arrivare solo ad una tavolata comune a cielo aperto, una sorta di pranzo di quartiere… Io invece con la mia guida sono riuscito ad arrivare in questo posto nel quale più che una vera piazza come la intendiamo noi c’era uno slargo sterrato tra le casette dell’agglomerato urbano e lì si svolgeva la festa.
Gli uomini, riuniti in quadrato intorno ad un grande tappeto da gara imbottito come una sorta di tatami artigianale, si esibiscono rigorosamente tra loro in un torneo di Kurash, la lotta libera locale nella quale sono fortissimi. Gli incontri durano pochi minuti, il giudice di gara non è una persona ma è tutto il pubblico che testimonia la regolarità dell’incontro. Gli atleti si presentano scalzi sul campo di gara indossando i vestiti di tutti i giorni, quelli con i quali vanno al lavoro nei campi, niente divise, nessun abbigliamento da gara, niente rituali di preparazione: la lotta non è violenta e non prevede colpi, ma solo leve di forza per mettere l’avversario con le spalle a terra. Il vincitore dell’incontro porta a casa premi in natura come ad esempio una gallina viva, o un sacco di 25 chili di riso.
Mentre gli uomini lottano, sul lato opposto della piazza, le donne sono invece tutte vestite a festa con abiti coloratissimi dai tipici disegni uzbechi che ricordano molto da vicino le matrioske con i loro fazzoletti annodati sulla testa e un tipo di trucco che unisce le sopracciglia rendendo sul viso l’effetto di una specie di onda molto caratteristico. I loro vestiti sono pieni di merletti, di ricchi copricapo decorati, a vestire con grande eleganza e femminilità. Si esibiscono in danze e improvvisate, sfilate di moda che servono alle ragazze anche per trovare marito mostrandosi nel migliore dei modi a quelle che sono le loro potenziali future suocere che potrebbero intercedere a loro favore nei confronti dei figli maschi. Non pensare a matrimoni combinati, a obblighi di sposarsi con persone stabilite dalla famiglia, vedila piuttosto come una presentazione informale tra le famiglie che esprimono in partenza il loro gradimento per il formarsi della coppia che poi è completamente libera di piacersi o no.
Le donne danzano con grazia e con gioia mentre i loro uomini combattono. Questo è il Navruz, ma non finisce qui. In altri villaggi la disputa si fa con uno sport chiamato Buzkashi. Si tratta di una gara piuttosto cruenta nella quale la palla è sostituita da una pecora decapitata che ha le modalità di contesa tipiche del rugby fatto però a cavallo e la pallacanestro poichè per segnare punti il malcapitato animale viene gettato in una buca o in un pneumatico di camion. Si tratta di feste davvero isolate, momenti di grande tradizione e storia ai quali è difficile assistere sia perchè lontani dai normali percorsi turistici, sia perchè occorre avere una buona guida che sappia trovarli e anche questo non è assolutamente facile, nè è sicuro che si riesca ad assistervi.
Per tutti , poi, il Navruz termina con una enorme tavolata in strada a cui prende parte tutto il villaggio e i fortunati ospiti che sono riusciti ad arrivare fino a lì come è stato nel mio caso. Anche questa va vista con un occhio attento alla cultura, la tavolata infatti si fa nelle case, non in strada, ed è rituale: ha una apparecchiatura estetica e molto curata con cibi che hanno un valore simbolico, come ad esempio i dolci che sono l’augurio ad un anno dolce, un piatto con germogli di grano fioriti che rappresentano la fertilità della terra, i frutti della campagna che sono arance e mele che per il loro odore rappresentano il piacere e la frutta secca, tipico cibo dei viandanti. Il tutto accompagnato rigorosamente da una tazza di thè caldo. Nelle tavolate in piazza invece mangerai grigliate di pecora, maiale, manzo e salsicce tipiche, il tutto condito con buonissime salse di ceci o di sesamo.
In alcuni casi, infine, potrà ancora capitarti di vedere i salti rituali del fuoco a fine serata. Sono dei riti di passaggio e prove di ardimento, viene celebrato l’alternarsi delle stagioni saltando dei falò che vengono arsi in strada. Oggi questo tipo di rito è più raro da vedersi perchè ci sono normative di sicurezza che in città impediscono di appiccare incendi nelle strade, può capitare di vederli ancora ma sempre più raramente nelle campagne.
E se vuoi seguire le mie tracce alla ricerca delle particolarità più belle dell’Uzbekistan, devi proprio uscire dagli itinerari tradizionale turistici, lasciare la Via della Seta alle tue spalle e proseguire verso nord, seguendo la strada diretta in Kazakistan, e arrivare sulle sponde di quello che fu il Lago Aral, lì ci sarai solo tu. Ci vuole un intero giorno di auto da Khiva per arrivare fino qui. Un angolo di mondo completamente sconosciuto al turismo che è il teatro di uno dei più grandiosi scempi ecologici della storia: un intero lago di 300 chilometri di diametro è stato completamente prosciugato per irrigare i campi di cotone che si trovano a monte del fiume immissario.
Oggi il lago Aral è un deserto arido e salato sulle cui sabbie giacciono centinaia di barche arrugginite ormai definitivamente arenate su quello che un tempo era il fondo. Dal punto di vista fotografico è una situazione bellissima in cui scattare, ma dal punto di vista sociale ed economico questa è una piaga della quale dopo più di 30 anni ancora non si riesce a riprendersi, ormai il lago è definitivamente morto. La gente che viveva di pesca sulle sue sponde, di commercio e trasformazione del pesce è rimasta senza lavoro e la vecchia enorme fabbrica in cui veniva inscatolato, è ormai un luogo decadente e abbandonato, nella città semideserta restano ormai solo pochissime persone. Per arrivare fin qui occorre un intero giorno di auto da Khiva, poi occorre cambiare i mezzi e prendere i fuoristrada per poter entrare in sicurezza sul fondo ormai desertico del lago e spostarsi alla ricerca dei vecchi relitti navali.
Dopo il lago Aral, inizia il rientro verso casa, in aereo si ritorna alla capitale Tashkent per poi tornare con un volo via Mosca. La Via della Seta è ormai lontana, ma sento ancora la grande influenza che ha avuto nella mia vita e nella mia voglia di conoscere, scoprire e fotografare il mondo.
Sono a Paro (Bhutan) per assistere allo Tsechu 2019, una delle festività religiose più importanti del Buddismo Tibetano.
Mi ritrovo catapultata in un mondo fuori dal tempo, inizialmente l’obiettivo è quello di documentare l’esibizione di teatro/danza dei monaci che si svolgerà davanti al Tempio. Dopo pochi minuti sono talmente assorbita, nel vero senso della parola, dalla calca sugli spalti che finirò per dimenticarmi dello spettacolo.
Non è facile muoversi ne’ camminare liberamente, la gente è tanta e tende ad aumentare con il passare delle ore, per lunghi momenti sono bloccata in mezzo ad una folla eccitata e coloratissima in cui a causa del mio abbigliamento scuro non riuscirò mai a mimetizzarmi, non mi resta altro da fare che immergermi in questa colorata umanità.
Accade tutto nella maniera più spontanea, ogni gruppo di persone presso le quali mi fermo mi accoglie come una di loro. La caratteristica degli Tsechu è che non ci sono quelli che noi chiamiamo “punti di ristoro” tutto il necessario per la giornata è portato da casa, io sono piuttosto impreparata e ho con me solo la macchina fotografica, così mi ritrovo a condividere snack e succhi di frutta potendo ricambiare solo con un sorriso.
Non avrò più modo di guardare l’esibizione dei monaci, un muro umano si frappone tra me e le danze, il mio spettacolo inaspettato sarà la gente, farò parte delle loro risate, dei loro momenti di gioco, delle loro arrabbiature, delle loro preghiere e anche dei loro malori; è una tipica giornata dell’autunno Himalayano, si passa in un attimo dalla pioggia al sole battente ed è facile rimanere storditi senza la possibilità di trovare un riparo.
Continuo ad avanzare lentamente tra le famiglie in festa, scattando foto non a tutto quello che vedo ma a tutto quello che vivo, sentendomi parte integrante di questa straordinaria comunità chiamata mondo.
Mi piace immaginare che per le persone che ho conosciuto quel giorno, lo Tsechu 2019 verrà ricordato anche per l’incontro con uno strano personaggio che si aggirava sugli spalti con una macchina fotografica. Ero senza cibo ne’ acqua ma cercavo di interagire con tutti attraverso gesti gentili e sorrisi.
Mettersi in viaggio in fondo vuol dire entrare per assistere ad una rappresentazione teatrale e ritrovarsi a partecipare ad uno spettacolo di vita.
Alla fine del 2019, inizio a viaggiare per le città e i villaggi Kurdi documentando i sacrifici dei peshmerga curdi nella lotta per reprimere l’ISIS.
Il progetto mi ha portato nelle province del Kurdistan iracheno a parlare con diverse centinaia di Peshmerga, scattando ritratti intimi dei combattenti feriti, delle loro famiglie e documentando sia le storie della battaglia che le loro continue lotte per navigare nella vita post-conflitto.
Attraverso il lavoro ho trovato storie di immensa sofferenza. Combattenti che hanno imbracciato le armi, non perché fossero obbligati a farlo, ma perché era giusto ed era quello che si doveva fare.
Questi uomini, spesso combattendo fianco a fianco con fratelli, zii, cugini, padri e figli, sapevano che era in gioco la libertà e la sopravvivenza del loro popolo.
Mentre raccontavano le storie di aver visto la famiglia e gli amici uccisi davanti a loro, e di battaglie a cui non si aspettavano di sopravvivere, piangevano contemporaneamente per le perdite e per l’orgoglio di ciò che i loro compagni avevano fatto.
Quasi tutti gli uomini hanno mostrato gravi lesioni fisiche. Braccia, gambe e occhi persi. Corpi così crivellati di ferite da proiettili e schegge che il semplice movimento creava un dolore tremolante.
Questi uomini mostravano anche i segni del pesante fardello dei traumi mentali, del disturbo da stress post-traumatico e dei ricordi che non li avrebbero abbandonati. Nonostante tutto quello che hanno sofferto, hanno spesso detto che sarebbero tornati di nuovo alla lotta se mai fossero stati chiamati a farlo. Lo farebbero per i loro figli, per le loro famiglie, per la loro gente e per il resto del mondo.
Tragicamente, la loro sofferenza non finisce con il ritorno a casa poichè lì gli uomini affrontano nuove sfide, come ottenere arti protesici, cure continue e devono provvedere alle loro famiglie nonostante le lesioni debilitanti e altro ancora.
Inoltre è questo il momento in cui si chiedono se darebbero tutto per aiutare a proteggere il mondo, se il mondo li aiuterà o li dimenticherà ora che hanno riposto le loro armi.
Infine spero che, attraverso questo lavoro di esplorazione delle questioni umanitarie di conflitto e postbellico, il mondo possa capire meglio ciò che i Kurdi, la loro terra e le loro famiglie hanno subito e con loro, di fatto, tutto il resto del mondo.
Finalista al Travel Tales Award 2021
Trovati gli sponsor, ricevute le Yaris gentilmente offerte da Toyota, eccoci al via verso la Russia. Siamo in tre: il grande viaggiatore, io ed il cameramen.
Questa volta andiamo alla ricerca di Rasputin. Il tempo sembra porti neve quando raggiungiamo Tyumen , siamo poco distanti da Porovoskoe, la nostra meta.
Il tempo psembra essersi fermato. Le casette colorate, ma sbiadite, non danno segni di vita. Un piccolo market sembrerebbe essere l’unica cosa nuova. L’emozione è grande.
Il sogno è diventato realtà. Siamo a Porovoskoe, il villaggio in cui Rasputin nacque e da cui un giorno partì a piedi per San Pietroburgo, anzi alla sua conquista. Noi abbiamo però un compito, trovare Victor, e lo troviamo.
E’ lui il frutto del peccato tra la sua bisnonna e Rasputin, ecco il legame che lo lega e lo fa assomigliare al mitico consigliere mistico russo. Ci accoglie, si traveste e ci racconta la sua storia. Impreca, gesticola, chiede sigarette, ci sfida ma non ha timore delle nostre macchine fotografiche.
La strada ci aspetta, dopo questo fantastico incontro il nostro compito è quello però di ripercorrere a tappe il suo percorso verso San Pietroburgo.
Raggiungiamo così Kurgan per arrivare a notte fonda a Celjiabinsk. Grande città ricca di palazzoni tristi…
Gli Urali ci attendono… il viaggio è ancora lungo. Arriviamo a NiznyNovgorod dopo una tappa di 12 ore di guida, di neve e di ghiaccio. Siamo stanchi ma non molliamo. Ecco all’orizzonte a San Pietroburgo.
Visitiamo la città, si respira il Natale. La neve la rende più bella, romantica, misteriosa. Ripercorriamo i luoghi storici a completamento della storia di Rasputin: la casa Jusupov e il fiume Neva dove lo hanno gettato dopo averlo assassinato. Chiediamo di Rasputin a tutti, ma le risposte sono forzatamente poche.
Il mistero continua. Santo o avventuriero, profeta o visionario, bandito o gentiluomo, non sapremo mai chi era veramente Rasputin, credo sia giusto così. La storia deve continuare con i suoi segreti, con i suoi dubbi, con le nuove scoperte… A noi rimane il ricordo d’aver toccato la Siberia, la terra che dorme, e forse senza volerlo ci ha cambiati dentro.
Questa è la storia dell’Ultimo Zampognaro d’Italia. Dicembre è il mese di Natale, e mentre la tradizione anglosassone porta l’immaginario collettivo tra renne e abeti innevati accompagnati dal suono di jingle e campanelle, le atmosfere legate al Natale italiano si caratterizzano con presepi, paesini illuminati e per il caratteristico e inimitabile suono delle zampogne.
In Molise c’è Scapoli, il paese delle zampogne: qui persino la musica di attesa del centralino del Comune è suonata con la zampogna.
Scapoli è il tipico paesino appenninico adagiato sul costone della montagna: ci troviamo in Provincia di Isernia, ai piedi del Monte Marrone, nella catena delle Mainarde, teatro dell’omonima Battaglia del 31 marzo 1944 che servì a far indietreggiare la linea Gustav dell’esercito tedesco arroccatosi sulla cima. Oggi solo 600 anime popolano questa piccola località che in 20 anni si è quasi dimezzata per numero di abitanti.
Scapoli è una località fuori dal tempo che cerca di resistere alla fuga dei giovani verso le città: il centro storico ha solo una strada che è il corso del paese, l’ufficio postale, il Comune e 2 bar che sono il vero centro centro di aggregazione sociale degli Scapolesi, ovviamente c’è la chiesa, un minimarket e un camioncino che porta la frutta fresca in piazza ogni giorno. Alla sommità del paese ci sono i bastioni fortificati della città vecchia e il Cammino di Ronda che ancora oggi costituiscono la passeggiata da fare nelle sere d’estate.
A metà aprile a Scapoli può anche nevicare: siamo alti in quota e siamo lontani dal mare, le stradine sono deserte e silenziose, tra i suoi vicoli si sentono solo i garriti delle rondini che riempiono il cielo, nessuna voce, nessuna auto, nessuna musica: a Scapoli si può perdere l’equilibrio perchè il silenzio è talmente profondo da essere destabilizzante.
Ma il paese si riempie di orgoglio due volte all’anno: a Carnevale quando viene fatta la festa del Raviolo Scapolese, e d’improvviso il paese si riempie di migliaia di persone che vengono a mangiare questa specialità che non ha uguali nella cucina italiana: è un raviolone enorme, la porzione normale ne prevede solo 3 in un piatto. Poi per mesi, si ritorna nel silenzio fino a fine luglio quando c’è il Festival Internazionale della Zampogna (da due anni sospeso a causa del covid) il quale raccoglie ancora più persone che arrivano fino qui per partecipare a questo evento unico al mondo. Poi di nuovo il silenzio e la vita tranquilla con i ritmi di una volta, quelli che mancano a chi vive in città…
Nel 2014 alla zampogna di Scapoli è stato persino dedicato un francobollo di Poste Italiane proprio per celebrare il valore culturale di questo strumento musicale, inoltre qui si trova il Museo Internazionale della Zampogna, purtroppo anche questo al momento è chiuso a causa della pandemia e per successivi lavori di ristrutturazione che promettono saranno finiti nella primavera 2022.
Ma la zampogna non va vista in una bacheca, va ascoltata, va vissuta come i pastori, insieme ai pastori: è uno strumento che non può prescindere dalle sue origini. Strumento antichissimo, usato già dagli antichi romani (che all’epoca lo chiamavano Utriculus ossia “otre”), la zampogna è parte integrante del rapporto tra l’uomo e le sue greggi. L’esperienza più straordinaria alla quale si possa assistere è ascoltare il suono della zampogna in montagna, con i musicisti vestiti da pastori con i loro gilet di pelliccia, i camicioni bianchi o a quadri, i pantaloni di velluto alla zuava infilati nei calzettoni di lana e con le tipiche “ciocie” ai piedi e annodate sui polpacci: La ciocia è la scarpa che qui un tempo era così diffusa tra la gente da dare il nome di Ciociari a tutti quelli che le indossavano e anche la Ciociaria (che si stende in tutto il basso Lazio tra le provincie di Frosinone e Latina) prende il nome da questa gente e dalle loro calzature. Tutti vecchi ricordi, tradizioni ancora vive nel cuore della gente che però li ha persi nel loro valore di quotidianità…
L’unico eroe che è rimasto attaccato in tutti i sensi alla cultura della sua terra è il Maestro Franco Izzi. Un uomo, un pastore, l’ultimo zampognaro rimasto che ha deciso di vivere e lavorare costruendo zampogne, altri artigiani realizzano zampogne, ma lui è l’unico che ancora lo fa per professione.
Sono stato un paio di giorni con questo uomo forte e deciso, di solidi principi e dal carattere apparentemente introverso. In realtà Franco Izzi dietro la sua coriacea scorza da pastore, da montanaro, nasconde una grandissima voglia di socializzare e di condividere il suo sapere, la cultura popolare nella quale è cresciuto e della quale è un vero ambasciatore con noi “gente di città”.
Ero andato fino a Scapoli per intervistarlo, per fargli un pò di domande sulla sua musica, sul suo lavoro, sulle zampogne… Al primo incontro mi ha spiazzato: non ci eravamo mai visti ma lui mi ha accolto come un vecchio amico invitandomi a pranzo, un indimenticabile pranzo frugale e straordinario: si mangia quello che c’è, come si farebbe con un ospite di famiglia.
Capii subito che c’era molto da imparare da quest’uomo. Un bel piatto di pasta, una bistecca di bovino allevato in libertà e una bella insalata mista. Semplice e naturale. Osservai le grandi mani di Franco abbracciare il pane e tagliarlo con cura, con il rispetto rituale che si ha per le cose sacre. Quelle mani sagge mi davano sicurezza, mani forti di campagna abituate a lavorare: mani da zampognaro, così diverse da quelle di un pianista.
La casa di Franco la trovai bellissima, senza tempo, il calendario in cucina fermo a dicembre 1956, tutto era semplice e incredibilmente accogliente, senza fronzoli: pietre a vista sui muri, un tavolo, le sedie, una poltroncina e il caminetto che, oltre a riscaldare l’ambiente, ci è servito per cucinare la bistecca. Davanti a noi i suoi quattro cani, ordinatamente seduti sul divano, ci osservavano armeggiare per preparare il pranzo.
Franco è un filosofo, ha il buon senso tipico della brava gente, di quelli che vivono tra regole dalle quali vorrebbero scappare. Il tempo a tavola con lui è volato veloce: i sapori, i profumi, gli argomenti di discussione sono stati vari ma ancora non riuscivamo a parlare di zampogne… Ero venuto apposta per parlare di questo, ma mi accorsi che c’era molto di più in quest’uomo da ascoltare, da imparare… Dopo pranzo, verso le 15, mi fece fare il giro di casa: nell’altra camera c’era il pc, la tastiera con la quale studia musica…
Ad un certo punto si allontanò e quando ritornò era vestito da zampognaro: quello era il momento di parlare di musica e Franco iniziò ad indossare i panni del grande esperto: mi parlava di toni, semitoni, ottave e chiavi, mi spiegò esattamente come funziona la zampogna, la sua storia, le dimensioni, le difficoltà per suonarla e gli accorgimenti costruttivi per costruirla, mi parlava di bordone e di canto, di otre e di campana…
Io lo ascoltavo affascinato senza purtroppo riuscire a capire altro che la sua enorme passione, la competenza che metteva e mette ancora oggi nel suo lavoro. Mi rendevo conto di avere davanti a me una pietra miliare, un testimone e un protagonista della storia della musica tradizionale italiana, questo clima di armonia mi ispirava a fotografare ogni cosa che avevo davanti ai miei occhi in quel momento.
Franco mi parlava con comprensibile orgoglio del suo “Bordone Modulabile” da lui inventato e poi brevettato a Campobasso: una innovazione che ha portato la zampogna a diventare uno strumento completo, ovvero con la possibilità di avere tutto il giro armonico della propria tonalità. Una lezione di musica, di scale, di tonalità e armonie… Pur non capendo restavo incantato ad ascoltare il suo modo di esporre i concetti.
Ma in casa si parla tra persone, ma per parlare di musica siamo scesi dove la musica si costruisce, ossia nella bottega. “Casa e bottega” si dice, e qui è davvero così: alla bottega si accede direttamente dalla scala interna di casa.
E mentre io impazzivo in quella bottega profumata di essenze di legno stagionato e per quella luce con intensità variabile “a zone” diversa in ogni angolo della stanza, Franco mi mostrava con le sue mani forti tutti i procedimenti costruttivi delle sue zampogne. Eccolo quindi a raccontarmi della realizzazione dell’ancia e la tornitura delle canne. Poi mi mostrava i suoi legnami invecchiati per 8 lunghi anni prima di poterli lavorare per farli diventare canne o bordoni di una zampogna…
Franco il suo museo della zampogna privato se lo è fatto nel laboratorio e tra una spiegazione e l’altra mi portò fuori, nel vicoletto, poi si mise nascosto dietro una delle finestre del Cammino di Ronda che faceva da cassa armonica e abbracciando la sua zampogna da 32 iniziò a suonare riempiendo delle sue note tutta la valle.
Una sorta di flash mob con il quale marca di tanto in tanto il territorio: il suo concerto improvvisato serviva a ricordare a tutti che lui è veramente l’ultimo zampognaro.
Ma l’indomani Franco mi invitò di nuovo a pranzo: per me aveva ancora qualcosa di veramente speciale, prima di salutarci decise di esibirsi in un concerto privato solo per me al Monumento ai Caduti di Monte Marrone. Un momento veramente toccante, vibrante, un grande omaggio a tutte le Vittime della guerra cadute da ambo le parti.
Franco non esitò neanche un attimo: si arrampicò a diversi metri di altezza su una serie di blocchi di cemento sovrapposti (uno per ciascuna Regione Italiana) e da lì sopra iniziò a suonare le sue note: la “Ninna nanna del bambino” un pezzo appositamente composto da lui per questo luogo. Salì in alto perchè il vento potesse portare la sua arte lontano e donarla a chi non ha potuto ascoltarla in vita…
E sulle note potenti e acute delle ance della zampogna arrivò per me il momento di tornare a casa. Grazie, Maestro: mi hai donato la tua amicizia, la compagnia dei tuoi cani, la luce del tuo laboratorio che odora di legno resinoso… E infine mi hai regalato l’arietta fresca delle tue verdi montagne molisane.
Foto e parole di Roberto Gabriele
Comunque sia, l’epica (o più correttamente la contro-epica) della sconfitta è ciò che rende umani quegli eroi originariamente predestinati, ma che alla fine non ce l’hanno fatta, come accade a volte “all’uomo qualunque che è il vostro papà”( BattistiMogol) nell’affrontare certi giorni della vita.
“Elogio della sconfitta” lo ha definito una maestra, Rosaria Gasparro, in piccolo testo dal senso educativo che circola da un po’ sulla rete, memore di quella “nobiltà della sconfitta” pubblicato da Ivan Morris negli anni ’70. E probabilmente è quella fragilità del perdente che ci fa sentire umanamente vicini ad uno come il capitano della marina inglese Robert Falcon Scott.
Se possibile, uno al quale è andata ancora peggio di un leggendario secondo come Dorando Pietri: oggi, 14 dicembre 2021, ricorrono i 110 anni dalla conquista del Polo Sud da parte di Roald Amundsen, che precedette di soli 34 giorni la spedizione guidata appunto dal capitano Scott. Il quale, dopo aver perso il primato, nel viaggio di ritorno perse anche la vita per una serie di circostanze avverse insieme ad altri 4 compagni, Edgar Evans, Edward Wilson, Henry Bowers e Lawrence Oates.
“Dal 21 abbiamo avuto una tempesta da ovest-sud-ovest e sud-ovest – si legge nell’ultima pagina del diario di Scott datata giovedì 29 marzo 1912 – avevamo combustibile per fare due tazze di tè a testa e cibo per due giorni, il 20.
Ogni giorno eravamo pronti a partire per il deposito a sole undici miglia da qui, ma fuori della tenda infuria la tormenta.
Non penso che si possa più sperare. Lotteremo fino all’ultimo, ma stiamo diventando sempre più deboli e, naturalmente, la fine non può essere lontana.
Peccato, ma non credo di poter ancora scrivere. Abbiamo corso dei rischi. Sapevamo di correrli. Le cose si sono rivoltate contro di noi. Non abbiamo motivo di lamentarci. Se avessimo vissuto, avrei avuto un racconto da fare sulla durezza, resistenza, e coraggio dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni inglese. Queste rozze note e i nostri corpi morti dovranno raccontare questa storia.”
E poi l’ultima nota, lucidamente rassegnata, “Per l’amor di Dio, pensate ai nostri parenti.”
Eppure, nonostante il fallimento della missione, è proprio Robert Scott piuttosto che Amundsen ad essere circondato da un’aura leggendaria . A lui sono dedicati libri, fra i quali “Ultimo parallelo” di Filippo Tuena, uno dei romanzi italiani più importanti degli anni Duemila, una canzone certamente non indimenticabile (www.youtube.com/watch?v=YM7oBjeQuyQ) , e un profilo Twitter (https://twitter.com/captainrfscott) che in 2797 tweets tratti dai diari di Scott ne ripercorre tutta la vicenda, fino a quell’ultimo “tweet” del 29 marzo. I diari di Scott, appunto: se l’uomo che accetta di perdere suscita simpatia, questo comunque non basta alla costruzione del mito, c’è dell’altro.
A differenza di Amundsen, un ordinario elencatore di eventi, Scott era molto bravo con la parola scritta, un autentico narratore che ha reso i suoi diari avvincenti, oltre che ricchi di informazioni preziose. Ma soprattutto, per comprendere la fortuna postuma di Scott basta guardare queste foto, che ci catapultano immediatamente nel cuore di una storia simile a un film, resa ancora più affascinante dalla consapevolezza dell’epilogo tragico.
Se Amundsen portò con sé una macchina fotografica che si ruppe abbastanza presto durante il viaggio, per cui la maggior parte delle foto sopravvissute sono quelle scattate da Olav Bjaaland con la propria macchina fotografica, certamente non un fotografo esperto, Scott, già consapevole della grande efficacia comunicativa della fotografia, portò con sé il fotografo professionista e direttore della fotografia Herbert Ponting.
E proprio le foto di Ponting si possono considerare le principali artefici della costruzione di un monumento alla memoria della spedizione Scott, un documento di grande bellezza formale oltre che di narrazione non convenzionale per l’epoca, fatto soprattutto di momenti in-between. Come non sentirsi coinvolti dalla calda atmosfera di chiacchiere miste all’odore di tabacco che si crea davanti alla stufa a legna, o dei momenti di relax nella stanza delle cuccette; come non immaginare i momenti di solitudine di quegli uomini dai pensieri rivolti ai propri cari lontani mentre coltivano una strana normalità, suonando un pianoforte o giocando con dei pinguini.
Scott e gli altri 4 compagni furono ritrovati un paio di settimane più tardi dai sopravvissuti della spedizione, che per commemorarli eressero una croce di legno con l’iscrizione di un verso dell’Ulisses di Tennyson: “Lottare, cercare, trovare e non arrendersi”.
Lisbona è una Capitale a misura d’uomo, una città “mediterranea” che si affaccia sull’Oceano Atlantico, questo che sembra un ossimoro geografico in realtà non lo è dal punto di vista culturale! Pur essendo lontana dai nostri mari, Lisbona già esisteva in epoca Romana e ha mantenuto nella gente molto del carattere latino a partire dalla lingua che ancora oggi qui si parla. Ma qui ci si sente come a casa, il calore delle persone è quello tipico nostrano: si viene sempre accolti con la sincera schiettezza di un sorriso.
Una città romantica nelle cui stradine è bello “perdersi”. Nei vicoletti silenziosi in cui si ode il vociare operoso della gente locale ci si sente come a casa. Si sente il rumore dei passi che echeggiano tra le casette basse e si è lontani dal traffico e dalle auto. Qui è difficile per loro circolare a causa delle scale che sostituiscono le strade nei tratti più ripidi in salita. A Lisbona, il rumore più forte che si sente è quello del frullino di un muratore che sta ristrutturando un appartamento per farlo diventare un B&B con vista sulla città.
C’è poi il rumore piacevole dello sferragliare del tram della linea 28 che attraversa la città e si arrampica su ardite salite con strettissime curve. Passa sfiorando gli angoli delle case a pochi centimetri. Se si evitano le strade della movida, le uniche cosa che si sentono sono il rumore dei passi, la musica gracchiante di una radiolina che arriva da una finestra aperta o lo struggente Fado che arriva da qualche locale di Chiado.
E’ bello camminare a piedi e scoprire degli angolini deliziosi dovunque: Lisbona non ha la grandeur parigina, nè l’imponenza imperiale di Vienna nè il brulichio impiegatizio dei manager nella city di Londra. Questa è una città per sognare e rilassarsi. Andando ad esplorare i suoi vicoletti, ci si rende conto che la gioia è nelle piccole cose, nello scoprire qualcosa avendo l’impressione di essere stati i primi ad accorgersene.
C’è una certa decadenza che non è mai abbandono, è il fascino del tempo che segna questa città i cui palazzi sono ben restaurati accanto ad altri che mantengono la loro dignità nobiliare pur essendo caduti in disgrazia. E’ quello che è accaduto al Convento do Carmo la famosa chiesa rimasta poi per sempre totalmente senza tetto in seguito ad un terremoto e mai più ricostruita: inarrivabile la bellezza delle sue navate gotiche attraverso le quali è possibile vedere la meraviglia del cielo.
Anche i tram e le teleferiche portano il fascino delle cose vecchie che ancora sono belle e funzionanti e che nessuno ha voglia di sostituire. La linea 28 è la più famosa di Lisbona, a bordo ci sono forse più borseggiatori che passeggeri, ma un giro sul più famoso tram del mondo è impossibile da perdere.
Spesso in fondo alle strade del Bairro Alto si scorge il mare: una presenza costante in tutta la città, di cui è impossibile non tener conto. E se Roma è famosa per i suoi Sette Colli, anche Lisbona è famosa per le sue alture (decisamente più ripide) e per i suoi innumerevoli belvedere dai quali godere di scorci indimenticabili a qualsiasi ora del giorno.
Miradouro da Graça, Miradouro de São Pedro de Alcântara, Miradouro do Castelo de S. Gorge, tanto per citare i più famosi che si affacciano sul centro città, ma il più originale è anche il meno conosciuto e meno turistico: il belvedere è quello che si gode dal camminamento in cima alle arcate del vecchio Acquedotto delle Acque Libere con la vista che spazia fino al Ponte 25 de Abril.
Ogni quartiere è un micromondo ben caratterizzato, con una sua storia e personalità. Si parte dal centro nei pressi della metropolitana Rossio ed è il classico cuore pulsante della città, la parte più turistica e animata, e ci sono una serie di altri quartieri deliziosi come l’Alfama che è il quartiere più tradizionale anche questo arroccato sulla sua collinetta panoramica. Da non perdere il Barrio Alto famoso per la sua vita notturna e il quartiere Oriente nato in occasione dell’Expo ‘98 con le sue architetture moderne e persino una funivia panoramica che corre sul mare.
Poco staccato dal centro, c’è il quartiere che sorge intorno alla Torre di Belem, una zona ad altissima densità turistica ma davvero interessante per il Monastero dos Jerónimos e il panorama della città che si gode dalla cima della torre.
Infine, per i veri intenditori, c’è l’Almada un quartiere di straordinaria bellezza che si trova di fronte a Lisbona, raggiungibile con un comodo battello sulla sponda opposta della grande foce del Tago: è un tipico borgo marinaro con ristorantini tipici sulle sponde del porticciolo e che offrono una vista bellissima sulla città.
Lisbona non sarebbe la stessa se non avesse una costante fissa: ovunque si vada si trovano i suoi famosi Pastis: i tipici dolci alla crema che si vendono ovunque in città.
I Pastis si mangiano uno dopo l’altro: difficile resistere, impossibile non provarli in una famosa pasticceria nel quartiere di Belem dove si può fare una fila di un’ora per aggiudicarsene uno.
E per rimanere in tema gastronomico, l’altra costante è il Bacalao, ossia il baccalà che da queste parti preparano in ogni modo possibile con un occhio alla tradizione e uno all’innovazione.
Lisbona resta nel cuore anche per la sua musica, che come la colonna sonora di un film vissuto in prima persona dal viaggiatore, resta attaccata ai ricordi che lo legano a questa città.
Il Fado con le sue sonorità nostalgiche e raffinate è la musica perfetta per questa città calda, passionale e magnificamente decadente. Ci sono decine di locali in cui è possibile cenare (a base di Bacalao e di Pastis) o bere qualcosa ascoltando il fado cantato dal vivo.
Una serata di fado è indelebile nel dna di chi l’abbia vissuta almeno una volta: i musicisti su una pedana allietano gli ospiti ai tavoli di localini poco illuminati con una musica notturna di grande eleganza apprezzata tanto dai locali, quanto dai turisti.
E per ultimo non si può dimenticare un altro elemento caratteristico della città: le sue maioliche azzurre chiamate Azulejos. Tutt’altro che paccottiglia turistica per vendere souvenir cinesi in Portogallo, queste da sempre vengono usate come elemento decorativo delle facciate dei palazzi più belli ed eleganti: un segno distintivo e caratterizzante di tutta la città e dei suoi dintorni.
Oltre al centro città, intorno a Lisbona ci sono due località imperdibili che meritano sicuramente la visita e si trovano a meno di un’ora di treno dal centro città.
La prima cittadina da visitare è Sintra a cui conviene dedicare una giornata intera: caratteristica non solo per la sua urbanistica e il cinquecentesco Palácio Nacional in stile manuelino con i suoi comignoli conici alti 33 metri e divenuti il simbolo della città, ma anche e soprattutto per il Castelo dos Mouros in stile moresco e Patrimonio UNESCO. E’ una roccaforte adagiata sulle ripide creste di un monte e dai cui camminamenti merlati si domina tutta la città di Sintra fino a Lisbona che si scorge in lontananza all’orizzonte guardando in direzione sudest.
Per finire in bellezza la giornata a Sintra, bisogna necessariamente dedicare un oretta al bizzarro Palácio Nacional da Pena, anche esso Patrimonio UNESCO. Un edificio decisamente originale con i suoi colori decisi e le decorazioni che sono un insolito mix di vari stili rivisitati: neogotico, neomanuelino, neoarabo, neorinascimentale e neobarocco. E’ un luogo fatto per stupire, ironico e divertente. Camminando tra le sue scalette, affacciandosi ai suoi balconcini, esplorando i suoi interni sembra di vivere nelle irreali prospettive di Escher o nei colori fiabeschi di Walt Disney.
La seconda cittadina alla quale non si può mancare è la deliziosa Cascais. A questa si può dedicare almeno una mezza giornata e concluderla con la relativa cena a base di bacalao tra le sue stradine nei ristorantini all’aperto. Il ritorno in treno fino a Lisbona è garantito fino a tarda sera.
Cascais è l’affaccio di Lisbona sull’Oceano: da qui si sente indissolubile il legame con il mare. Da non perdere, con una bella passeggiata che parte dalla stazione dei treni, sono il porticciolo con le sue spiaggette. Il suono della risacca arriva fino alle stradine dei bastioni con vista sul mare. Il faro bianco e blu che si infuoca di rosso al tramonto. I vicoli tipici da borgo marinaro che conducono il visitatore tra tantissimi palazzi decorati con le Azulejos blu come i colori del cielo e del mare che esaltano la bellezza del borgo.
Ora che si può ricominciare a pensare a viaggiare, Lisbona è una meta ideale e facilmente raggiungibile.
Con circa 3 ore di volo e una manciata di Euro (In questo periodo si fa Andata e Ritorno con la Compagnia di Bandiera a 70-80 euro in tutto), è quindi alla portata di tutte le tasche. Si può persino spendere ancora di meno volando con le low cost. Una destinazione così vicina ed economica diventa automaticamente parte dei “luoghi del cuore” per molte persone: si va a scoprirla per innamorarsene. Molti sono gli aeroporti italiani collegati con voli diretti.
Il modo migliore per muoversi a Lisbona oltre a camminare tanto a piedi, non sono i tram, ma la sua fitta rete di treni e metropolitane. Con le sue 4 linee permette di raggiungere ogni luogo di interesse turistico e tutti i quartieri anche più lontani dal centro. Un abbonamento giornaliero a corse illimitate è comodo per muoversi ovunque ad un costo irrisorio.
Per un bel giro della città fatto con calma e approfondito nei contenuti bastano 4-5 giorni pieni più il viaggio, si riuscirà così a vedere un pò tutto ciò di cui abbiamo parlato fin qui e facendosi un’idea del rapporto di questa città con l’Oceano sul quale si affaccia…
Questo Articolo con foto e parole di Roberto Gabriele è stato pubblicato sulla rivista Acqua & Sapone diretta da Angela Iantosca nel numero di ottobre 2021
Oggi ci troviamo in Molise, deliziosa Regione italiana poco più grande della Valle d’Aosta ma quasi totalmente sconosciuta al turismo. In tutta la Regione vivono circa 400 mila abitanti, grosso modo quelli di un popoloso quartiere di una città come Roma o Napoli.
L’ambiente (a parte pochi chilometri di costa adriatica) è quello delle montagne appenniniche, la Maiella è poco distante, il territorio è totalmente verdeggiante con boschi a perdita d’occhio e si trova qualche campo coltivato anche se l’agricoltura non è la principale forma di economia rurale da queste parti.
Ma il Molise non è solo Paesaggi, riesce a stupirci con paesini arroccati e scenografici come Pescopennataro che sembra circondata dalla Dolomiti, o il Teatro Italico di Pietrabbondante che è ancora perfettamente conservato nonostante i suoi 2000 anni di storia. E poi ci sono tradizioni culinarie sempre legate alla società agropastorale e alle vecchie tradizioni come i celebri Ravioli Scapolesi, i sughi fatti con il ragù di pecora, la pasta fatta in casa e salumi locali di produzione artigianale introvabili nei negozi…
Si arriva in Molise in circa 3 ore di auto da Roma, ma vale la pena dedicare a questi luoghi almeno un week end lungo: 4-5 giorni sono l’ideale per scoprirli con la giusta calma, anche perchè le strade anche extraurbane spesso sono strette e la velocità media di spostamento è di circa 50 chilometri orari.
In questa Regione, ci sono -come spesso accade in Italia- delle eccellenze uniche al mondo; una di queste su tutte, vale il viaggio fino a qui. Stiamo parlando della Pontificia Fonderia di Campane Marinelli che dal 1924 con una Bolla di Papa Pio XI è l’unica al mondo ad avere l’onore di potersi fregiare dello Stemma Pontificio per rappresentarlo nel volto delle campane che qui vengono fuse.
Entrando in questo luogo si sente subito qualcosa di diverso. Già il museo della campana ha cimeli che raccontano 700 anni di storia: qui è conservata la più antica campana firmata Marinelli della quale si abbia data certa che risale al 1339 ad opera di Nicodemo Marinelli (detto Campanarus), ma notizie non provate fanno risalire le prime notizie intorno all’anno 1000…
Dopo la seconda guerra mondiale i Marinelli costruirono il concerto di campane per la Cattedrale di Montecassino, distrutta dai bombardamenti. Il legame di Marinelli con la Santa Sede viene poi ulteriormente celebrato con la storica visita del 19 marzo 1995 di San Giovanni Paolo II. Ma il fascino di questo stabilimento non è tanto la sua storia, quanto la sua sacralità…
L’antica città sannita di Agnone è giustamente nota per essere il “Paese delle campane”, ma il merito della sua fama lo deve proprio alla famiglia Marinelli che da 10 secoli tramanda di padre in figlio la difficilissima arte campanaria e pare che questo sia il più longevo stabilimento al mondo per la fabbricazione delle campane.
Una campana non è e non può in nessun caso essere vista “solo” come un prodotto artigianale. E’ un prodotto che nasce appositamente per creare un legame tra l’uomo e il divino a tal punto che qualcuno dice che le campane sono “la voce di dio”. Ed in effetti, il loro suono che riecheggia anche a grande distanza nasce proprio per chiamare i fedeli ai momenti di rapporto con Dio.
Anche il momento della fusione del bronzo è qualcosa che va molto oltre la metallurgia ma che rientra nel rituale sacro. Le campane non vengono mai prodotte in serie nè per fare magazzino di pronta vendita, ogni pezzo viene realizzato su commissione con una attenta scelta anche degli elementi decorativi e delle scritte che andranno a rifinire la superficie. Al momento della fusione del bronzo nel suo stampo a cera persa, ci sarà un sacerdote per effettuare la Benedizione del Fuoco. Ecco quindi che anche nelle fasi più concrete e materiali della produzione, c’è la sacralità rituale del momento che viene celebrato con una profondità e una spiritualità che non si trovano in nessun altro procedimento industriale o artigianale.
Dal bronzo fuso nasce la campana benedetta con l’acqua santa che si mescola al fuoco in un rito ancestrale di grande suggestività fatto di arte e preghiera. Molto spesso a questo evento partecipano intere comunità parrocchiali che vanno ad assistere alla nascita della loro campana.
Qui tutto è rituale, ogni gesto sa di antico, è misurato, tramandato di padre in figlio da secoli. Entrare nella sala dei calchi di gesso che andranno a formare le decorazioni che appariranno in bassorilievo sulle campane è un’esperienza mistica. Ci sono migliaia di immagini sacre che possono essere applicate sulla campana a seconda delle necessità. Si possono scegliere immagini della Trinità, della Madonna e praticamente di tutti i Santi, degli angeli e di tutta la simbologia legata alla cristianità. Ma la personalizzazione viene completata con scritte e date commemorative, con preghiere e versetti biblici. Ogni scelta è definitiva, resterà per sempre scolpita sulla campana e anche questo ci fa sentire la sensazione di qualcosa che nasce per essere eterno.
Per creare la campana occorre innanzitutto scegliere la nota, perchè entrando qui la prima cosa che si impara è che il detto “essere stonato come una campana” è del tutto falso! E’ vero l’esatto contrario: le campane sono intonatissime, ciascuna suona una sola nota ma lo fa in modo perfetto seguendo la Scala Campanaria che è un insieme di regole e misure relative allo spessore, al peso, alla circonferenza e all’altezza che sono rapportate tra loro in base al timbro sonoro che si vuole ottenere. E’ possibile calcolare con assoluta precisione il suono che emetterà una volta finita e senza bisogno di ulteriori intonazioni. L’armonia, la matematica e la perfezione divina trovano un punto di incontro nella costruzione di una campana.
Armando e Pasquale Marinelli con i loro figli guidano un’Azienda che esporta eccellenza in tutto il mondo, ma parlando con loro ci si sente a casa, accolti come in una famiglia. Qui non ci sono i ritmi frenetici e l’ansia di fatturato e di produttività di una multinazionale, qui c’è il rispetto per le persone, per i loro gesti, per il tempo che dedicano al lavoro. In questa fucina tutto è etico, sostenibile, naturale, sequenziale. Anche i dialoghi tra le persone sono misurati: qui si parla a bassa voce, non serve urlare perchè non ci sono macchine al lavoro, ma solo uomini e donne che hanno gesti misurati, rituali.
Si percepisce a pelle la passione e la dedizione di tutti per il lavoro che fanno insieme fianco a fianco. Una intera azienda al lavoro per mesi per realizzare un solo pezzo che non ha elettronica per funzionare, che non ha bisogno di essere progettato e disegnato perchè la sua forma è talmente perfetta da non poter essere cambiata in alcun modo. Un solo pezzo di bronzo in grado di essere un prodotto finito la cui nascita, per quanto è perfetto, è già un miracolo. Qui sono la passione e la fede a muovere tutto: un binomio inscindibile.
Parliamo di passione perchè questa Azienda ha un Museo grande esattamente quanto la superficie dedicata alla produzione. Una scelta coraggiosa e generosa quella di dedicare così tanto spazio alla propria storia, a raccontare le proprie origini ma che ha portato Marinelli a produrre anche la campana commemorativa dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Stato e Chiesa si… “fondono” in questo posto.
Entrando nella Fonderia Marinelli si percepisce subito un forte odore di officina, di fumo e terra bruciata e di metalli limati, di concretezza e operosità. Il processo di produzione di una campana è affascinante e dura diversi mesi. Si inizia dalla creazione dell’Anima alla realizzazione del Mantello e della Falsa Campana che è un’intercapedine perfettamente identica alla campana che vi verrà fusa all’interno mediante un procedimento a Cera Persa.
Non è uno spazio silenzioso come potrebbe essere un luogo sacro, ma qui anche i pochi, pochissimi rumori che si sentono sembra che servano a scandire il tempo, il tempo della giornata, il tempo di una vita e di una tradizione plurisecolare.
Nello stabilimento potrà capitare di sentire qualcuno che batte con un martello per togliere l’argilla residua all’interno della campana appena fusa, ma è un rumore ovattato, lento, mai fastidioso, è più vicino ad un tonfo pesante che esce dalle sapienti mani di chi lavora da quando è nato in questa fonderia sospesa tra l’umano e il divino. E ogni tanto il silenzio viene rotto dal Campanaro che verifica con il suo diapason la perfetta intonazione della campana prima di spedirla a destinazione. E’un suono divino, mai fastidioso: che si sia credenti o no, il fascino di questo opificio che trasuda di storia e di qualità è percepito da chiunque.
Benvenuti in Molise, terra di zampogne e campane, di tradizioni ed eccellenze tutte da scoprire. “Il Molise esiste e mena duro” ha detto Maria Centracchio, molisana, quando ha vinto il bronzo nel Judo alle ultime Olimpiadi di Tokyo: una Regione tutta da scoprire.
Questo Articolo con foto e parole di Roberto Gabriele è stato pubblicato sulla rivista Acqua & Sapone diretta da Angela Iantosca nel numero di ottobre 2021
Un’altra occasione di presentazione del TTA, TRAVEL TALES AWARD, sarà Giovedi 11 Novembre alle ore 19.30 da NOC – New Old Camera, in Viale S. Michele del Carso, 4 a Milano presenteremo il progetto e gli output editoriali connessi; i Tre portfoli selezionati da Il Fotografo e pubblicati nel numero di luglio / agosto della rivista, le 4 storie che compongono la sezione Travel Tales sul numero 9 di CITIES, le 21 storie che compaiono nel libroTravel Tales a cura di Simona Ottolenghi. Qui potrete vedere tutte le storie premiate a https://traveltalesaward.com/storie-premiate/
Mostreremo anche le Storie premiate con la mostra attualmente allestita a Roma da Otto Gallery.
Ospitati da Giordano Suaria saranno presenti Angelo Cucchetto, Simona Ottolenghi, Roberto Gabriele, Giovanni Pelloso, Federica Berzioli e alcuni degli Autori selezionati, tra cui Mario Cucchi, Roberto Manfredi, Giuseppina Di Falco, Alessandro Castiglioni e Tania De Pascalis.
Ricordiamo il grande successo del Travel Tales Weekend, 1,2 e 3 ottobre 2021, che è stato il momento conclusivo di una serie di eventi nati per la promozione di progetti autoriali legati alla Fotografia di Viaggio, lanciata da Starring con Photographers.it e Isp in collaborazione con la rivista Il Fotografo, con il supporto tecnico di Viaggio Fotografico.it e di NOC e con il supporto operativo di OTTO Rooms e OTTO Gallery
Saremo a Milano in Viale San Michele del Carso 4 presso New Old Camera.
Oppure clicca su questo link: https://goo.gl/maps/FWfdHbtewbK3XmEq8
“Vanno le carovane del Tigrai…” recitava il ritornello di una canzone scritta durante l’invasione italiana dell’Etiopia, che a ritmo di foxtrot descriveva la discesa delle carovane tigrine verso la Piana del Sale, in Dancalia, il deserto Etiope al confine con l’Eritrea. La canzone dipingeva i nostri soldati non come invasori ma come soccorritori di un popolo che “… giammai conobbe libertà …” e che grazie a noi avrebbe potuto “… andare incontro alla civiltà …”. L’unica verità che traspare tra le molte inesattezze del testo, è la descrizione delle durissime condizioni di vita dei raccoglitori e dei trasportatori del sale.
Le carovane raggiungono all’alba, dopo essersi messe in movimento il giorno precedente, la Piana del Sale. E’ l’ampia area pianeggiante formatasi nella depressione dancala per effetto dell’alternanza, governata dai fenomeni di sollevamento tettonico e di variazione del livello del mare, dei periodi di invasione delle acque del Mar Rosso e delle successive fasi di essiccamento. I sedimenti di questa piana, di spessore variabile da 1 a 3 km, sono tuttora teatro dell’estrazione delle lastre di sale destinate al consumo animale.
Il sale viene cavato dalla superficie e tagliato in forma di tavolette trasportate dalle carovane di dromedari fino alle alture del Tigrai. E’ un’attività che viene svolta per un periodo limitato di tempo nell’anno, tra ottobre e marzo: prima e dopo il caldo è insopportabile anche per gli Afar, l’etnia etiope che cava e dà forma alle tavolette. Oltre al caldo i cavatori devono affrontare l’abbacinante luce riflessa dalla superficie salata, motivo per cui gradiscono particolarmente l’omaggio di occhiali da sole.
Non si sa quanto potrà ancora durare la loro attività, minacciata dall’avanzare di nuove strade realizzate da imprese cinesi che porteranno sulla piana del sale camion in grado da soli di svolgere il lavoro di più carovane, in una frazione del tempo impiegato dal trasporto animale.
Foto e parole di:
Riccardo Panozzo
https://www.facebook.com/riccardo.panozzo.1
Per un viaggio di incontri e foto in Cina, ho scelto il Guizhou. Non avevo interesse per le grandi citta “modernizzate” e neanche per le antichità più note al turismo. Il Guizhou è una regione rurale, dove tuttora l’agricoltura costituisce la base essenziale dell’economia locale. Una regione che vede la presenza di molti piccoli villaggi le cui tradizioni e abitudini stanno si cambiando ma più lentamente rispetto ad altre parti del paese; villaggi con una popolazione media anziana, perché anche qui i giovani, come succede in tutto il mondo, preferiscono trasferirsi nelle grandi città, alla ricerca di modernità e di lavori diversi da quello nei campi.
Complessivamente, ciò che più mi ha colpito in questi piccoli villaggi, e che rimane ben evidente nelle foto scattate, è stata la facilità del rapporto umano con chiunque abbiamo incontrato. Superando spesso a gesti o con l’aiuto della guida la barriera della lingua, quando abbiamo bussato a una porta ci è stato sempre aperto e ho potuto fotografare quanto non mai le persone, sempre ospitali e disponibili, pronti a offrirti una sigaretta, un thè o una parte del loro pranzo, all’interno delle loro abitazioni.
Le prime foto riguardano i Long Form, una tribù dell’etnia Miao, che si caratterizza per le vesti colorate e, soprattutto, per i tipici copricapi di legno ricoperto da matasse nere. Vivono in un’area remota, lontana dai flussi turistici e mostrano con orgoglio i simboli della propria tradizione.
Le altre foto riguardano le attività quotidiane più elementari, spesso legate al pranzo o a un momento di riposo. Ho partecipato anche a un matrimonio, semplice ma incredibilmente rumoroso: di fronte agli sposi un signore accendeva in continuazione batterie di “miccette”, piccole ma in quantità incredibile, e il cui intenso baccano è percepibile anche solo dal fumo ben visibile nella foto e dall’enorme scatola che ne conteneva solo una parte.
In nessuno dei miei viaggi precedenti avevo fotografato così tanto in interno e soprattutto persone. Un viaggio che ha cambiato il mio modo di fotografare e che ha trasformato ogni scatto, preceduto e seguito sempre da un partecipato scambio umano, in una testimonianza di comunanza con il soggetto fotografato; ogni foto rappresenta un volto e una storia a sé stante, con l’unica eccezione dell’ultima, il “villaggio”, necessaria a mostrare il contesto esterno dei posti visitati.
Travel Tales Weekend, è il momento conclusivo di una serie di eventi nati per la promozione di progetti autoriali legati alla Fotografia di Viaggio, lanciata da Starring con Photographers.it e Isp in collaborazione con la rivista Il Fotografo, con il supporto tecnico di Viaggio Fotografico.it e di NOC e con il supporto operativo di OTTO Rooms e OTTO Gallery a cui si aggiunge per l’iniziativa Officine Fotografiche Roma, una delle maggiori strutture dedicate alla Fotografia.
Rispettando lo schema di iniziative previste dall’Award la commissione composta da Angelo Cucchetto, Giovanni Pelloso, Roberto Gabriele, Simona Ottolenghi, Loredana De Pace e Paolo Petrignani ha selezionato 50 Storie tra tutte quelle che hanno partecipato all’Open Call dell’Award, e tra queste sono infine state scelte le storie poi premiate con le varie possibilità previste, che potete vedere a https://traveltalesaward.com/storie-premiate/
È quindi arrivato il momento di festeggiare, e per farlo degnamente abbiamo strutturato un’iniziativa dedicata a Roma, TRAVEL TALES AWARD WEEKEND, grazie al supporto dei nostri partner. La festa inizierà venerdi 1 ottobre con la serata di premiazione dedicata da Otto Gallery, e proseguirà sabato da Officine Fotografiche.
Per il week end (vedi programma qui sotto) abbiamo previsto una grande mostra finale con una selezione di Autori che verranno esposti a Roma dal 1 ottobre al 30 novembre 2021, la letture di portfoli di viaggio, la presentazione di Cities 9 e del libro “Travel Tales – Storie di viaggi e di viaggiatori“, una tavola rotonda e un tour fotografico a Roma con Roberto Gabriele.
Una grande festa nella quale tutti gli eventi SONO GRATUITI MA E’ NECESSARIO PRENOTARE con il form qui sotto, nel rispetto delle norme anti covid.
Gli Autori (e i loro viaggi) esposti in mostra presso OTTO Gallery saranno: Maurizio Trifilidis (Cina), Ilaria Miani (Afghanistan), Alessandro Zaffonato (Romania), Alessandro Castiglioni (Siberia), Tania De Pascalis (Marocco), Roberto Manfredi (India), Laura Loiotile (Cuba), Lia Taddei (Uzbekistan), Roberto Malagoli (luce del Mondo), Laura Pierangeli (Bhutan), Giulio Cesare Grandi (India). La curatela della mostra è di Simona Ottolenghi che ha progettato anche l’allestimento dello spazio.
Due mattinate (sabato 2 e domenica 3 ottobre) interamente dedicate alla lettura dei portfoli. Giovanni Pelloso, Angelo Cucchetto e Simona Ottolenghi saranno disponibili gratuitamente per esaminare progetti e fare consulenze gratuite di Autori che si sono dedicati alla Fotografia di Viaggio. L’attività è completamente gratuita ma occorre prenotarsi con il form qui in basso.
Il libro “Travel Tales – Storie di viaggi e di viaggiatori” edito da Starring ha selezionato 21 progetti autoriali di fotografia di viaggio e li ha pubblicati in un prezioso volume che presenteremo sabato pomeriggio presso Officine Fotografiche. Questi gli Autori presenti: nel volume a cura di Simona Ottolenghi: Milot market di Stefano Bianchi, Nel segno di Evo di Massimiliano Cambuli, Siberia on the road di Alessandro Castiglioni, Rasputin di Alessandro Castiglioni, Cobra Grande di Pierluigi Ciambra, Che ne Saharà di noi di Mario Cucchi, Kupkari di Carmen Garcia, Quel treno Asmara – Arbaroba di Gualtiero Fergnani, I colori della luce di Roberto Malagoli, The Shoe Factory di Marco Marcone, I suoni del silenzio di Jessica Melluso, Ebano di Adriana Miani, Tracce di Blues di Gigi Montali, Carovane del Tigrai di Riccardo Panozzo, Iran di Diego Pedemonte, Color Mundi di Laura Pierangeli, viaggiare in Italia di Vito Raho, Dolomiti on the road di Francesco Sammarco, Eagle’s Festival di Maurizio Trifilidis, Guizhou di Maurizio Trifilidis, Donne del Maramures di Alessandro Zaffonato
Ecco il programma previsto salvo ulteriori modifiche e restrizioni imposte dal COVID-19:
10,00 – 13,00 presso Otto Gallery
17,00-19,00 Presso Officine Fotografiche
9,00-13,00 uscita fotografica gratuita a Roma con Roberto Gabriele, si scatta!
10,00 – 12,00, da Otto Gallery Consulenze progettuali gratuite in slot di 30 minuti, con Giovanni Pelloso, Simona Ottolenghi e Angelo Cucchetto, focus sullo story telling (ingresso scaglionato con prenotazione obbligatoria)
Partecipare all’evento è COMPLETAMENTE GRATUITO, è però NECESSARIO PRENOTARE con il form qui di seguito e mostrare il GREEN PASS prima di entrare.
Scegli il tuo orario in base alle tue esigenze: abbiamo messo un orario esteso dalle 15 alle 20 proprio per evitare assembramenti e dare a tutti la possibilità di godere al meglio della mostra e di scambiare due chiacchiere con gli Autori o gli altri visitatori. Abbiamo previsto uno slot di 30 minuti che saranno più che sufficienti per fare tutto, volendo potrai intrattenerti ancora dopo la fine del tuo orario in base ai flussi di persone del momento.
Sui Monti dell’Altaj della Mongolia vivono i pastori dell’etnia kazaca; per motivi tradizionali e culturali profondamente radicati, praticano la caccia con l’aquila, le cui tecniche e conoscenze vengono tramandate con orgoglio tra le diverse generazioni.
La caccia si svolge principalmente nel periodo più freddo, quando la terra è coperta di neve e le greggi richiedono meno attenzione. Un periodo in cui la rigidità del clima impedisce la mobilità dei pastori e le poche occasioni di incontro con altre famiglie possono anche essere a ore di viaggio. Le volpi sono la principale preda dei rapaci; il cacciatore trattiene la pelliccia della preda, che usa per il suo vestiario, e ne lascia la carne al rapace.
Alla fine di settembre i pastori si radunano per sfidarsi in una serie di gare di abilità e destrezza in un evento per tutti noto con il Festival delle Aquile.
Il campo di gara si trova in un altopiano a 2.000 metri, in una area priva di qualsivoglia abitazione, lontana dal più vicino centro abitato. I cacciatori arrivano a cavallo anche da zone molto distanti, sfoggiando abbigliamento e accessori tradizionali.
L’aquila, con la testa protetta da un cappuccio di cuoio, è posata sul braccio o su un bastone legato alla sella. Il rapporto tra il cacciatore e il suo rapace è esclusivo e dura molti anni.
Il Festival è una importante, e quasi unica, occasione d’incontro collettivo, l’ultima prima dell’inverno. Alle gare partecipano cacciatori di diverse età. Parenti e amici assistono con passione e forte coinvolgimento. Tra i spettatori, gli stranieri sono ben accetti. Vicino al campo di gara, si montano le tende pronte a fornire cibo e ospitalità, facilitando la socializzazione tra i presenti.
Le gare principali consistono proprio in una simulazione dell’azione di caccia: in una il cacciatore lascia la sua aquila su una collina, le toglie il cappuccio e poi, raggiunto un punto distante un centinaio o più di metri, la richiama, la invita a raggiungerlo e a posarsi sul suo braccio.
In una altra l’aquila deve catturare una preda, generalmente un pellicciotto di volpe trascinato dal cavallo del suo cacciatore, e posarsi su di essa.
Il cacciatore richiama l’aquila lanciandole una preda e urlando l’ordine con suoni gutturali. Velocità, obbedienza e precisione dell’aquila sono gli elementi di giudizio per vincere.
I pastori mongoli sono tutti eccellenti cavallerizzi e tra le gare più spettacolari, vi è quella della raccolta da terra di piccoli oggetti da parte di cavalieri lanciati al galoppo: velocità e numero degli oggetti raccolti sono gli elementi di vittoria.
Alla fine della seconda giornata, i cacciatori, sempre a cavallo, tornano a casa; per loro inizia un lungo periodo di solitudine. Anche io devo tornare: ho l’impressione di esser entrato in un altro secolo, per poi uscirne malvolentieri ma certo più ricco di emozioni e suggestioni.
“Carrasegare” significa carne viva da smembrare. Il ciclo della morte e della rinascita: la fine dell’inverno e l’inizio della stagione agricola.
Uomini vestiti di orbace e pelli, carichi di campanacci, con il volto annerito che sembrano venire dalla preistoria ripetendo gesti e movenze millenarie.
Il richiamo ai riti pagani, legati alla rappresentazione della morte del Dio Dionisio e della sua rinascita, portatrice dell’energia che attraverso il sangue rende fertile la terra e ne fa maturare i frutti.
Testi e foto di Andrea Del Genovese
Per partire con noi per la Sardegna dal 16 al 26 settembre 2021: https://viaggiofotografico.it/product/sardegna-pastori-e-pescatori/
Per Carrasegare, ossia per Carnevale: https://viaggiofotografico.it/product/carnevale-sardegna/
In un paese lontano lontano, famoso per i sigari, il rum e la rivoluzione, si lavora duro. Ovviamente parliamo di Cuba, patria della boxe dilettantistica. Si stima che un ragazzino su due pratichi quella che per i cubani è una nobile arte e non una lotta.
A sette/otto anni inizia la formazione in palestre di quartiere volute e finanziate dagli stessi abitanti. Ci si dedica anima e corpo per rincorrere il sogno olimpico e rappresentare così il proprio Paese.
Una volta conclusa la propria carriera si diventa allenatori e il ciclo continua con le generazioni successive. La dedizione, la tradizione storica e il ritmo che i cubani hanno nel ballare li rendono pugili forti che poi hanno trionfato nel corso della storia.
Percorrendo le strade dell’Avana con sorpresa e gioia mi sono infilata (cogli l’attimo) in questa palestra di boxe e ho assistito all’allenamento dei ragazzi, guidati sapientemente dall’esperienza dei maestri.
È stata una bellissima esperienza che mi ha portata a riflettere sulla semplicità con cui questi ragazzi vengono tolti dalla strada ed educati allo sport come palestra di vita.
Ho immaginato che il sogno del bimbo coi guantoni sia quello di salire sul ring, di combattere, di far diventare il suo sport una vera e propria professione, ma questo a Cuba non è previsto per nessuno.
Per il momento la magia racchiusa nei guantoni dei cubani resterà una riserva e un privilegio di quella bella “Signora” chiamata Cuba.
L’Avana 2020
Testi e foto di Laura Loiotile
Partecipo al concorso Travel Tales Award con un racconto sul viaggio in Afghanistan e India, tratti dal mio diario. Le foto sono in parte in bianco e nero, quelle del viaggio tra gli incontri e i torrenti del Badoskan. Quelle dei Buddha e della valle di Band-i-Amir le ho lasciate a colori come dalle originarie diapositive.
Le fotografie sono in parte del Sottoscritto Francesco Carmignoto e in parte dell’amico Francesco Ghion che ci ha lasciati quattro anni fa. Il suo ricordo mi riempie sempre di affetto e di nostalgia per il tempo passato. Foto e racconti vogliono essere un omaggio alla sua gioia per la vita e alla sua bravura.
Il testo ci vede già arrivati in Afghanistan con le nostre due piccole Fiat e non descrive il lungo percorso, bensì la atmosfera e le impressioni riportate sul diario.
Introduzione dall’Autore Francesco Carmignoto
Francesco Carmignoto
Da Kabul abbiamo deviato per la pista di Charikar, nel Nuristan. Qui il gruppo del Koh-i-Baba domina l’imponente fuga dei “colli” del Badokskan, nell’Hindu Kush, con cime superiori ai 6000 metri.
Un grande silenzio. Solo il torrente Kunduz, ricolmo di acqua cristallina, gorgoglia verso Est, verso l’Amu Darya. Più avanti formerà i sette laghi blu di Band-i-Amir.
Le rovine della “città rossa”, la fortezza che ha resistito a Tamerlano, sono ancora imponenti e dominano il villaggio. La gente della tribù hazara sorride e saluta. Ha i tratti mongoli ereditati dalle orde che Gengis Khan spingeva lungo queste valli al centro dell’Afghanistan alla conquista della Persia.
Da una curva della pista, come da un belvedere, l’alta parete rosata appare traforata a perdita d’occhio. Innumerevoli grotte, rifugio per secoli dei monaci, fanno da cornice a due nicchie con statue maestose, i Buddha di Bamiyan.
Sono scolpiti nell’arenaria, in piedi, appena coperti da un leggero mantello che scende in pieghe sottili. Ricordano le statue dei grandi condottieri greci e romani. Sono la testimonianza più bella dell’arte di Gandhara, l’incontro tra gli artigiani greci al seguito di Alessandro Magno e l’arte indiana. In alto, sulla volta della nicchia si intravvedono vecchi affreschi.
Le immagini di Bodhisattva e dei fedeli intenti alla preghiera hanno aureole dorate attorno al capo, come quelle delle icone del Cristo bizantino e dei santi nella pittura del Trecento.
Il buddismo era giunto in questa valle con i pellegrini nepalesi, attorno al terzo secolo d. C. e qui era sorto un monastero con migliaia di monaci. Il buddha più grande, alto più di 50 m, è già molto rovinato, forse dai tempi delle scorrerie di Gengis Khan o dalla conquista dell’Islam. La faccia è mezza cancellata e le gambe erose.
Eppure emana una suggestione sottile, una sensazione di pace e di tolleranza. Il braccio destro, velato dal manto leggero sembra ancora accogliere con la forza tranquilla di un tempo immutabile.
Verso sera ci avviamo verso i laghi di Band-i-Amir. Passiamo steppe infinite e aride colline dai colori bruciati. Dall’alto vediamo una serie di laghi azzurri illuminati dal tramonto rosato. Scendiamo fino ad una grande spianata sotto una falce di luna che scompare dietro le alte montagne.
Siamo soli, mentre il cielo si riempie di stelle nelle ultime luci viola. Le miriadi di stelle palpitanti nel blu evidenziano ancor più la Via Lattea luminosa come seta. I picchi altissimi sono rosati anche di notte.
Una incredibile magia trovarci sperduti quassù, tra le montagne più misteriose del mondo.
Partecipo al concorso Travel Tales Award con un racconto sul viaggio in Afghanistan e India, tratti dal mio diario. Accompagnano le fotografie scattate per la maggior parte dal mio caro amico Francesco Ghion, che ci ha lasciati quattro anni fa. Il suo ricordo mi riempie sempre di affetto e di nostalgia per il tempo passato. Foto e racconti vogliono essere un omaggio alla sua gioia per la vita e alla sua bravura.
Il testo ci vede già arrivati in Afghanistan con le nostre due piccole Fiat e non descrive il lungo percorso, bensì la atmosfera e le impressioni riportate sul diario.
Il racconto si riferisce a Kabul e alla sua gente di antica fierezza.
La Foto 14 relativa a Kabul ci mostra tutti a cena con il segretario d’Ambasciata, la 15 Francesco Ghion con il parroco della chiesetta all’interno dell’ambasciata. La sua parrocchia era l’Afghanistan.
Kabul ci accoglie con il solito caos delle città orientali, nel gran brulicare di gente a piedi e di tanti calessi trainati da un cavallo. Qui li usano come taxi.
Le nostre due piccole Fiat, che da Padova hanno già percorso più di 10.000 km, creano sorpresa e curiosità. Al centro di un incrocio un vigile dall’uniforme senza più colore è immobile e osserva il via-vai da una piccola pedana.
Si rianima appena vede le nostre auto che si fanno largo a stento. Scende deciso nel “traffico”, si mette a fischiare come un’orchestra, intima l’alt ad un vecchietto con l’asinello, ai carretti e ai numerosi pedoni pieni di fagotti multicolori e poi, con gesto magniloquente ed il volto illuminato dal suo più bel sorriso, ci indica che la via è libera.
Il bello è che ad ogni incrocio c’è lo stesso tipo di vigile, che esegue le stesse grandi manovre solo per noi.
La città vecchia è un groviglio di viuzze dove si affacciano botteghe di ogni genere. L’affollamento è straordinario, carretti, asini, capre, qualche fuoristrada scassato e tanta gente con vesti fantasiose. Gli uomini usano vesti e mantelli sovrapposti e turbanti colorati in testa. Alcuni ostentano lunghi fucili, piuttosto vecchi e scassati. Forse solo decorativi.
Impariamo a distinguere le tante etnie. I pashtun della zona di Kandahar portano un grande turbante bianco. I borghesi di Kabul un elegante berretto in pelliccia di karakoul. Gli afghani del Nord indossano il pakol, un berretto marroncino che sembra una padella con il bordo ingrossato. Assomiglia al copricapo dei Signori del Rinascimento italiano.
Davanti ad un cinematografo nel bazar, una piccola folla commenta sorpresa i manifesti del film americano Cat Ballou, in cui Jane Fonda si mostra in una posa curiosa.
Seduto a terra, un erudito legge il Corano ad un devoto accovacciato di fronte. L’afghano sembra un po’ perplesso.
Un venditore d’acqua porta un otre ricolmo. La barba è tinta di rosso con l’hennè. E’ vestito di una stoffa ricavata da un sacco, ma con taglio quasi occidentale. Orologio al polso e toppe sui gomiti ne fanno un elegantone.
Al mercato le donne con il burqa appaiono silenziosi fantasmi colorati. Da lontano vedi volteggiare un leggero mantello dai colori tenui dell’azzurro e del rosa. Scende dalla testa ai piedi e le mille pieghe si muovono sinuose. Un bimbo in braccio si nasconde tra le pieghe.
Ne siamo veramente affascinati. Nella immaginazione dei nostri vent’anni, così tutte le donne diventano belle, una immagine fluttuante, un corpo etereo che il vento si diverte a nascondere ed evidenziare, un balenare di occhi neri che ti osservano curiosi. Poi il capo si abbassa e il burka scompare tra la gente in un leggero fruscio.
Francesco Ghion
Durante un viaggio in Albania ho visitato il caratteristico mercato di Milot, cittadina situata circa 50 Km a nord di Tirana.
Si tratta di un mercato che dai primi anni del secolo scorso si svolge ogni domenica mattina e che richiama moltissime persone che vengono a Milot dai paesi e dalle campagne circostanti attratte dalla notevole varietà di mercanzie in vendita.
È possibile acquistare di tutto: nella zona ovest del mercato, la più lontana dal centro della cittadina, vengono venduti, in condizioni igieniche molto discutibili, animali di molte specie. Nella zona centrale vengono venduti prevalentemente abiti, calzature, casalinghi, attrezzi da lavoro e oggettistica di vario tipo ed inoltre iniziano le bancarelle che vendono generi alimentari.
Nella zona nord-est, quella più vicina al centro di Milot, vengono venduti soprattutto prodotti della terra e generi alimentari (miele, marmellate, ecc.) prodotti artigianalmente dagli stessi venditori.
Le persone sono cordiali e molto ben disposte verso gli stranieri e in particolare verso gli italiani, anche se in molti casi non vogliono essere fotografate; alcune donne indossano abiti tradizionali.
Stefano Bianchi ha di recente partecipato a Travel Tales Award Edizione 2021 la grande iniziativa che premia i migliori Racconti fotografici di viaggio. Oltre 150 Autori si sono confrontati sul tema unico proposto e organizzato da Angelo Cucchetto con Italian Street Photography, Photographers, Cities e la collaborazione della Rivista IL FOTOGRAFO che ha dato ulteriore grande visibilità a tutta l’iniziativa.
Tra i partner promotori di tutto l’evento ovviamente non potremmo che esserci anche noi di Viaggio Fotografico e in collaborazione con gli spazi espositivi di OTTO Gallery
Puoi vedere tutto il lavoro di Stefano Bianchi pubblicato sul sito ufficiale di Travel Tales Award: https://traveltalesaward.com/2021/05/25/milot-market-di-stefano-bianchi/
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“Cara” è il racconto di un viaggio nello spazio della selvaggia Islanda e nel tempo della memoria; il viaggio come occasione per perdersi, ritrovarsi e ridisegnare la propria identità.
In questo percorso, fotografia e scrittura si contaminano per mezzo di alcune cartoline scritte a me stessa per ricordare piccoli o grandi momenti della mia vita, per percorrere idee semplici o complesse ed esplorare nuovi orizzonti.
Questo lavoro di Daniela Giannangeli fa parte dei lavori selezionati dalla giuria del primo contest fotografico Travel Tales Award Edizione 2021 nel quale oltre 150 Autori si sono confrontati sul tema unico dei racconti fotografici ci viaggio.
L’intervista che potete vedere qui di seguito è stata fatta all’Autrice da Loredana De Pace per NOCSensei ed è stato uno dei Riconoscimenti speciali offerti dalla nostra grande iniziativa organizzata da Angelo Cucchetto con Italian Street Photography, Photographers, Cities e la collaborazione della Rivista IL FOTOGRAFO che ha dato ulteriore grande visibilità a tutta l’iniziativa.
Tra i partner promotori di tutto l’evento ovviamente non potremmo che esserci anche noi di Viaggio Fotografico e in collaborazione con gli spazi espositivi di OTTO Gallery
Puoi vedere tutto il lavoro di Daniela Giannangeli pubblicato sul sito ufficiale di Travel Tales Award: https://traveltalesaward.com/2021/05/24/cara-islanda-di-daniela-giannangeli/
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Cara D,
quella notte c’era la luna piena e la cometa Hale-Bopp. Notte luminosa: tuo figlio nasce ed entra a far parte del grande ciclo cosmico! Miscellanea di emozioni, immagini, sentimenti: il tutto della vita in pochi istanti. La summa.
Cara D,
sono passati venti anni! Mi viene in mente una vostra vacanza in Grecia, nel 1999. Era l’undici agosto ed il sole cominciò a diventare quasi nero. L’atmosfera era metallica e la testa girava un po’. Tuo figlio iniziò ad urlare con un pollice alzato ed un’ape ben salda sopra. La luce grigia rendeva il tutto molto surreale, con una certa carica di tragicità, ma attenuato il dolore del suo mini dito e tornato il sole, cominciaste a ridere di gusto di niente, abbracciati, come succede ancora e ancora…
D
Cara D,
qualche volta, pensi ad una breve conversazione con una tua ex alunna. Giulia ti gironzolava intorno, durante un momento libero dalle lezioni e tu le chiedesti se avesse bisogno di te, lei rispose di no ma non si allontanava, quindi, le domandasti se fosse stata sicura e le dicesti:
“Ti ascolto! “
“Lo so, maestra! “
Poche, preziose parole: il senso che hai cercato di dare al tuo lavoro di tanti anni che non hai soltanto concepito per insegnare a “leggere, scrivere e far di conto”, ma per esserci, come adulto affidabile su cui contare lungo un pezzo di strada, sempre!
D
Cara D,
“Tutti i dossi del podere salteranno fino in cielo e tutti i pantani sprofonderanno all’inferno prima che io rinunci ai miei diritti e alla mia indipendenza.” Laxness, Gente Indipendente.
Storie. Storie di lotte e di salite, di orgoglio e fede. Fede nella propria indipendenza. Non puoi non ricordare quando tuo padre combatteva contro i preti-padroni per rivendicare i suoi diritti. C’eri. Stavi sempre attaccata ai suoi pantaloni, nonostante non fossero faccende da femmine e, men che mai, da bambine; ma tuo padre era un contadino illuminato e ti lasciava vivere quelle storie. Capisti presto da che parte stare e non fu così difficile…
D
Cara D,
certe volte, girovaghi nei tuoi pensieri alla ricerca delle tue radici. È proprio come un viaggio nel tempo a caccia dei ricordi più antichi. I primi che riesci a ritrovare nella tua memoria sono legati al verde di prati freschi e all’arancio del fuoco caldo. Il verde e la mano di tuo nonno che ti conduceva negli amati campi, in quelle passeggiate senza fretta, lente e lunghe, dove lo spazio sembrava sovrabbondante e le risate dei suoi occhi trasparenti erano semplici, profonde.
L’arancio e la voce di tua nonna che ti raccontava storie accanto al maestoso fuoco della cucina. Ricordi l’odore di quella grande stanza e dei libri che lei ti riportava tutte le volte che si recava in paese.
Aspettavi il suo ritorno alla finestra. La vedevi arrivare da lontano, in sella alla sua bicicletta, mentre pedalava insicura sulla strada bianca e polverosa che portava al casolare e poi, seduta sulle sue ginocchia, partivate insieme per un bel viaggio, accompagnate da fate, lupi, eroi…
D
Cara D,
non credi di aver impiegato troppo tempo per concludere quella storia? Già, il tempo… Sei solita prenderti quello che ti serve, quasi a centellinare i momenti, forse per renderli unici o, forse, è il caso che ci mette la sua mano. In fondo, non ti interessava più laurearti, però volevi chiudere quella questione che sentivi sospesa e allora hai deciso di imprimere un’accelerazione repentina al tuo tempo lento ed è arrivato quel quattro luglio: sei andata a discutere la tua tesi, scritta di getto in una settimana perché nella tua testa era già stata concepita e c’era anche lui: tuo figlio. A quel tempo, aveva otto anni. Stava impettito in prima fila e ascoltava che la mamma raccontasse come vedeva un mondo possibile, dove le culture si intrecciassero, generando un potente ibrido di vita. E lo tenevi per mano, quasi stritolandola, mentre il presidente di commissione assegnava, assecondando un bel gioco, centodieci a te e la lode a lui, a cui la tesi era dedicata…
D
Cara D,
so che ti trovi nella terra del ghiaccio e del fuoco, dove il mondo sembra appena nato. La senti quasi cedere sotto i tuoi passi, mentre il vento gelido ti penetra negli occhi e le fulminee sterne artiche ti sfiorano la testa, liberando un canto acido. Tutto è puro. Non c’è nessuno. Più in là, rare pecore solitarie si proteggono dal freddo fra le dune di una lunga spiaggia chiara, dove soltanto il mare borbotta insieme al fiato dell’aria.
Te ne stai immobile, guardando in direzione della Groenlandia e allenti gli ormeggi della tua mente di fronte al sole di mezzanotte…
D
Cara D,
ti piace camminare, lo so. È così che fai pace con il mondo che ti circonda, quando ti sembra che questo diventi cattivo con te.
Allora, vai lungo le tue strade bianche; vai a trovare i “tuoi” due pini sulla collina che, come sentinelle, proteggono il tuo passaggio; ritorni dentro i tuoi paesaggi identitari che ti hanno vista crescere, ridere ma anche piangere. Sali sulla groppa del Monte Subasio che odora di narciso selvatico in primavera, dove i cavalli e le mucche brucano l’erba nuova in libertà, ciondolando.
E tutto sembra tornare al suo posto…
“Soltanto solo, sperduto, muto, a piedi riesco a riconoscere le cose.” Pier Paolo Pasolini.
D
Le chiese di campagna, ch’erbose hanno le soglie…Così nei versi di Pascoli. La chiesetta di Madonna della strada, una frazione di Scoppito, aveva la soglia invasa dai rovi, la porta divelta a metà, pochi vetri alle finestre. L’interno era tutto imbiancato a calce, salvo una sparuta immagine di madonna che sovrastava il misero altarino. La chiesetta era la casa dei rondoni che vi avevano nidificato numerosi e che stridevano acutamente sotto il tetto, volitando in un intreccio di traiettorie mirabili, per poi uscire a guadagnare la pura aria, lanciati nel cielo turchino a compiere più ampie volute. Quell’anno era venuto, sul piazzaletto della chiesa, un operatore a proiettare su uno schermo di tela tirato su alla meglio, una serie di vecchie comiche di Ridolini, tutte spezzettate. Una seconda volta, invece, fummo fortunati ad assistere, non so come, ad un film abbastanza recente intitolato “Sabotatori”, film che io vidi da una posizione molto defilata da cui le figure apparivano appiattite e allungate.
Era trascorso solo qualche anno da quando avevano spesso di transitare, sullo stradale davanti alla chiesetta, tutti quegli autocarri militari scoperti, carichi di soldati armati, uomini scuri di pelle, tutti con turbanti sul capo. Uno di quegli anni vi era passata la Mille Miglia, che avevamo ansiosamente atteso in molti, restando ad aspettare il passaggio di Tazio Nuvolari e seguitando poi a parlarne per molti giorni. Era quello il tempo in cui la figura di uomo ideale era per me il meccanico. Alla fornace ce n’era uno di nome Dante, un uomo che stava tutto il tempo a manovrare su una moto, che provava da ferma facendone andare il motore a tutta callara, come diceva lui, spandendo intorno un odore acuto di olio di ricino fritto. Mi faceva impazzire la sua tuta tutta d’un pezzo, frusta e sporca d’olio, con la chiusura-lampo di traverso. Dante aveva mani forti, che serravano gli strumenti con calma abilità; quando aveva le mani occupate ad aggeggiare, teneva la sigaretta tra le labbra nell’angolo sinistro della bocca, strizzando l’occhio per evitargli il fumo.
Dell’Abruzzo ricordo queste cose scabre, questa gente di campagna, i paesaggi invernali e la neve calpestata delle strade sassose, una immensa selva di biancospino, il canto dei contadini sulle aie al tempo della trebbiatura, il loro duro lavoro intorno al frumento, che lanciavano in alto con quel grande setaccio per liberarlo dalla gluma. Ecco, l’immagine dell’Abruzzo, che a scuola la maestra diceva “Abruzzi”, per noi inspiegabilmente al plurale come “le Calabrie” e “le Puglie”, l’immagine dell’Abruzzo era proprio una immagine scabra, come ho detto. Il solo fatto che quella possente montagna, quel massiccio imponente fosse semplicemente chiamato “sasso”: il Gran Sasso, mi testimonia oggi di un atteggiamento chiuso, di una inclinazione a risparmiar persino le parole, a ridurne la portata al puro significante. Questo atteggiamento, che è nella sostanza un profilo spirituale, significa alla fine una integrità, che dura sia pure per poco, il tempo che dura una favilla, ma che resta come percezione forte di un mondo costituito di pochi elementi semplici, naturali, piccoli doni dati a tutti, ma che poche volte, o una soltanto, riusciamo a vedere come grandi tesori e che, una volta intravisti per tali, restano in noi come indelebile idea del mondo, una fra le tante, bella come tante. Un mito, il “Sasso”, il sasso grande. Un altro mito di questa terra resta per me il lupo, discorro dell’epoca immediatamente post-bellica, parlo delle stragi di pecore e dello sconforto susseguente, parlo dei lupari che venivano riconosciuti come meritori difensori della comunità pastorale, tantoché riscuotevano mance in natura, alquanto risicate in verità, come sempre mi è capitato di osservare, conducendo in giro il lupo ucciso, messo di traverso su un somaro, a mostrarlo alla gente.
Il paesaggio dell’Abruzzo, quello che io ricordo. I prati smaltati di pioggia, l’odore della terra intrisa, l’umido respiro della terra, l’odore delle pecore; il vello folto scosta l’acqua ma esala un fortore selvatico, il pastore ha l’odore, lo stesso, delle sue pecore, il pastore vive in un cerchio di pioggia, resta sotto la pioggia senza neppur aprire l’ombrellaccio che porta a tracolla, e non cerca ricovero nella capannuccia di rami, gli bastano l’incerata e il suo feltro a punta; il pastore fischia i suoi acuti richiami da pecoraio, che servono solo a far compagnia a se stesso e a farne alle pecore, anche se sono chiuse, aggruppate strette nello stabbio di corda, al cane bianco che non ha riposo attorno al gregge, come se fiutasse continuamente un pericolo. Il pecoraio guarda in giro all’orizzonte sotto la tesa di feltro, anche se non dà a vederlo e sembra che guardi fisso alle sue pecore, invece conosce gli alberi e vede le volpi passare lontano e a notte parla alle stelle.
Il paesaggio contiene poche cose disegnate, dovunque si guardi, quello che c’è è venuto su naturale, soltanto gli steccati sono fatti dagli uomini ma sono grezzi, intrecciati di rami storti come storti sono i muriccioli di pietre a secco; la strada asfaltata è l’unico vero disegno, la strada con la casina rossa del cantoniere, con le piazzole di materiali messe a intervalli regolari, dove dagli stradini sono stati ammonticchiati, in cumuli a forma di perfetta piramide tronca: i sassi e la ghiaia grigia per le toppe, per le riparazioni da fare usciti fuori dall’inverno. E i fontanili, sì anche i fontanili che rispecchiano il cielo sono costruiti dagli uomini, e così i calzini messi agli alberi, la fascia bianca di calce dipinta ai piedi dei tigli che seguono la strada e nella notte segnano il cammino. Tutto il resto, le macchie degli abeti le siepi fitte di rovi gli arbusti i meli selvatici i prati di fragole ribes lamponi uvaspina il ruscello il profilo dei monti, tutto è un capriccio di forme come le nuvole e la loro ombra, come i massi sparpagliati sul terreno e ricoperti di licheni e di muschio.
L’Abruzzo! Uno stato d’animo speciale, influenzato certamente dal carattere non solo fisico del luogo, che mi ha fatto provare a lungo e molte volte quel brivido metafisico, effetto della mia natura contemplativa e della mia sensibilità panica. Così una stagione di vento, le sempre mutevoli strade che esso percorre, come le strade del cuore. Il vento soffiava quella stagione, lassù sull’Altopiano delle Rocche, in una maniera nuova per me. Era un vento strapazzone e ridente che spirava nei golfi del mio cuore e io ero pieno di vento e facevo parte del vento. Il vento, spirito della notte, sorvolava i tetti frusciando e io con esso perdevo a tratti la memoria nel sonno e a tratti la ritrovavo. Il fruscio lene di altri mondi, di mondi remoti. Avevo allo stesso tempo una sensazione di familiarità con me stesso e di estraneità. Andavo con il vento, come i nugoli di polvere vanno, come le foglie a mulinelli. Udivo il vento urtare sui vetri con violenza, sulla carta incatramata messa a riparo dove mancava una lastra. Il vento passava sotto le porte e spifferava nelle stanze…Quella fu anche la stagione delle lucciole nelle notti serene. Le vedevi per un attimo, vedevi la loro tenue luce solo per un attimo in un punto del buio e un istante dopo in un altro punto. Ma era la stessa luce, la stessa lucciola? Non vi è nella notte un maggior intenerimento che la sorpresa di guardare una lucciola accendersi indifesa sul palmo della tua mano e volare subito via. E non c’era in quelle notti sull’altopiano una visione più alta della Via Lattea, dove la mia ossessione di infinito si placava. Potevo guardare all’infinito, potevo vederlo. Una cosa nebulosa, l’infinito, una cosa imprecisa: ci sono fiamme accese a distanze siderali dove l’occhio non arriva. Ma sai che ardono malgrado i tuoi occhi.
Abruzzo © Renato Gabriele
Facebook: https://www.facebook.com/RenatoGabrieleScrittore
Per rivivere insieme a noi i luoghi di questa “prosa poetica” di Renato Gabriele puoi seguirci nel nostro Viaggio Fotografico che faremo in Abruzzo dal 21 al 26 giugno 2021, poi per chi vorrà il tour prosegue direttamente per il Molise e chi si iscrive ad entrambi i viaggi risparmia 100,00 Euro sul totale. Info, costi e iscrizioni sul sito: https://viaggiofotografico.it/product/abruzzo-aquila-e-pecore/
«Le rovine non sono il passato, sono il futuro che ci invita all’attenzione e a godere del presente» così Josef Koudelka ci presenta il suo lavoro Radici esposto in questi giorni a Roma nel Museo dell’Ara Pacis fino al 29 agosto 2021.
Sono andato a visitare questa questa mostra straordinaria per la sua originalità che è stata riaperta in questi giorni (dopo la chiusura causa covid delle scorse settimane) e per fortuna l’esposizione è stata prolungata: hai tempo fino al 29 agosto per vederla, salvo nuove chiusure e restrizioni che speriamo non ci siano!
“Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza” questo è il titolo della mostra ed è l’unica occasione in Italia per apprezzare da vicino oltre 100 fotografie in formato gigante da Josef Koudelka, il fotografo Magnum stranoto per i suoi reportage (come quello sulla Primavera di Praga del 1968) che in questa occasione ci mostra il suo lavoro che in oltre 30 anni ha dedicato a fotografare i siti archeologici di tutto il Mediterraneo. Tutte le foto hanno incantevoli tagli panoramici e anche le poche in verticale usano questo formato allungato che si presta perfettamente alla narrazione degli scorci raccontati dall’Autore. Le stampe, tutte in bianco e nero sono provengono dagli scatti realizzati dall’Autore tra Siria, Grecia, Turchia, Libano, Cipro, Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Portogallo, Spagna, Francia, Albania, Croazia e, naturalmente, la nostra Italia.
Koudelka definisce questo i suoi tagli “Prospettive instabili” ed in effetti guardandole si ha un senso di disorientamento perchè in alcune occasioni gli orizzonti sono volutamente e visibilmente inclinati per rendere più dinamica l’immagine, per enfatizzare il senso della millenaria storia di questi luoghi testimoni del tempo. Non tutti sanno che Koudelka ha una formazione da Ingegnere aeronautico e queste immagini (insolite per un Autore come lui) rendono il senso del volo radente acrobatico.
La mostra RADICI allestita all’Ara Pacis è una scelta precisa per integrare il senso dell’archeologia in un museo che è un ponte ideale di collegamento tra l’antico monumento romano e l’edificio costruito per conservarlo dall’architetto Richard Meier. Le immagini di Koudelka dialogano con la struttura che le contiene e allo stesso tempo è contenuto e contenitore della grande storia di Roma.
Quello che mi è piaciuto di questa mostra è il suo senso immersivo, il suo valore di testimone della storia e dei luoghi. Entrando nei bellissimi spazi allestiti si viene proiettati in un mondo inaspettato, senza tempo. Apparentemente immutato da oltre 20 secoli. Le stampe, bellissime, sono tutte in bianco e nero di grande formato e panoramiche. Il visitatore ha l’impressione di osservare il mondo attraverso una fessura che gli permette di “spiare” un mondo che da solo, non sarebbe in grado di vedere. E la fotografia in quanto tale ha questo grande potere: mostrare agli altri ciò che ha visto l’Autore, ciò che era lì in quel momento ma che nessun altro ha avuto la sensibilità e l’acume di rilevare.
In alcuni casi con queste immagini si sfiora l’astrattismo. La purezza delle forme viene sintetizzata in un bianco e nero che per la sua semplicità tende a farle diventare opere grafiche che sembrano disegnate dalla mano dei secoli. Ed è così che un anfiteatro assume le sembianze di cerchi concentrici disegnati nella roccia, che i frammenti di una colonna sembrano essere una serie di ruote dentate di un antico meccanismo.
Koudelka, da bravo fotografo, si serve della luce per “dipingere” le sue creazioni prima sulla pellicola, adesso sul sensore della sua fotocamera. La luce fornisce i contrasti, i volumi, ci da il senso della materia e ci permette di toccare ciò che possiamo solo vedere. “Radici” esprime perfettamente tutto questo. Alcune opere sono state montate su dei cubi di legno: l’osservatore per vederle deve chinarsi su di esse proprio come farebbe per osservare un reperto ritrovato in un sito archeologico.
Un viaggio virtuale nel tempo e nello spazio: camminando tra le opere ci si perde nel cercare di riconoscere i luoghi dell’iconografia classica e restare colpiti da come la capacità di un grande Artista abbia saputo interpretarli rendendo iconica ogni pietra. Ci si immerge in una sorta di bagno rituale nel quale il viaggiatore trova un onirico oblio dei propri pensieri.
Non perdetevi questa mostra, sarà l’occasione per ri-vedere Roma e ri-scoprire un grandissimo Fotografo che sicuramente non conoscevate in questa veste.
SITO UFFICIALE: www.arapacis.it
DOVE: Lungotevere in Augusta (angolo via Tomacelli) . Museo dell’Ara Pacis,
QUANDO: Fino al 16 maggio 2021, PROROGATA FINO AL 29 AGOSTO 2021
CATALOGO: Contrasto – Radici.
ORARI: Dal lunedì al venerdì, ore 9.30-19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima).
BIGLIETTI: “solo Mostra” intero € 11; ridotto € 9; € 22 biglietto speciale Famiglie; integrato Museo dell’Ara Pacis+ Mostra per non residenti a Roma intero € 17 (€ 16 per residenti); ridotto € 13 (€ 12 per residenti).
NORME COVID: Verificare sempre gli orari sul sito con le nuove disposizioni per Covid-19
PREVENDITA OBBLIGATORIA: turni di ingresso contingentati salvo differenti disposizioni dell’amministrazione di Roma Capitale. Info tel. 060608 (tutti i giorni ore 9 – 19) PER LA PREVENDITA OBBLIGATORIA CLICCA QUI.
Se esiste una strada epica è proprio la Route 66 negli Stati Uniti. Epica perché il solo nome la lega ad una serie di miti che hanno influenzato non solo il nostro modo di viaggiare ma anche quello di essere e di pensare. “The mother Road”, la chiamano, ossia “la strada Madre” quella da cui tutte le strade hanno origine mentale. I cartelli lungo i locali storici la chiamano con tutti gli altri aggettivi possibili: “Legendary” oppure “Historic” o amichevolmente “Old”.
Ma andiamo per ordine e iniziamo proprio dalla fine: La Route 66 non esiste più. E forse proprio questo è servito ad aumentarne il fascino e la notorietà, a renderla immortale nonostante sia stata ufficialmente dismessa e sostituita dalla più moderna Interstate 40, una enorme autostrada a 6 corsie che segue grosso modo il vecchio tracciato e collega ora come allora Chicago a Los Angeles, anzi, a Santa Monica, per essere precisi.
Gli americani hanno spazio e soldi: preferiscono rifare una strada che ampliarla, e i criteri di costruzione della Route 66 (risalivano a circa 100 anni fa ) oggi non sono più validi: c’erano troppe salite, troppi villaggi, troppa strada fatta per aggirare una montagna. Oggi i tracciati sono diversi, si punta tutto a risparmiare tempo, soldi, benzina e quindi la strada è morta fisicamente ma il suo spirito è vivo più di prima nell’immaginario collettivo di milioni di viaggiatori in tutto il mondo.
Perchè il mito? Perchè le sue 2138 miglia (circa 3400 chilometri) sono state percorse da milioni di camionisti e automobilisti che la percorrevano in modo pionieristico nei decenni che andavano dagli anni ‘20 ai ‘70 del secolo scorso. Occorreva affrontare la strada: sedimentare dentro di sé la distanza e i tempi necessari a percorrerla e afferrare il volante per mettersi alla guida. I primi anni, ovviamente non c’era neanche l’asfalto: era un vero e proprio rally da fare, e il premio era già il solo arrivare a destinazione. Le figure più importanti legate alla strada erano proprio i meccanici e i gommisti insieme ai benzinai che avevano un ruolo più sociale che economico: senza di loro il viaggio non sarebbe arrivato a destinazione.
Dato che ci volevano giorni per percorrerla interamente, come nelle nostre moderne autostrade le altre tappe obbligate in cui fermarsi erano i motel ed i ristoranti disseminati lungo tutto il percorso. Migliaia di avamposti sparsi nel nulla, nel bel mezzo di un deserto o in cima ad un valico di montagna sul quale, una volta arrivati, occorreva far riposare i motori per abbassarne la temperatura che saliva in proporzione allo sforzo dovuto alla pendenza e alla quota. Le soste non erano tutte uguali, c’erano dei posti che vivevano di una loro notorietà dovuta a qualcosa che li distingueva da tutti gli altri e la gente era disposta ad allungare le proprie tappe per arrivarci: la più buona torta di mele della Route 66, oppure la più bella cameriera del Missouri, o la famosa bistecca di manzo del Big Texan da 72 once (circa due chili di carne) che si può mangiare gratis ma solo per chi riesca a finirla in 60 minuti, entrando poi di diritto nell’Albo d’Oro del ristorante di Amarillo.
La Route 66 era una sorta di lungo villaggio su strada in cui ciascuno degli esercenti conosceva bene i propri vicini e aveva almeno sentito parlare di tutti gli altri; con alcuni si era in amicizia, con altri in guerra commerciale. Nessuno era mai veramente da solo lungo quella strada, anche quando intorno non c’era anima viva. Quei locali, a volte fetidi altre volte delle vere a proprie oasi di pace, erano sempre da qualche parte dietro ad una curva, in fondo al rettilineo, in cima alla salita per dare conforto o aiuto ai viaggiatori.
E tutto questo ben lo sapevano Jack Kerouac e gli altri poeti della Beat Generation che vedevano nella grande strada la realizzazione di un ideale di libertà, il mezzo per vivere il grande sogno americano. La strada come metafora della vita, non solo come percorso fisico su un nastro di asfalto, ma come un vero esercizio di stile filosofico. La strada era, ed è ancora, il mezzo con il quale spostare il pensiero dall’orizzonte in cui è rinchiuso dentro casa. Ecco quindi che il solo fatto di percorrerla è già una crescita personale, un arricchimento interiore. “On the Road”, era il titolo del libro che ha ispirato tutto questo movimento di pensiero: essere sulla strada è la condizione necessaria per avvicinarsi fisicamente e mentalmente a tutto questo.
La strada è luogo di incontro con gli altri e con se stessi, un posto di scambio di merci e di esperienze. La sosta in un locale era l’occasione per sapere le condizioni meteo, o di eventuali incidenti, frane ecc. Così come avviene nella vita di tutti i giorni quando ci si ferma a riflettere su cosa ci accade intorno, altrettanto il viaggio on the road è l’occasione per incontrare tutto questo e il modo migliore per farlo è di sicuro una scoppiettante moto Harley Davidson che è la realizzazione meccanica di uno stile di vita basato su grandi ideali di pace e libertà.
Poi è arrivata la modernità, la Route 66 ha perso velocemente la sua utilità di collegamento ma non il suo fascino. Oggi è stata sostituita e coperta dal nuovo tracciato che in alcuni tratti la lascia ancora visibile al Viaggiatore in tutta la sua bellezza. In alcuni tratti, sì… Oggi la strada ci appare come una viuzza di campagna con una sola corsia per senso di marcia, i locali che un tempo erano brulicanti di vita, di lavoro, di persone e di servizi ora sono chiusi, decadenti, abbandonati e pieni di fascino senza tempo. Alcuni di quelli che si trovavano nelle città ancora riescono a restare aperti, sono diventati dei “musei”, vere istituzioni che ancora funzionano a pieno ritmo, alcuni sono stati rinnovati o lasciati al loro destino, altri infine sono diventati negozietti in cui si vendono souvenir turistici legati alla strada: antiche targhe di automobile originali, giubbotti da motociclisti, insegne di vecchi ristoranti o marche di benzine e pneumatici degli anni ‘50 mischiati a paccottiglia di produzione seriale cinese.
Nonostante tutto, la strada mantiene ben vivo il suo mito, di strade famose per i Viaggiatori ce ne sono tante in tutti i continenti: dalla Transandina alla Panamericana, dalla Transtibetana alla Carretera della Muerte o alla Great Ocean Road, ma la Route 66 le batte tutte per fascino e notorietà, a parte la nostra Via Appia, l’antica Regina Viarum che da 2000 anni assolve a questo ruolo per noi italiani.
La cosa che lascia stupiti è che anche nei tratti urbani le strade sono vuote, le auto sono pochissime e non esistono file ai semafori. Le cittadine che si incontrano lungo il percorso, anche quelle abitate, hanno strade sono enormi anche in pieno centro e sempre vuote, la gente non cammina a piedi, l’America non è un posto dove si può camminare a piedi, le distanze sono troppo grandi. L’impressione che si ha è quella di vivere in un vecchio film western nel quale le case non sono più di legno ma di cemento armato e i cavalli ora hanno quattro ruote ed un motore.
Lungo “La Strada” si ha ancora quel senso di vuoto che provava James Dean in Gioventù bruciata, ed è ancora possibile sentirsi liberi come Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider. Questa strada è stata la la musa ispiratrice di film anche più recenti come Thelma e Louise nella loro fuga dalla vita, e persino di Cars, un film di animazione della Pixar in cui le auto prendono vita e anche questo è ambientato sulla “sixtysix”. Impossibile viaggiare senza sentire di vivere come in un film, impossibile non riconoscere un po’ di noi stessi in ciascuna di quelle storie; guidando su quelle strade si rivivono quelle emozioni in prima persona. Come in un film.
Così come nella vita ci sono periodi in cui ci si ferma a pensare, anche le soste fanno parte del viaggio, ed è possibile scegliere il posto giusto per farlo: ci sono locali che mantengono il loro fascino inalterato, in cui è ancora possibile mangiare un hamburger ascoltando la musica nostalgica e intramontabile di Bob Dylan o le note del rock texano e incalzante dei barbuti ZZ Top. Questa strada ha ispirato artisti di ogni genere; i musicisti non potevano rimanere insensibili al suo fascino, pensando ad essa hanno scritto gli evergreen che oggi tutti cantano a squarciagola nella radio della macchina noleggiata per viaggiare da quelle parti. Musica e cibo in viaggio sono elementi di fortissima ispirazione e mescolati insieme sono in grado di moltiplicare le emozioni, si mescolano con la nostra anima, con la nostra cultura e fanno poi parte di noi. Nessuno mai potrà dimenticare il sapore della senape sulle patatine mangiate in auto guidando e ascoltando Elvis o i Rolling Stones nel deserto del New Mexico. Una emozione forte non si dimentica, più emozioni forti vissute contemporaneamente rimangono profonde ed evidenti come una cicatrice della quale andare fieri, come un enorme tatuaggio da esibire in strada.
Oggi percorrere quello che resta della vecchia Route 66 è ancora un’impresa: la strada non è tracciata, occorre avere una buona mappa e seguire (dove ci sono) le indicazioni per la “Historic Route 66”, sono delle stradine secondarie desolate e piene di fascino, a volte si interrompono nel nulla e occorre tornare indietro perchè non si innestano con nessuna altra strada. Occorre armarsi di pazienza e di un certo spirito di avventura per “sentire” la strada; il bello è proprio scoprirla miglio dopo miglio, accorgersi di scorci mozzafiato o di noiosissimi passaggi nel vuoto assoluto del grande continente americano. Questo è il viaggio dei viaggi, quello che si fa per esserci, per sentire di far parte di qualcosa, di un luogo, di una storia che non finirà mai. La Route 66 è l’essenza stessa del viaggio, è il viaggio fatto per viaggiare, per scoprire se stessi sulla strada della vita.
Si impiegano circa 2 settimane a percorrere tutta la strada che separa il lago Michigan dall’Oceano Pacifico. Per fermarsi a vedere qualcosa come per un selfie vicino ad un motel storico, si impiega del tempo che va aggiunto ai tempi di guida e questo va sommato ai tempi di un riposino o di una visita ad una delle “Ghost Town”, le tante cittadine rimaste abbandonate intorno ad un distributore di carburanti in disuso. Camminando in questi luoghi si sente un silenzio che va oltre il non sentire rumori, questo è qualcosa di più profondo, quasi il rispetto che si deve ai luoghi sacri o ai cimiteri. La sensazione che spesso si prova è quella di una grande anima che aleggia ancora in quei posti che prima erano così pieni di vita, di gente, di lavoro.
Questo viaggio deve essere preparato non sul web e sulle migliaia di libri che ne parlano dal punto di vista turistico, questo è un viaggio dell’anima, occorre prepararsi spiritualmente ad una esperienza che sarà forte e travolgente, nulla sarà più come prima. Partire per la Route 66 significa documentarsi su chi l’ha percorsa prima di noi, ascoltare musica, guardare foto e film, leggere romanzi. Significa guidare con il finestrino abbassato, senza l’aria condizionata, solo così la strada potrà essere un’esperienza di vita e non “solo” un grande viaggio.
Andiamo per ordine: il nome corretto di questo piccolo stato himalayano è Bhutan e non Buthan, in poche persone lo conoscono, molti non lo hanno neanche mai sentito nominare, eppure esiste sulle mappe di Google, sugli Atlanti moderni ed è uno dei Paesi al mondo con la miglior qualità della vita…
Il Bhutan è l’unico Paese al mondo ad avere il Ministero della Felicità! Lo ha voluto il Re per i suoi Sudditi e funziona benissimo: la gente sta davvero bene e si vede… Il nome Bhutan è incerto, c’è chi dice derivi dal sanscrito Bhota-ant, ossia “la fine del Bhot” cioè del Tibet, oppure dal sanscrito Bhu-uttan che significa “alte terre” poichè siamo alle pendici dell’Himalaya.
La bandiera è rettangolare ed è divisa in due triangoli con il giallo che rappresenta la monarchia, e l’arancione che rappresenta la religione buddhista; sulla bandiera campeggia un drago simbolo di benessere.
Ho chiesto alla mia guida se fosse vera la voce che ci era giunta che in Bhutan esiste il ministero della felicità o fosse solo una fake news che corre tra noi Viaggiatori occidentali alla ricerca di esotiche stranezze. Ebbene si, il Ministero della Felicità esiste ed è un ministero unico che si occupa a livello centralizzato di tre cose ritenute fondamentali per il benessere dei Sudditi del giovane Re: Pubblica Istruzione, Sanità e Lavoro.
L’Istruzione viene garantita gratuita ed è obbligatoria per tutti fino alla scuola superiore, poi chi vuole frequentare l’Università deve andare all’estero grazie a progetti finanziati dalla Cooperazione Internazionale. Il Ministero si occupa poi della salute, e anche questa viene ad essere gratuita per tutti. In Bhutan ci sono pochi piccoli ospedali e vanno bene solo per il pronto soccorso e per i reparti di Ostetricia, per tutto il resto il Paese paga le cure all’estero per i suoi cittadini (mandandoli a curare soprattutto in India). Infine il Ministero della Felicità provvede al Lavoro di tutti: chi non ha come sostentarsi può fare richiesta di un terreno demaniale da coltivare: una concessione gratuita cui hanno diritto coloro i quali non hanno altri modi per sostentarsi.
Il sovrano illuminato sostiene che quando i suoi Sudditi hanno istruzione, sanità e lavoro hanno tutto il necessario per essere felici. E in effetti non sbaglia perchè camminando per le vie della Capitale Thimpu si percepisce un clima di serenità sui visi delle persone.
Ma per essere un Re amato e rispettato davvero dal suo Popolo ci vuole coerenza ed empatia con il Popolo. Qui in Bhutan il sovrano gira in città a piedi senza scorta e guida personalmente la sua auto (un normalissimo SUV), e ha l’Autista solo nei momenti Ufficiali come ad esempio le visite di altri Capi di Stato… Il padre dell’attuale sovrano, ha abdicato il Regno a favore del figlio Jigme Khesar Namgyel Wangchuck perchè a soli 53 anni sentiva che un giovane di 18 anni, meglio di lui, avrebbe saputo condurre il Paese.
Quando viaggio, mi piace guardare i numeri che mi danno la dimensione delle cose, un’idea, dei riferimenti, per capire cosa accade intorno a me. Un Regno con soli 800.000 abitanti: uno Stato intero che è popoloso come un quartiere di Roma…
Viene da chiedersi come gestire un territorio che comunque non è piccolo, con così poche risorse…. Ne esce un problema di Finanza anche perchè, qui non si pagano le tasse! Come fa lo stato a finanziarsi? Fortunatamente il Bhutan si trova ai piedi dell’Himalaya e grazie allo scioglimento delle nevi, i suoi fiumi sono sempre in piena e hanno una portata di acqua enorme: le potenti dighe quindi producono energia elettrica che viene venduta alla Cina e all’India e gli incassi che ne derivano sono sufficienti e sostentare la macchina statale senza che le persone siano obbligate a pagare le tasse.
Le tasse le pagano solo le grosse Compagnie straniere e la gente vive con uno stipendio comunque dignitoso che gli permette di vivere ed essere realmente felici.
In Bhutan c’è l’obbligo, per tutti i dipendenti pubblici, di vestire con gli abiti tradizionali, e nei giorni di festa l’obbligo è esteso a tutti i Cittadini, e siccome ci sono decine di giorni di festa ogni anno in tutto il Paese, da queste parti è più facile vedere le persone vestite con abiti tradizionali che con abiti moderni! Tutto questo è previsto dal “codice delle buone maniere” che qui chiamano Driglam namzha.
Il vestito tradizionale maschile si chiama Gho, è una sorta di lunga vestaglia e lascia le gambe coperte dai lunghi calzettoni neri, la parte alta, con il bavero abbondante, viene usata come se fosse un grosso tascone, una sorta di marsupio nel quale ciascuno può tenere oggetti, documenti, cibo, attrezzi e tutto ciò che in essa può essere trasportato. La cintura nera che li cinge in vita è la Kera ed è fondamentale proprio perchè fa da “fondo” al tascone. Per le donne c’è invece la Kira, un vestito lungo fino alle caviglie fatto con tessuti colorati e decorato con disegni geometrici tradizionali.
Ma in Bhutan la tradizione non è solo negli abiti, qui viene mantenuta viva anche nelle case che devono avere un particolare tipo di finestra in legno sagomato e colorato secondo lo stile locale. E non è tutto: anche i colori ammessi in qualunque tipo di utilizzo pubblico o privato sono stati previsti in una speciale “mazzetta cromatica” che ne ammette solo alcuni escludendo tutti gli altri.
Il buddismo è la Religione di Stato in Bhutan ma c’è anche una certa apertura verso altre religioni come l’induismo e per le minoranze cristiane che possono professare però il loro credo solo in casa. I suoi festival di origine religiosa si svolgono all’interno degli Dzong che sono i tipici edifici del Bhutan con una curiosa funzione mista di centro militare, e allo stesso tempo anche religioso, tutto all’interno di uno stesso edificio. Gli dzong, vengono costruiti rispettando le regole di stile imposte per legge e naturalmente il lavoro di progettazione viene stabilito in accordo tra le autorità religiose e quelle civili.
Ogni dzong ospita un festival religioso annuale chiamato tshechu durante il quale si svolgono le danze con costumi coloratissimi che rappresentano animali reali o mitologici chiamate cham che possono durare per ore ad un ritmo lento e incessante, angosciante e tetro. Fondamentalmente le trame dei cham celebrano la vittoria del bene sul male con la sottomissione del diavolo e la liberazione dagli spiriti maligni.
Durante i cham, tra i danzatori ufficiali che si esibiscono in faticose ed estenuanti coreografie rituali, fanno la loro comparsa assolutamente incontrollata delle figure di disturbo (anch’esse mascherate) che entrano liberamente e improvvisamente nella scena per ridurre la tensione. Hanno una ruolo fondamentale e allo stesso tempo irriverente e dissacrante e portano gli spettatori (e i bambini in particolare) a grosse risate inaspettate e nessuno si mostra disturbato dalla loro presenza che ha esattamente la funzione del clown nel nostro circo durante l’esibizione del domatori di leoni.